lunedì 31 dicembre 2012





Pagine. Parole spiegate / di un senso sconosciuto.
Un anno come un'ora.
La fretta di somigliare all'altro.
Sul labbro tremano note - senza risonanza.

sulla pelle il gelo preme
sulle ciglia si poggia un volto - solo delineato.

Merletti e terracotta.
E poi ancora pagine. Spiegate e sconosciute.


Buon anno a voi.




giovedì 20 dicembre 2012

Adieu


9 Ottobre 2011
Ed in ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni angolo ed in qualunque volto, cercherò – stringerò disinfetterò - la mano tua. E asseconderò il tempo che toglie – che mangia divora scompone - certezze.
Sarai, quando non ci sarai, sarai ricordo inciso negli occhi, di teneri istinti. Sarai, sempre sarai tutte le volte che non ti ho chiesto scusa, o quando non t’ho tenuto la mano. Sarai la bambina che sei, che non è mai stata figlia, e mai grande. Dell’amore lasci traccia. Della Vita tu hai il nome. E dal buio dei tuoi anni – o forse nitidezza, non lo so - dai tuoi tormenti, dalle lacrime e dai sospiri, me l’hai insegnata - donata e indicata -, la Vita.
In ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni strada e in ogni volto, cercherò – ritroverò, carezzerò, bacerò- la mano tua.

A nonna Vita,
a nonna mia.

20 Dicembre 2012

"Passan sul prato nonno e nipotino.
Il nonno è vecchio, il bimbo piccolino;
il bimbo è biondo, il nonno bianco;
il bimbo è dritto, il nonno curvo e stanco.
Passan sul prato, dandosi la mano...
il nonno dice: «Presto andrò lontano,
Molto lontano, e più non tornerò!»
E il bimbo: «Nonno mio, ti scriverò »."

Filastrocca di Lina Schwarz

D'ora in poi, ti scriverò.


mercoledì 19 dicembre 2012

Vita




[Strade e tremori. Sulla scia del tempo si va delineando un nuovo ricordo. Fumo blu. Fotografie anni '50. La bellezza interrotta. Strade e patchouli. La tua crema-il mio senso di te. Donna e solo un'ombra, bimba ed è già luce. Le corse per tenerti stretta a me ancora un'ora. Cartine geografiche come anni. Strade. Strade come Vita.]


(E un altro vetro rotto.)

domenica 16 dicembre 2012

Cos'era (da "Blizzard of one")



I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l'ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l'oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un'alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, essendo stato, era...

II
Era l'inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l'ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz'altro era quello.
Era anche l'evento mai avvenuto - un momento tanto pieno
che quando se ne ando', come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio' sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.


(da Mark Strand: "Blizzard of One" - 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in "West of your cities" - a cura di M. Strand e D. Abeni - Minimum fax - Roma 2003)

martedì 11 dicembre 2012

Il était une fois




E se si potesse rileggere tutto, e rileggerlo a ritroso, invertire l’ordine degli eventi, cominciar dalla fine:

allora tu avresti gli occhi gonfi e lucidi, ed io il mio sorriso che maschera bene il pensiero. Avremmo nulla da dirci – "dopo" ore a declinare parole -, e un congedo formale per evitare gli addii. Poi sarebbero idee, ognuna intrecciata all’altra, di progetti futuri e carezze poco frequenti. Sarebbero conti di stipendi mai ricevuti, e un’ipotesi goffa della nostra casa e del nostro giro del mondo: io col mio sogno di letture e sceneggiature di altri senza scopo di lucro, come una beneficenza estetica di quella bellezza che è in assoluto, e tu con l’auto che hai sempre sognato, a convincermi che i tuoi ragionamenti sui raggi solari siano inconfutabili e dimostrabili – ed io a ridere forte di quanto sei buffo-. Poi sarebbe il tempo dei giorni a Roma, i primi, e dell’entusiasmo di andare. Poi ancora i nostri abbracci, di notte, a scambiarci promesse nell’incoscienza del sonno. Le tenerezze che dimentico. Il caffè la mattina. Lo specchio imbrattato di schiuma da barba, in casa mia, che non era la nostra. Tu che mi chiedi di leggere per te l’ultima cosa che ho scritto. Il vino troppo buono per lasciarlo a domani. Poi ci sarebbero le giornate di primavera inoltrata, col sole, su tappeti verdi d’erba fresca e lo scroscio dell’acqua a farci da nenia. Cogli occhi rapimmo un pezzo di cielo-cogli occhi custodimmo un solo desiderio. E poi l’ebbrezza di quella sera, la canzone che scelsi per te, la mia e la tua insicurezza a fondersi in forza. Guardarsi e riconoscersi, improvvisarsi istintivi, pelle sulla pelle. Fu quello il momento.

Se si potesse rileggere tutto, e rileggerlo a ritroso, invertire l’ordine degli eventi, cominciar dalla fine e all’inizio approdare, ora saremmo io e te, in un Aprile piovoso, a ridere forte promettendoci l’un l’altro niente più che un inizio. Un C'era una volta e c'è ancora adesso, in un tempo cristallizzato e che per sempre sarà fermo, un bacio francese ed una vecchia promessa.


Così che il ricordo di noi si faccia bello, 
e le promesse di oggi facciano meno paura. 

domenica 9 dicembre 2012

Il dono migliore -delle (meravigliose) banalità-



Un foglio che forse cancellerò presto. Che è vita e, per questo, non può esser taciuta.




E allora ti davo la mano, mentre, piccola come non ricordo di esser stata mai, ti domandavo: “dove andiamo?”. Ti davo la mano e poco importava il giorno, l’ora, il tempo speso. Non era che un momento, quello che a me sembrava eterno. Poterti e dirti, sorriderti e domandarti, toccarti. Ogni Natale ha il suo bagaglio di emozioni: le luci per la strada, coriandoli di neve artificiali, intermittenze colorate, il freddo che non è che il sollievo di scaldarsi, la fretta di abbracciarsi.

E allora ti davo la mano, quel giorno di inverno, dicendoti: “è pronto in tavola, vieni”, e con gli occhi dicevi la gioia, e con gli occhi tenevi fede ad una promessa. Con la penna, stasera, tradisco la mia: non dire di te agli altri. Ma nel sangue ho la tua passione che scorre, che pure era di inchiostro. Cercare di non essere banale, e poi trovare l’amore l’unica banalità che è meravigliosa. E’ che ogni Natale ha il suo carico di ricordi: quel Babbo Natale che della parola Natale faceva una barba finta e un cappello rosso, per restare il Babbo migliore del mondo. La fiducia che avevi in me che pure m’è sempre sembrata un dono, senza carta e senza fiocco. Il tuo sapere vasto eppure così dimesso, il tuo sorriso che è tutto quel che resta. La tua moto, il mio aggrapparmi in curva, in salita, e ovunque andassi. E poi, ancora e non abbastanza, mano nella mano. 

E' che, accennando a te in un gioco di parole, ogni Natale ha il suo babbo: ad uno ho smesso di crederci allora, quando sentivo i tuoi passi -illudendomi fossero i suoi- mentre, silenziosamente, riempivi l'albero di pacchi e sorprese. L'altro, il mio babbo, l'ho avuto accanto e poi l'ho visto scomparire, e, come tutti gli spettacoli migliori -come la neve, il Natale, i sorrisi-, finire. Ed ora, qui, ad illudermi di sentire ancora quei passi, e di confonderli, e di svegliarmi, felice del primo fiocco di neve.

E poi ogni Natale ha il suo sacco e i suoi doni: gioie da scartare e sorrisi da comprare, e quello stare insieme che fa male, se la tua sedia resta vuota. E allora stasera, come ogni anno da dieci anni, non decorerò alberi e non vorrò luci. Ma ti do la mano, ancora, mentre mi sorprendo a sorridere -sommessamente, come si fa delle gioie vere- pensando che il dono migliore io l’ho avuto già. 


Si chiama papà.


A S. e a M., che sono il mio Natale.


giovedì 6 dicembre 2012

Il sole delle sei




Un tuo sospiro. Anni luce lontano quel sentiero che –tortuoso – legava le mie gambe alla tua terra. Quella sottintesa certezza di esser parte di un’esistenza naturale, tra la partenza e il non arrivo. Cemento o cera a dividermi dal traguardo – la consapevolezza di poter tutto e tutto non riuscire. Il margine del foglio chiede tregua per quella corsa che non so fermare. E, come d’inchiostro, ancora sanguinare. Poi il sollievo di saper ancora inventare: due schizzi di colore all’angolo del bianco, semmai finirà il giorno avremo colori artificiali  da guardare. E mano nella mano – dita tra le dita - inventeremo nuove maglie, e nuovi incastri e nuovi nodi. E occhi dentro gli occhi nuove strade. La mia camicia sporca di caffè, al 32 di quella via che ti portò da me. 

"Hai tempo? Passeggiamo?"

Sanpietrini come tappe da toccare, arrivo prima io o arrivi prima tu. Perché noi non facciamo squadra in questa lotta, in questo rincorrerci ostinato. Rivali e mai nemici, lontani e mai dimenticati.

"Il sole delle sei è quello che più mi somiglia".

Lo credo. Lo vedo. Questo sguardo universale che tutto vede e nulla lascia in ombra, le tue palpebre e le mie gambe nude, le rughe accennate sotto il mento, la mia cicatrice che è un segno sul cuore più che sulla pelle. E di noi due ciò che resta è un viale, panchine, odore d’erba e occhi grandi – giovani – che ci guarda(va)no sorpresi. E di noi due ciò che resta non è una vittoria. E’ il puntare un obiettivo e non lasciarselo scappare, è una catena di parole che non riuscirò mai a spezzare.

Il sole delle sei 

Sai

Ti somiglia

Ed è un quadro, un disegno, uno schizzo, nelle pupille e più in fondo. E' quello che resta e quello che avremo  di noi, è l’ennesima forma che, tra tutte, non so riconoscere, il sogno d’istinto che non so cancellare. Le dita incrociate a tener fede ad una promessa. Il mio profumo e la tua giacca. La foto che scattai quando te ne andasti, dopo aver bevuto con me l'ultimo caffè/la foto che scatterò quando te ne andrai, dopo aver bevuto  il nostro primo caffè.






Sotto quel sole delle sei che tanto ti somiglia. 
Sotto il sole delle sei che è già una promessa.


domenica 2 dicembre 2012

-




Il tuo profilo migliore, le dita che somigliano a uncinetti –sempre agitate a riprendere il filo del discorso-, le scuse ripiegate come jeans e all’occorrenza indossate, i tuoi ritardi sulla vita, i ritagli di una fotografia mai buttata, i giri a vuoto in auto, l’aria fresca dal finestrino –dritta sulla faccia, a risvegliare la realtà-, l’ennesimo Dicembre in fila sull’autostrada, le mani onnipotenti di tua madre, quella maglia che è lì solo per esserci, il sapore delle parole, gli odori delle stagioni a susseguirsi senza farsi riconoscere, i tuoi progetti andati in fumo, quell’amore denso che pompa e rimbomba, nella gola e dentro al petto. Gli occhiali che non hai più comprato, i disegni ritrovati, quelli ancora da inventare. Lo smalto sulle mani di cui non puoi fare a meno. Il profumo che cercavi. Le parole che non sai dire. Gli anni da bambina, che raccontarli è un pugno in faccia. Gli anni che verranno, che raccontarli è una scommessa. Le poesie da quattro soldi che pure hai scritto, a dieci anni appena, come un tatuaggio oltre la pelle che non puoi lavare via. Le lacrime di fronte alla malattia, concime per il tuo coraggio. La consapevolezza davanti alla morte. Il tuo fingerti serena e sorridere alla vita. La vita che ti fa così paura. Il tuo modo vigliacco di affrontare i guai: son iniziati e passeranno. L’andare avanti e camminare a stento, senza però fermarti mai. Tua sorella che è un cielo terso. Gli occhi che da sempre ti conoscono, un invito a non aver mai più paura. Le cadute da ferirsi, le ferite da cadere e non rialzarsi più. Gli schiaffi dati e quelli ricevuti, le telefonate interminabili eppure terminate, i libri che ti hanno cresciuta e continuano a crescere in te. Quelle emozioni che non sai trattenere, che non sai gestire, che non sai nemmeno definire: 

veder le tue mani tremare mentre scrivi di te stessa come non fossi te.

Da me, a me. Un regalo. 
Per guardarmi allo specchio. Per non dirmi più “te”.
2.12.2012

martedì 27 novembre 2012

Un mimo e il suo talento





Me ne accorgo. A testa bassa, in silenzio, contando i passi che mi han sempre divisa da te, riesco a scorgerti nelle venature del pavimento – il riflesso di quelle dei miei occhi – mentre ti dipingi su altre ciglia. Lo avverto come si avverte la pioggia prima ancora di veder bagnato, come un odore che annuncia un avvento, o come un brutto presentimento che diventa presagio. Lo percepisco ad ogni chilometro, mentre –zaino in spalla- inseguo una vita che non so dove si sia nascosta, lo percepisco ed è un morso, uno schiaffo, un insulto. A tutto quello che non ti ho mai detto. Il silenzio che è oro, ma svenduto a prezzo stracciato da un mimo e il suo talento, allunga la distanza, fa atroce la paura, disegna i contorni del mio sentirti, definisce i margini del tuo bastarti. Tu che ad ogni pagina tradisci il rigo, tu che non sai smussare i tuoi difetti, tu che non sai darti mai torto, misuri il tuo perimetro massimo, inaspettatamente. Io che non ho metri e non ne troverò, dovessi –zaino in spalla- arrivare in capo al mondo. Io, disillusione e continua mia illusione, controfigura inadempiente di me stessa, la scucitura sul polsino, la sbavatura del rossetto, la lingua perspicace di chi vive di sapori. Me ne accorgo, come lo leggessi nei tuoi occhi. E’ spaventoso. Avvertirti/avvertirlo e non saperti in nessun posto, percepirti/percepirlo e non averne alcun motivo. Sentire oltre la pelle che, attraverso la pelle, ti sento ancora. Che ricordo il tuo odore, ma che non riesco più (ancora) a pronunciare il tuo nome. 

A testa bassa, in silenzio –maledetto silenzio-, contavo i passi che mi restavano per arrivare a te. Riuscivo a scorgerti, sai, assai più vicino dell’orizzonte: trucco sulle ciglia –le mie-, odore del tuo odore su di me, solo un bivio da non dimenticare, un traguardo da toccare. 

Seppi solo il silenzio. Che è oro, sì, e che solo ora capisco quanto mi è costato.

(Nonsense. A migliaia di anni. 
4.17 -proprio come (con) te)

venerdì 23 novembre 2012

Un treno, in inverno


E allora la domanda si fa avanti da sola, ogni volta che nei passi verso casa cerco le risposte, quando mi affretto per non perdere l’ennesimo treno, o quando camminare nel caos della città mi pare l’unico modo di stare al mondo. Le città visitate negli anni, troppo poche per dire di aver visto e troppe per dire di dover ancora viaggiare, ritornano come un flashback di un tempo mai vissuto, si fanno nostalgia di tutto ciò che non ho mai toccato. Il fumo esce dalle labbra, mentre nelle cuffie la colonna sonora della mia vita si fa lenta, sempre più lenta, a stimolare la memoria. Passo dopo passo, battito dopo battito, tra quegli incroci di luci, di riflessi sulle vetrine. L’intorno tace, isolato dalle cuffie. Non c’è strada, qui, che non abbia percorso. Non c’è volto, qui, che io non abbia già visto. Le risposte che cerco - e che si divertono a giocare a nascondino con la bambina che sono - diventano sassi da calciare il più lontano possibile, per sfidarmi a raggiungerle. Al prossimo giro. E al prossimo giro metterò la sciarpa, ché non è neanche iniziato e già lo chiamano inverno. 

Adoro passeggiare, mi dico. Adoro immaginarti qui, tra uno sbuffo di fumo e la mano che si contorce nella tasca, come alla ricerca di un abbraccio. Pochi spiccioli ed un biglietto mai timbrato, per un viaggio in treno che ho sempre e solo sognato. C’era scritto il nome della tua città, sul tabellone delle partenze, quel giorno, in partenza da un binario ancora imprecisato. E anche lì la domanda si faceva avanti da sola, e la risposta si perdeva nell’annuncio del mio treno. 

E sì, adoro camminare. E cercare sui volti della gente una risposta, una qualunque, che possa ammortizzare il rimbombo delle mie incertezze. E la domanda si fa avanti da sola, insistente, mentre con altre lettere provo a farla sfuggire:  da cosa sto scappando?

Da tutti quei treni che perderei, da quelli che ho perso, da quelli che è da un po’ che non vedo arrivare.  Dal freddo che avverto: ché non è ancora iniziato e già mi pare inverno.



(Agli occhi miei)

domenica 18 novembre 2012

Amore, amor




E’ che si può scrivere di una sola parola, e costruirvi su impalcature di predicati verbali, e proposizioni subordinate e principali, e catene di complementi come ci fosse sempre una risposta ad ogni domanda. Di chi? Di cosa? Specificare di chi sia stata la colpa del nostro andare e poi, d’un tratto, andarci male, come vestiti acquistati anni prima e da un certo punto in poi non più calzati. Darsi una risposta ad ogni costo per far filare un discorso che altrimenti andrebbe perso: in un ammasso di frasi fatte ed escamotage qualsiasi, insieme a milioni di scuse già messe a tacere. Un filo che regga al peso delle nostre acrobazie, per mantenere intatta l'illusione dell'equilibrio. Cademmo. Lo perdemmo. Lo stuprammo, tentando di camminare su una sola gamba - l'altra già sospesa a cercare un nuovo suolo. Esaminare ogni frase, ricordare i gesti, rivisitare quelle sensazioni mute che ci fecero tremare. Come una divisione in sillabe che arrotonda per difetto, nel dirsi amor il tempo brucia ad una ad una le sue lettere. Di inchiostro o di carta, purché scritte:

Perdona il non-amore che non ti seppi dire. Perdona se le tue mani nuove stoffe carezzeranno, se i tuoi sì sulla bocca di un’altra cadranno, se il mio coraggio è ancora fermo al tuo sguardo. Perdonami per le menzogne ben recitate, per la tua interpretazione errata (del)la mia recitazione migliore.

E perché mentii nel dirti amore.

(solo una parentesi, nel vuoto delle attese)

martedì 13 novembre 2012

La bugia






- "Perché vuoi andare via?" -

Viale Manzoni sembra distendersi come tappeto, mentre il cielo cerca di scoprirsi gli occhi. Queste nubi come ostacoli, ad impedire la chiarezza della luce. Roma respira ad ogni passo, la senti fremere, terra che ribolle al ritmo del cuore del mondo. Il cielo, a quest’ora, ha sfumature arancio. Si incastrano, sempre più debolmente, a tangenti di fumo che accarezzano soltanto il sole. E’ bella, la Roma delle cinque, quando a guardarla son due occhi in cui il sole si rispecchia bene, che cercano luce e la trovano, che hanno ancora fiducia nel domani. Il marciapiede è lo stesso – stretto, troppo stretto per due -, ma l’aria che si respira è un’altra: l’odore di zucchero filato si confonde con quello disgustoso dello smog. E’ Roma: è calda, trema ancora, sempre savia, mai sazia. Traiettorie di occhi ai semafori, il lasciapassare verde, strisce bianche sulla strada come quel gioco da bambini. Mani che si scontrano per caso, il “prego” sommesso di quell’uomo alla fermata. Salgo sulla metro ed i ricordi si accavallano, una vita scritta sui muri e sulle panchine di questa città, flashback di me in ogni angolo ed in ogni via, quel rimpianto che non ho mai confessato, quel bacio che non ho più dimenticato. Si potessero scrivere, quelle emozioni che non hanno un nome comune, quelle fermate del cuore che hanno nomi propri: le ho riviste oggi, dal finestrino della metro, scorrere più veloce del tempo. Volti e voci e un solo odore, il mio corpo che s’è trasformato negli anni, i libri letti aspettando la fermata giusta. I treni persi e quelli rincorsi, le sirene come mille richieste di aiuto. E poi le persone, i loro sogni calpestati come sigarette, i loro soldi persi in una mano di poker. Roma è tutte le volte che non l’ho fatto, quelle in cui sarebbe stato meglio non aprire la porta, quelle in cui il cielo sopra la città era così eloquente da zittire pure il sangue. Ci pensa la città, quando necessario, a rendere gioiello un istante. Roma è quella lacrima che somigliava ad un verdetto, quella lacrima in piena, fredda di un gelo che mai si scioglie. Roma che mi ha visto nascere, poi tornare, come una mamma che sai che sempre ci sarà. Roma che è una donna anziana, saggia e battagliera, che non si spegne mai. Roma, bella e puttana, di calze rotte e un ansimare forte. Roma-mamma, Roma-amante, Roma-casa, Roma-realtà.

-"Perché vuoi andare via?"-
-"Perché l'ho amata e la amo alla follia, e l’amore per sempre è solo una bugia".-

venerdì 9 novembre 2012

Spazi bianchi



Amandine torna a giocare. Ha reimparato un vecchio gioco, uno di quelli che si impara da piccoli e poi si dimentica con la facilità con la quale si dimenticano tutte le cose belle dell'infanzia: riempie spazi bianchi con i colori. Sul giornale di enigmistica della madre, Amandine non cerca che quel gioco. Ha tinto i capelli venerdì, di rosso, prima di partire per il mare. Colora i quadretti vuoti  tra le parole, quando scrive. Prova a colorare i giorni cupi - cupi e gravidi come questo - ma quasi mai con buoni risultati. La scommessa - la rivincita, il tentativo - è sempre la stessa: oscurare - abbellire, falsificare, truccare - il bianco e nero della realtà. Raccoglie i suoi libri, perfettamente disposti sul pavimento, ed i suoi occhi si fermano su "Per fare un prato ci vuole un trifoglio e un'ape. Un trifoglio, e un'ape. E immaginazione. Basta anche solo l'immaginazione, se le api sono poche" (E.Dickinson n1755): per fare Amandine basta Amandine, per tutto ciò che c'è intorno, solo l'immaginazione. E allora Amandine si addormenta, esausta, sulla sua terrazza a cento metri dal mare. Quello che sogna ha i colori di tutto, e tutto ha finalmente un colore: gli alberi blu, il sole rosso, le case tonde, l'estate fredda, neve calda. Ha mangiato del tiramisù con la panna, proprio quello che adora. Non sopporta l'idea di non avere tra le mani, anche solo per un secondo, qualcosa che adora. E' buffa Amandine, col suo neo a metà strada tra il gusto e l'olfatto, l'aria soddisfatta di chi la fantasia l'ha già tutta in tasca, un fiore tra i capelli a farla bella per mezz'ora, quel profumo estivo sui polsi e sulla nuca. Ed è bella Amandine, di quella bellezza rara, non convenzionale, di forme accentuate e la riservatezza a farle da scudo: ha negli occhi la paura, Amandine, ma braccia tese e aperte verso il mondo, oscuro e sconosciuto. Ancora. Ha venticinque anni, ormai, Amandine. Quelli che sente - che avverte scorrere come acqua sulla pelle, inarrestabile, sempre più velocemente - sono molti di più. Quelli che vorrebbe avere - e che continuamente ricorda - sono molti di meno: l'altalena, la notte di San Lorenzo nella casa sul lago, quel pallone che non ha più calciato, la merenda alle sedici in punto. Queste, le cose che Amandine proprio non dimentica, che ricorda, anzi, sul finire del giorno, ogni santo giorno. Le ricorda come si ricorda una ninna nanna, con lo stesso senso di vuoto all'altezza dello sterno. Poi un libro, sempre lo stesso, che accosta ai primi tentativi di imparare a nuotare: Ventimila leghe sotto i mari. "Ventimila - pensava la piccola Amandine - ma quante saranno ven-ti-mi-la?" La grandezza, di fronte a tanta minuziosità, sembrava comparire come un'ombra imponente sulla sua espressione trasognata. Tenera, la piccola Amandine. Oggi le cose -pensa, mentre passeggia sulle vie assolate verso il mare (senza raggiungerlo mai, peraltro, il mare, e senza saperlo attraversare, ché ancora non impara a nuotare) - non sono cambiate: questo ammasso caotico di gente che viene, di quella che va. Amandine teme le persone, così come i bambini temono il buio, le ombre, la realtà. La stessa realtà che lei camuffa, quando può, colorando gli spazi bianchi dei giornali, delle attese, di quei pianti, delle parole a metà.


[...]

martedì 6 novembre 2012

A cuore spento




A cuore spento. 
Istinti aggrovigliati che non hanno via di fuga, istinti che somigliano ad animali, quando non resta che la corsa al più forte. Il gatto impaurito chiedeva perdono per quella briciola che non seppe dividere: la fame è ingorda, l’istinto un nemico. A stomaco pieno, il senso di colpa è un masso a premere sotto la gabbia toracica. 
Rinfacciami il freddo che non seppi evitare, rinfacciami i silenzi che hai dovuto ascoltare. Sbattimi in faccia il perché delle cose –che pure conosco bene-, parla la mia lingua, che è quella di dentro. Per una volta almeno butta giù la maschera, il tuo personaggio fittizio, superfluo, superficiale. Raccontami di quegli spazi vuoti -tra un rigo e l'altro- che non sai colmare, dimmi almeno che hai capito che i miei furon solo silenzi: scelti, indossati come un abito, calzanti come la tua maschera. Non fummo che teatro muto, a riempire una scena che era già morta di per sé. Tu col tuo fare che non mi inganna, io con l’intento di ingannarti: ché sarebbe stato facile mostrarmi, tutta, fiera della mia interezza, dei miei sarcasmi, delle mie tenerezze. Ma sarebbe stato poi altrettanto semplice perdersi, e la confidenza di me niente più che nebbia a fare da atmosfera. Eppure un giorno scrissi questo: filtri di parole che non volli mai pronunciare, suoni incerti, inventiva l’emozione. Ma il cuore mio, sai, pulsava ancora:

Non scelsi la musica. Immaginai voli pindarici su trame tradizionali, storie d’amore scandite secondo momenti e criteri già stabiliti, Tristano e Isotta e il filtro d’amore, l’amore (im)possibile che sempre ritorna. E ritorna. Incontrai per sbaglio i suoi occhi, dietro una partitura per oboe e violino. Incontrai –per sbaglio- le sue mani, mentre con la leggerezza della musica istruivano il mio udito. Fu epifania, un sussulto inconsueto, una scossa improvvisa a recidere le vene tra il tatto e la schiena. Lì dove tutto ciò che è tangibile diventa astratto e allo stesso tempo carnale, e vibra, e trema, e traccia la curva della donna che sei, nel solco dei reni, nella curva più acuta di te. Provai a calmare gli istinti, legai stretto il mio petto con lacci e catene indissolubili e ferme. 
E non scelsi la musica. No, non la scelsi. Provai con le parole a disegnarti ritratto, arrestai la penna sull’ultimo tratto: il tuo mento attento accarezzato dalla tua mano, la curiosità di me sul tuo viso posato. Arrestai le parole, provando ad immaginarti vicino. Fu una risposta inattesa scoprirmi di nuovo ad un palmo da te. Ma non bastarono, le parole, a spiegarti completo. Delle debolezze mie che accarezzi, mai esausto, come le corde del violino che ti vidi suonare. Per dare loro nuova vita, un tocco nuovo, nuove eco e nuovi suoni. 
Non scelsi la musica. E le parole non bastarono. Non bastano. Non basteranno ancora. Saranno pentagrammi e città storiche in movimento a dare a queste note un senso compiuto e il coraggio di un volo pindarico, in quella tua trama noiosa –l’ennesima- di tempi e momenti prestabiliti. Come le storie (im)possibili che d’amore non sono. Ma che sempre ritornano. E tornano. Non scelsi la musica e ti dissi poi "sceglila”, toccai le tue mani dopo l’ouverture del nostro primo incontro. 

Ed ora non basteranno parole, né rime, né quella trama solita e antica, ma sei sottofondo costante e appena accennato, la danza che mai riuscii a ballare, le mani alle quali non mi seppi dare-che non seppi mai abbandonare. Non scelsi musica e non ne sceglierò. Sei stato e sarai quel La che non so riconoscere, l'istinto animale che è tutto e nient'altro, l'illusione che le note non servano a render perfetto un istante.

A cuore spento.

venerdì 2 novembre 2012

Specchi a rovescio *




Gli occhi che ti guardano sono specchi a rovescio, corrosi dal tempo, rigati dalle mani che li hanno toccati-altri occhi che li hanno guardati. Luce contro luce, l’inganno del troppo, soddisfarsi di una traiettoria attenta, leggere iridi e poi non saper parlare. Fu un saluto, alle 23.00, a confezionare i nostri incontri in un unico pacco: mittente ignoto, ed il destinatario chissà. E non la chiamerai esperienza –non lo permetterò-, io non la chiamerò disfatta –non lo permetterai-: sinonimi negati, sinonimi messi a tacere. Ma uscire vincenti quasi mai è fatto degno di nota. Fu un saluto, nel buio delle 23.00, a ricucire gli strappi delle non risposte: una toppa ben larga a spiegare/colmare l’assenza. 

Di due giorni ad imitare il senso del vento, 
dei tuoi baci a dilatarne il tempo.
Delle carezze respinte come cibo che non toglie appetito: cosa vuoi che importi il sapore, volevo saziarmi, saziarmi di te. 

E gli occhi che mi guardano son specchi al contrario, arrugginiti dal tempo, offesi dalle parole che no, non sanno specchiare. Mi dicono una realtà –di me- che non sapevo allora, raccontano una donna che non conosco ancora. Ma non la chiamerai distanza –che poi si accorcia-, io non la chiamerò definitiva assenza –che non ritorna-: sinonimi pure questi di due opinioni uguali, c’è il tempo del tatto e quello del distacco. Fingersi vicini quasi mai è consolazione. Fu un saluto, alle 23.00 in punto, il rumore dei miei tacchi, quello del treno, il caos della città, a dirmi –a gran voce- che stavo andando via –via- da te.

E gli specchi a rovescio non son che occhi a guardarmi: sinonimi di un’immagine riflessa che non cambia, sia al contrario lo specchio, sia distante anni luce il tuo occhio.

(Fu solo un saluto, alle ventitré e zero zero, fu solo un saluto. Ora un addio).


*Scrivere pure se fa male e pure se fatto male. 
Scrivere comunque, scrivere ancora e ovunque.

domenica 28 ottobre 2012



Domenica. Le lancette a cambiare direzione. Non ho più parole da incartare, non ne ho da cantare. Attendo, mai stanca, che qualcuno ne scriva al posto mio. Non più parole, né titoli, né rime, né giochi di suoni. Solo una musica che racconta di una domenica –sporca- che mi ha regalato l’illusione di poter tornare indietro. (un) domani, forse, ne scriverò-ne scriverai.




(Labiali scempie si prende una pausa. Da me).



mercoledì 24 ottobre 2012

Sarà che Ottobre è un'incertezza





Sarà che Ottobre è un’incertezza, sarà che le stagioni si confondono e si fondono come non avevano fatto mai. Sarà l’ebbrezza che mi coglie impreparata, sarà il tuo sguardo che taglia in due ogni emozione. Scrivo per smaltire ogni pensiero, scrivo per assecondare la verità, per ammetterla, per renderla innegabile. Mi sorprendo, davanti a questo foglio bianco, se dietro la grafia non leggo che un’altra bugia. Dov’è finita quella verità che mi appariva innanzi, dove la lucidità, dove il mio raziocinio cinico e necessario, dove i tuoi occhi, dove le tue paure/parole? Sarà che pure l’autunno è un’incertezza, ed i suoi giorni carte scoperte in un gioco senza rivali. Sarà che ho immaginato fiori freschi lì sul tavolo, al mio arrivo, e fatico a ricordare cosa vi fosse, lì in salotto, tra la mia tazzina sporca di rossetto e il tuo bicchiere riempito solo per metà. C’eri tu, dall’altra parte del tavolo, c’ero io da questa. Ed in mezzo a noi, sai, non lo ricordo.

E’ solo che Ottobre è un tempo sospeso, come in attesa di qualcosa che verrà. Sarà che da quando ti conosco le stagioni non si riconoscono più. Fondi tra loro i miei tempi, li dilati, ne confondi i confini: perimetri inconsistenti ma almeno definiti, prima di conoscerti. Scrivo perché tutto sia chiaro, scrivo per saperci inventare, forse scrivo solo per negarla, la verità: ché mi sorprendo, davanti a questo foglio bianco, se dietro la grafia non c’è niente che possa dirsi verità. Dov’è finita la tua voce calda, il tuo desiderio e la mia ritrosia, dove quei giorni, dove quel cielo di Roma? Sarà che l’autunno non si fa capire mai bene, finge il sereno e poi irrompe -improvvisa- la pioggia. Sarà che ho ancora il tuo odore tra le dita. Si incastra bene, sai, e non va mai via.

Tra la mia tazzina –sporca di rossetto- e il tuo bicchiere – riempito solo per metà- c’erano i miei sogni aggrovigliati, doloranti, esausti. C’eri tu, dall’altra parte del tavolo. C’ero io da questa. Ed in mezzo a noi, sai, c’era una distanza che era come nebbia, ad impedire la realtà. E come un pugno, un coltello, uno schiaffo. C'era distanza. Ed un solo fiore: ricordo di un’emozione che fu. Emozione di un ricordo che sempre sarà.





"Un momento dopo, mi ha domandato se l'amavo. Le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no. Lei ha avuto l'aria un po' triste. Ma mentre preparava da mangiare, e per una sciocchezza, ha ancora riso in un tal modo che l'ho baciata."
 Albert Camus, Lo straniero 

martedì 16 ottobre 2012

Rosso tenue (a dipinger foglie e colli)




E parlava di alberi e radici come fossero giornali del mattino. Cadono le foglie, danzano nell’aria, consuetudine di ogni autunno, ciclo naturale, meccanismo insovvertibile. 

E’ autunno. E’ autunno e ancora manca quel colore – rosso tenue, a dipinger foglie e colli-, è autunno e mi sorprende, col suo fare solito e mai casuale. Non ho ricordi, ricordi forti, che leghino la mia memoria a foglie secche e alberi spogli: col vuoto dell’intorno c’è un vuoto più profondo. Lacrime, tempeste e occhi grandi, tutto quello che ricordo. 

Ma l’albero nel mio giardino, lo stesso che è diventato grande insieme a me, mi sorprende: spoglio, vuoto, quasi inconsistente. Mi stupisce ciò che è prevedibile, ciò che è naturale. Mi stupisce ancora il volto di mia madre, la rugiada di mattina, quando ancora il mondo è assente. Mi sorprende trovarti al mio fianco –al risveglio- senza pelle e senza odori, presenza effimera eppure così forte, abbraccio caldo in questo freddo che ora sì, è arrivato. I miei vestiti nell’armadio ordinati da altre mani, quelle materne, quelle che sempre mi accolgono come fossi rara cosa, quelle che impediscono all’autunno –lotta vera, mani contro mani- di spogliarmi delle mie risorse. I disegni dell’asilo, le poesie scritte per gioco, quella letteratura sbagliata riposta nella mensola lì in alto, i romanzi -quelli buoni-, quelli  che vivono con me ovunque vada. Son pezzi di una storia mai raccontata, suggerita dalle frasi, sempre contenuta. Smorzata dal coraggio, offuscata dalla voglia di rivalsa.

E’ autunno. E’ autunno e il sole arranca mentre un uomo compie una missione lì, in cielo aperto. E’ autunno e tutto muore per trovare nuova vita. Resurrezione consueta, il paradosso del fattibile, la mano materna in cui trovo ristoro. E’ autunno e ancora manca quel colore –rosso tenue, a dipinger foglie e colli- è autunno e mi sorprende la sua natura a riproporsi. E’ autunno, sai, e mi sorprende –come epifania improvvisa, lampo di luce, verità mai ammessa - non trovarti ancora qua.


Col vuoto dell’intorno c’è –ancora- un vuoto più profondo.

giovedì 11 ottobre 2012

(Flashback di) Nubi e presagi





Fa caldo, da giorni.
Stringere al petto –per l’ultima volta- una vecchia fotografia, sentir l’immagine imprimersi come inchiostro all’altezza del cuore. Per l’ultima volta. Addio a ieri, addio. Qualcosa –una mossa, un istante, una sola telefonata- avrebbe cambiato le sorti del gioco e dei giocatori: re e regina insieme a difendere il loro territorio, una schiera di soldati-amori già morti per loro. Poi il tempo d’attesa, come in ogni gioco. L’escogitare la mossa, starci a pensare, fingere indugio e intanto tremare. 

"Fa caldo, da giorni. Non sorrido se non davanti ai tuoi occhi. Non vedo bene se non davanti al tuo sorriso. Mi manchi. E sei qui."

Ma un giorno non importeranno le stagioni, mi dico, il loro irrompere senza avvisare, il loro costringerci al saluto. Non importeranno più le pene, né lo sguardo poetico di quel pomeriggio di metà mese. Non conterà la febbre del non averti, né l’assenza che è solo una costante. Come ci si avvicini alle cadute, come si possa inciampare ad ogni avvallamento, come si perdoni un non amore, non sto neanche più a pensarci. Penso alle tue mani. Agli abbracci. A quando respirammo la stessa aria, smog che parve dolce essenza. Al contorno dei tuoi occhi, a quel dentro che –lo so- è meravigliosamente mio. Alla mia scrittura che mi fa rabbia ed è patetica, se dietro le parole non leggo che te.

Già, fu in un giorno di pioggia. Nubi nere e dense come ovatta bagnata, asfalto scivoloso come fosse un avvertimento a non proseguire, un presagio, una profezia. Ma il gioco non ha senso -un po' come la vita, i film, i libri e ogni canzone- se sai già come andrà a finire. Ed io voglio giocare, sai -perdere, piangere soffrire-, anche se conosco già il finale:

"Fa freddo, da giorni. Non sorrido se non davanti ai tuoi occhi. Non vedo bene se non davanti al tuo sorriso. Mi manchi. Perché non sei più qui?"


martedì 9 ottobre 2012

Al tuo scrivermi muta (soggetti come rime alternate)




Alla tua pelle delusa, prigioniera di un abbraccio che non dura mai abbastanza. A queste pieghe nel libro, a ricordarti quegli occhi che ti fanno regina. Regina un giorno solo, regina due volte, regina di un castello in  macerie, che nessuno ha mai ricostruito. Alla tua pelle delusa, a quel sordo respirare del tempo, alle tue gambe tremolanti e indifese, a quel sorriso bugiardo. A questa città che sembra parlare, di notte, tra un sogno voluto ed un altro dovuto. E chissà cosa suggerisce, la Roma delle tre di notte, tra uno sbuffo di fumo e una carezza sognata. Cosa vuole dirmi, questo cielo arancione che è luce e buio e che non sa parlare?

Ma è solo quel che resta di un vestito indossato troppe volte, è solo la fatica del freddo che si avvicina senza farsi notare, come un ladro a carnevale. Piedi scalzi e passi cadenzati, la sorpresa di un silenzio inaspettato. Ghiaccio e gelo all’orizzonte, un tepore mite sotto i piedi. E non è una novità, ma è solo quello che rimane di due sguardi di stagioni che da sempre si toccavano. 

Alla tua pelle che odora, alla tua pelle discreta, al tuo sapermi incosciente. Riconoscere –d’improvviso- le rammendature del presente, sentire gli aghi infilzare i polpastrelli: sangue che non ha ancora un colore, ferite –tante- così piccole da non farci neanche caso. Al tuo saluto che si smorza sul finale e accorcia il suono, ché tanto domani sai che torna. 

A domani, alla tua pelle delusa, al tuo scrivermi muta, come essenza nell’aria, come destino incrociato, come trecento metri di strada in un pomeriggio d’Ottobre che ti ha regalato un solo caffè.
Alla mia pelle delusa, all’oggi che arranca, al domani che aspetta. 

Al domani. 

“A domani”.

sabato 6 ottobre 2012

(non so dirti che in rima)






Non era questo, quello che raccontavano i libri. Una prefazione che non svelasse nulla, che leggerla poi a che sarebbe servito. Le premesse ai miei discorsi, sempre disordinati eppure così densi, non son servite a nulla neanche quelle. Capitoli a susseguirsi come giorni: lunedì il coraggio, martedì la serenità di averlo fatto, mercoledì un solo dubbio, giovedì il tuo nome in ogni strada, venerdì mi sono persa, sabato mi hai ritrovata, domenica che vuoi che importi, è solo finita un’altra settimana. Un’altra settimana di menzogne, un’altra settimana a dirmi che son io, e solo io. Poi i tuoi occhi che non sanno dove andare, rinchiusi in una cabina telefonica che conosce solo la mia voce. Sei distante in ogni istante, sei luce flebile e miraggio, un insulto al mio già stentato coraggio. Non so dirti che in rima, come a volerti intrappolare entro un ingranaggio perfetto, che non abbia intoppi né dissonanze. Come a voler per te una sola casa, una sola cosa, un solo possibile caso. Come a cercare di inserirti in un gioco di parole, che ha l’incastro giusto ed il countdown già terminato. No, non era questo che mi insegnavano i libri. Ci hanno provato, negli anni, ad indicarmi le possibilità come tentativi da non forzare, da aspettare. Mi hanno insegnato che le parole –maledette, sai, le parole- son come le monete: testa o croce, l’una o l’altra faccia, che paiono medaglie e talvolta non son che lame. 
E no, sai, non era questo quello che raccontò la tua lettera, scritta con la tua penna e il tuo inchiostro. Sangue che io vidi sgocciolare lì sul foglio. Mi scrivesti "ora non ci sei che tu". Non valutai che “ora” è “ora” e che non è "poi".

Ma non era questo quello che raccontavano i libri, sai.


(Ostinato e vomitato, alle due e trentotto)

martedì 2 ottobre 2012

L'amante di ieri e l'anima di vento






Fino all’ultima goccia, bevve il suo liquore come fosse l’ultimo bacio all’amante di ieri. -Addio, corpo vigliacco, addio carne e nient’altro. Non sento più niente, non voglio più niente-. Si leccò piano le labbra, mosse appena il suo sguardo, lo poggiò su quelle mani distratte, da tempo ancorate alla sua sola immagine nuda. "Sei bella", diceva. Il giorno seguente tutto restava impresso come impronte digitali, tutto, fuorché la sua anima di vento. Non vi si chiudeva dentro, l’amante di ieri. Contratte, le braccia, nel toccarle i capelli, disegnavano quel cerchio che sembrava portasse al suo cuore. Non era una strada, quello era l’inganno. Come indicazioni stradali che non coincidono con la mappa, come un indirizzo sbagliato che fa arrivare in ritardo, come un saluto alla persona sbagliata, col giusto sorriso. 

Fino all’ultima goccia, mischiò il suo sudore a quello dell’amante di ieri. Addio, pensava, odore unico, unico amore. Addio specchio di me, addio al tuo sapore, addio a questo letto. Non voglio più niente, non provo che niente. Rimise l’anello e la giacca, versò ancora del liquore all’arancia, sorrise sbeffeggiando il già fatto, prese le chiavi dal suo comodino in disuso. Raccogli i tuoi stracci, pensava, ridammi le mani, ridammi i pensieri, il mio odore, il mio amore. Non sento più niente, non voglio più niente. Non fosti che un’ombra, amante di ieri. Ad umiliare la pelle, ancora una volta violata. Non fosti che carne, mentre i miei occhi cercavano carezze. Tu fosti la pioggia, io il tuo vento. Tu fosti un amante, io non fui che la mia anima di vento.

E allora gli strinse i polsi, guardandolo impassibile, guardando i suoi occhi in cartapesta. Strinse i suoi polsi e non senti che la stoffa:  né un battito, né un sospiro, né sangue, solo un attrito. Sentì il suo -di lei- respiro soffiare più forte, come a suggerire vai via, tu che di vento sei. Trattenne la corsa sfrenata del sangue, le parole che non gli seppe dire, il grido straziante del cuore, incassò quel pugno allo stomaco che è un male più forte, atroce, violento. Poi - fredda e severa, indossando la maschera che più delle altre tradiva il sentire - trattenne - esausta - il getto di lacrime che gli occhi avrebbero vomitato per lui. 
Fino all’ultima goccia.



Image by http://etimo.it
Da Bonomi, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana


(A ciò che verrà, a ciò che è già qua).

sabato 29 settembre 2012

A ricordarmi gli occhi





Gli indugi di sempre, aggrappati alle asole della giacca come bottoni già scuciti, da rammendare e da rimettere al loro posto, riaffioravano ancora. Le incertezze, tese come tendini, marcate come le vene sul tuo braccio, attiravano tutta l’attenzione. Soffiavo scie di fumo come si scaccia un tormento, disegnando nell’aria tutte le mie remore in forma di nube tossica. Via, sembrava dicessi alle incertezze, via.
Ora che un varco si era aperto, tra il dire e il fare. Ora che la finestra lasciava entrare un po’ di luce, solo un po’, a ricordarmi gli occhi. E poi le mani, che sembrava disegnassero orizzonti sulla mia schiena, e poi la notte, che ci attendeva lungo la schiena scoscesa di questi colli. Ora che una nenia –un suono intenso, liberatorio, di passione- filtrava come luce dalle fessure delle imposte. Ora che sentivo il tuo sapore. Nel mio sapore.

Ma gli indugi di sempre si legano ai capelli, come le tue dita in quella sera calda, che profumava di germogli. Gli indugi di sempre hanno la presunzione di aver ragione, surclassando i sensi, poggiando la loro tesi sull’ingiustizia della logica. Sorda, ottusa, illusa.
Proprio ora. Ora che uno squarcio di cielo si vedeva, da questa finestra che non ti ha visto entrare.  Ora che la giacca non serviva più, e le tue vene pompavano forte il sangue in corsa verso me. Ora che le incertezze valevano quanto quei bottoni, quando i vestiti eran già sul pavimento e ci si spogliava pure di parole.

Ora, la consapevolezza della fine di ogni bacio, di ogni frase, di ogni grido di piacere. La consapevolezza sfinita sebbene appena iniziata che dietro ogni nostro momento si nasconde, come temporale dietro strati di nubi e soli, un addio. L’ennesimo, dannato, addio.

E gli indugi di sempre.

A ricordarmi gli occhi.


A Si., a  F., e a quel che resta

domenica 23 settembre 2012

220912






Venticinquemila voci.
Un solo volto, un solo pensiero. Un solo desiderio.



giovedì 20 settembre 2012

Come (di) pioggia





Come di pioggia. Come di pioggia sei il suono, quando cade silente e non fa rumore. Come un sospiro più grande, nella secca dell’estate che se ne sta andando. Come un respiro alla fine della corsa, l’ennesimo ristoro che attende il campione. Sei come di vernice, lucida e trasparente. Un senso profondo che emerge dal foglio, la rima baciata che da’ il suono alle cose. Che fai lì sperduto, quale nome hai perduto negli anni passati? Qual è quel  volto che non sai tratteggiare, quale il profumo, quale il suo sguardo? Quante fatiche hai dovuto superare, qual è l’eroe che più ti somiglia? Ti cerco, non lontano, attendendo la fine della pioggia. Che lavi ogni cosa, mi dico ancora. Che disinfetti la mia pelle dalla ruggine del passato. Che sia trasparente, che non faccia troppo rumore.
Come d’asfalto, sulla corsa dei giorni. Auto in continuo movimento, disegni bianchi a tracciare percorsi per anime sperse, più avanti poi a destra, cento metri e a sinistra. Ritrovo l’orientamento per farmi coraggio, lo perdo di nuovo se intorno a me c’è questo caos deserto. Di voci, di gambe, di motori e semafori. Una giravolta nel mondo, nella capitale del mondo.
Come di pioggia sei un lampo. Un solo momento. Come di pioggia sei lo scroscio, che fa da colonna sonora ad una nostalgia che già sento. Come tormenta. Come tempesta, che d’improvviso compare e non mi so riparare. Come carezza, sei una necessità ad occhi chiusi. Tu sei un futuro imprevisto che toccherò presto. Come in un sogno che non ho mai sognato, come un esempio che è solo a sé stesso, come una frase che ha un solo possibile predicato verbale, come una similitudine che no, non so inventare. 
Sei assente eppure presente in ogni dove, sei voce e lamento di un sentimento che attendo.

Lei colse un fiore, un fiore bianco, lo guardò di un amore intenso, lo carezzò come si accarezza il primo sentimento. Non fu per vanità, ma vi si specchiò dentro. Ora tutto –tutto quello che era lì intorno- aveva un altro senso. Mosse il ventaglio come fosse di cristallo. Preziosa l’aria, prezioso quel momento, preziosa pure la paura poi di perderlo. Ma colse un fiore, e lo guardò fiorire. Colse un fiore che ebbe bisogno di cure, di luce, di acqua, di premure. Che profumava di terra.


Come la pioggia. 

(ché niente pare mai abbastanza, dopo noi)

lunedì 17 settembre 2012

Supplica al cielo -delle banalità-





“E tu quanti anni hai?”. Le rughe sulla sua fronte, espressione di un tormento intimo, malcelato ma già attenuato, scrivevano romanzi di vita solo a guardarle. Ed io? Io quanti anni ho? Ricordo –come in un sogno- mentre con lentezza toccava i lacci delle scarpe. Ricordo con quale cura riponeva i suoi vestiti nell’armadio, secondo criteri che nulla avevano a che vedere con le stagioni. Li ordinava, già abbinati, come fossero ingredienti per una pietanza speciale. Ricordo la seta, profumava di mandorla. Ricordo le sue mani, porcellana e vernice. Smalto bordeaux, anello in rame. Ricordo le sue mani come fossero di un’altra. Troppo ruvida è la fatica per la sua pelle ancora così giovane. Mi chiese “tu quanti anni hai?”, mi disse che non avrei dovuto contarli, mai. Ed io da allora persi il conto. Ricordo una luce rossa nella sua stanza. Profumava di incenso. La guardai intromettersi nelle faccende del sole, quando affacciandosi alla finestra alzò gli occhi al cielo come in una supplica strenua: non era “perdono”, somigliava a “ti prego” - ti prego di non oscurare questa luce, ti prego, non piangere su di me -.

Le sue rughe sulla fronte raccontavano di un amore perduto a vent’anni e di un padre che scomparve prima che lei diventasse donna. Ricordo un ventaglio di pizzo, con i bordi in argento, logoro di quel tempo vissuto tra pagine e luce filtrata. Ricordo una voce rauca, quando –imbarazzandosi- raccontava di quell’uomo e di quando gli disse addio. Ricordo i suoi occhi bagnarsi di malinconia, la stessa malinconia che sentivo –io- premere sul costato. Era bella di quella bellezza eterna, che è timidezza e passione, che è frutto di un tormento, che è madre di quella saggezza. Mi disse che nulla si lascia al caso, che non avrei dovuto lasciarlo andare, quel sole, quel cielo, quel sentimento che nasceva piano. Ricordo un sospiro, quando, mostrandomi la foto di quell’uomo, alzò gli occhi al cielo come in un’altra –anche a lui rivolta- supplica al cielo: non era “ti prego”, somigliava a “perdono” –perdonami se ti ho allontanato, perdonami pure se non ti ho mai dimenticato-.


(A ottanta anni, come a venticinque).

domenica 9 settembre 2012

Chissà se poi





E allora scelgo di non esserci. Nella cesta dei panni sporchi, quelli che son di ieri e che domani forse indosserai puliti, chissà. Scelgo di non essere nel tuo album di fotografie, che magari domani guarderai pensando sia già al completo. Scelgo di non toccare mai più i tuoi fianchi, o la tua schiena. Di non far parte dei tuoi giorni, o di allontanare te dai miei. Scelgo di non essere nel tuo armadio, dimenticando un vestito che forse continuamente cercherai. Scelgo di non essere sul tuo cuscino, così che mai più ti fermerai a cercare il mio odore. Scelgo la paura. Ancora. Forse scelgo la resa, l’inafferrabilità di un sentimento che, da qualche parte, dentro di me, deve pure esserci. Io, invece, decido di mancare. Mancare su quel treno, quello del tuo viaggio verso noi. Scelgo il come prima, il chissà se poi, è meglio così, non è il momento. Decido di non cercare più i tuoi nei, o il tuo sapore. Scelgo di non essere tra le cose da fare, da vedere, da capire. Di non essere il primo tuo pensiero, forse neanche l’ultimo. Di "non tentare il tentabile". Ma l'amore, sai, non si tenta. Scelgo di piegarmi ancora una volta solo su me stessa. Scelgo di parlare sottovoce, di non urlare contro i miei errori. Scelgo di riservarti un posto, dentro me, esclusivo ed eterno. 
Sei la scelta che non avrei mai voluto fare. 
Sei l'amore che no, non si tenta.
Sei l’errore che non mi ha mai fatto sbagliare.
Sei quel senso che cercavo negli occhi della gente, per la strada, nei caffè. 
Sei la verità che mi mancava.

E sei l’amore che, ora lo so, non c’era. 

sabato 1 settembre 2012

Come petali




Scendono come petali e danzano, su trame di ossigeno e lavanda. Scendono e nulla so di loro, toccano la superficie setosa dell’altro - ognuno, ognuno dell’altro -. Sui capelli trovano suolo, sui miei capelli sciolti si legano alle intenzioni. E’ calda la sera, e lenta oscilla tra l’imbrunire e l’addormentare. Tocca le soglie del mattino, disegna l’aurora, si ritrae a guardare quel giorno che era. 

Ricordo.
Ricordi?
Non so dimenticare. 

Si ferma l’orologio alle due e trentatré, si blocca il respiro all’ora del caffè. 

Ricordo. 
Ricordi? 
Che cosa? 
Di noi. 

Sembravi un disegno, nulla di astratto, un concreto irreale, carta e colori. Sembravi la pioggia che l’ha cancellato. Tu eri colore, eri solo un colore. Trasparenze bugiarde, il mio abito nero, i tuoi occhi invisibili, la fretta di dare. Ma tu eri un colore, eri solo un colore. Levigavo il cuore come pietra preziosa – non fu malleabile, neanche con te -, ascoltavo le note del dì ancora neonato, per ricordare l’attacco, per non dimenticare quel ritmo. Non eri né nota, né luce, né sapore. Eri solo un colore. Lavanda. E il suo odore.
Scendono come petali e danzano, su trame di polvere e fumo. Tossico anche il respiro, in questa stanza che ha contaminato il suo spazio di attese. Tossiche le mancanze, tossiche pure le speranze. 

Ricordi? 
Ricordo. 
Ma cosa? 
Il tuo odore.

Eri colore su tele bianche, che male non avrebbero fatto a restare incolori. Eri un profumo, lo stesso, lavanda. Ed hai lavato via da me ogni carezza, hai reso pioggia e pozza tutti i ricordi: scendono come petali e danzano, su trame di ossigeno e lavanda, divengono acqua. Poi, in un attimo, nulla. 

Solo la sera, ogni tanto, si volta a guardarli. Ed è già un nuovo giorno.





(Bentornato, Settembre).

giovedì 30 agosto 2012

Stelle artificiali (su strade deserte)

On air: Enjoy the silence --->
Che suono hanno le tue parole? Non ne resta che l’eco.

Era notte, tutte le volte. Era notte e al giorno era solo un passo. Le strade deserte hanno un fare astuto, ti illudono che sia tu a guidare, a scegliere direzione e velocità, e invece son loro a portarti dove vogliono andare. Le strade deserte quasi sempre hanno un nome, in quest’estate ogni via aveva il nome tuo. Mi dicesti “ti ho pensata”, risi, improvvisando stupore. Ti dissi “anch’io” ed il cielo improvvisamente cambiò umore. I giorni accavallati l’uno all’altro, e alle promesse taciute. L’illusione di un nuovo orizzonte, ancora lontano. Le scommesse col destino, che continuamente gioca a dadi: la somma più alta fa il vincitore, ma vincitore di che.

Ed ora a domandarmi che suono aveva quella notte, ora a ricordare il titolo di quella canzone che cantasti. Che suono avevano le carezze? Quale il rumore dei tuoi baci?

Era buio, ogni volta. Buio pesto e gli occhi tuoi a far da spie. Pensavo che in quella strada cupa solo loro mi avrebbero guidato, pensai che se n’era fatta molta fino a quel momento: aspettai il giorno tra le tue braccia, dipinsi il tuo sguardo su ogni parete, lo vidi per giorni guardarmi. Poi la notte –di nuovo- chiese una luce, chiese consiglio: non più i tuoi occhi, non più il tuo sguardo. Finì che su quella parete non rimase che un’ombra, finì che il buio fu ancora più buio. Nello stupore –lo stesso- di poche ore dopo, davanti ad uno spettacolo di luci e di fuochi e di suoni, ti cercai. Sotto un cielo di stelle artificiali sentii, per la prima volta, un rumore più forte, quello della tua assenza:







Ma sotto lo stesso cielo mi ritroverai, e sotto stelle artificiali sentiremo di nuovo -di noi- il suono. Su strade deserte mi ritroverai, che a me, al nome mio, nuovamente ti condurranno. E le scommesse del destino, per la prima volta, sveleranno il loro trucco: la somma più alta fa il vincitore, e il vincitore, ogni volta, non è che il destino.


martedì 28 agosto 2012

Dell'alba e di noi

 
 
 
Anche la penna ha perso il suo inchiostro.
 
Di tutti i tuoi nei, delle carezze ostinate, di quelle notti a dividerci i mali, delle scommesse mai vinte e mai perse, del sorridere ancora, pensando che è giorno. Le luci dell'alba son vecchie indiscrete che ti fissano bene, che non ti lasciano neanche riposare [: ci videro, mentre rimandavamo il mattino al giorno dopo, ci videro e fecero sì che io ti vedessi, senza difese, carezzarmi le mani. Sorridesti, sorridesti di quel sorriso che è quiete, e gioia, e pace. Sorridesti e sorrisi, solo un attimo dopo. Di tutti i tuoi nei, dell'umorismo scadente, di quei movimenti, delle carezze, del freddo, dell'alba e di noi.]

Anche la penna ha perso il suo inchiostro. La penna con cui mi scrivevo, sconosciuta a me stessa e perfettamente saputa. Succede perché prima di te l’inchiostro non era che lacrima: ora non scende, s’arresta sulla curva dell’occhio, che da quando ti vide tende verso le ciglia. Ora l’inchiostro ha il tuo nome. Succede perché davanti a me c’è solo un sorriso e un inverno che aspetta ancora il suo inizio: la malinconia di un nuovo arrivederci, lo sguardo triste di chi non lascerebbe mai la mano tua, il conto alla rovescia –ché son ore, sai, a dividerci-, l’attesa di un nuovo bacio –l’ennesimo, e il primo di mille-.
 
E ci sarà un altro inverno, a cominciare da stanotte. E mille voci a confondere la tua, e nuove strade –sempre sconosciute- a far sì che io perda orientamento. Sarà presto un altro inverno e di nuovo lontananza. Saranno cari quei ricordi che non vorrei mai dire tali. Ci sarà la pioggia come in quel giorno che mi hai baciata, ci saranno ombrelli e noi non li apriremo, ci sarà poi il sole ad asciugare anche le vesti. E saranno tante le paure.
 
Anche la penna ha perso il suo inchiostro, ché non ti lasci scrivere, né immortalare, né ritrarre. Ma di tutti i tuoi nei, delle carezze ostinate, del tuo sapore, del tuo profumo sul mio collo, di quelle parole godute, di quella luna a metà, dell’alba e di noi, è impressa –nero su bianco, inchiostro indelebile e cenere- la mappa –come incisione- sulla pelle mia.
 
Solo la penna ha perso il suo inchiostro.