sabato 29 settembre 2012

A ricordarmi gli occhi





Gli indugi di sempre, aggrappati alle asole della giacca come bottoni già scuciti, da rammendare e da rimettere al loro posto, riaffioravano ancora. Le incertezze, tese come tendini, marcate come le vene sul tuo braccio, attiravano tutta l’attenzione. Soffiavo scie di fumo come si scaccia un tormento, disegnando nell’aria tutte le mie remore in forma di nube tossica. Via, sembrava dicessi alle incertezze, via.
Ora che un varco si era aperto, tra il dire e il fare. Ora che la finestra lasciava entrare un po’ di luce, solo un po’, a ricordarmi gli occhi. E poi le mani, che sembrava disegnassero orizzonti sulla mia schiena, e poi la notte, che ci attendeva lungo la schiena scoscesa di questi colli. Ora che una nenia –un suono intenso, liberatorio, di passione- filtrava come luce dalle fessure delle imposte. Ora che sentivo il tuo sapore. Nel mio sapore.

Ma gli indugi di sempre si legano ai capelli, come le tue dita in quella sera calda, che profumava di germogli. Gli indugi di sempre hanno la presunzione di aver ragione, surclassando i sensi, poggiando la loro tesi sull’ingiustizia della logica. Sorda, ottusa, illusa.
Proprio ora. Ora che uno squarcio di cielo si vedeva, da questa finestra che non ti ha visto entrare.  Ora che la giacca non serviva più, e le tue vene pompavano forte il sangue in corsa verso me. Ora che le incertezze valevano quanto quei bottoni, quando i vestiti eran già sul pavimento e ci si spogliava pure di parole.

Ora, la consapevolezza della fine di ogni bacio, di ogni frase, di ogni grido di piacere. La consapevolezza sfinita sebbene appena iniziata che dietro ogni nostro momento si nasconde, come temporale dietro strati di nubi e soli, un addio. L’ennesimo, dannato, addio.

E gli indugi di sempre.

A ricordarmi gli occhi.


A Si., a  F., e a quel che resta

domenica 23 settembre 2012

220912






Venticinquemila voci.
Un solo volto, un solo pensiero. Un solo desiderio.



giovedì 20 settembre 2012

Come (di) pioggia





Come di pioggia. Come di pioggia sei il suono, quando cade silente e non fa rumore. Come un sospiro più grande, nella secca dell’estate che se ne sta andando. Come un respiro alla fine della corsa, l’ennesimo ristoro che attende il campione. Sei come di vernice, lucida e trasparente. Un senso profondo che emerge dal foglio, la rima baciata che da’ il suono alle cose. Che fai lì sperduto, quale nome hai perduto negli anni passati? Qual è quel  volto che non sai tratteggiare, quale il profumo, quale il suo sguardo? Quante fatiche hai dovuto superare, qual è l’eroe che più ti somiglia? Ti cerco, non lontano, attendendo la fine della pioggia. Che lavi ogni cosa, mi dico ancora. Che disinfetti la mia pelle dalla ruggine del passato. Che sia trasparente, che non faccia troppo rumore.
Come d’asfalto, sulla corsa dei giorni. Auto in continuo movimento, disegni bianchi a tracciare percorsi per anime sperse, più avanti poi a destra, cento metri e a sinistra. Ritrovo l’orientamento per farmi coraggio, lo perdo di nuovo se intorno a me c’è questo caos deserto. Di voci, di gambe, di motori e semafori. Una giravolta nel mondo, nella capitale del mondo.
Come di pioggia sei un lampo. Un solo momento. Come di pioggia sei lo scroscio, che fa da colonna sonora ad una nostalgia che già sento. Come tormenta. Come tempesta, che d’improvviso compare e non mi so riparare. Come carezza, sei una necessità ad occhi chiusi. Tu sei un futuro imprevisto che toccherò presto. Come in un sogno che non ho mai sognato, come un esempio che è solo a sé stesso, come una frase che ha un solo possibile predicato verbale, come una similitudine che no, non so inventare. 
Sei assente eppure presente in ogni dove, sei voce e lamento di un sentimento che attendo.

Lei colse un fiore, un fiore bianco, lo guardò di un amore intenso, lo carezzò come si accarezza il primo sentimento. Non fu per vanità, ma vi si specchiò dentro. Ora tutto –tutto quello che era lì intorno- aveva un altro senso. Mosse il ventaglio come fosse di cristallo. Preziosa l’aria, prezioso quel momento, preziosa pure la paura poi di perderlo. Ma colse un fiore, e lo guardò fiorire. Colse un fiore che ebbe bisogno di cure, di luce, di acqua, di premure. Che profumava di terra.


Come la pioggia. 

(ché niente pare mai abbastanza, dopo noi)

lunedì 17 settembre 2012

Supplica al cielo -delle banalità-





“E tu quanti anni hai?”. Le rughe sulla sua fronte, espressione di un tormento intimo, malcelato ma già attenuato, scrivevano romanzi di vita solo a guardarle. Ed io? Io quanti anni ho? Ricordo –come in un sogno- mentre con lentezza toccava i lacci delle scarpe. Ricordo con quale cura riponeva i suoi vestiti nell’armadio, secondo criteri che nulla avevano a che vedere con le stagioni. Li ordinava, già abbinati, come fossero ingredienti per una pietanza speciale. Ricordo la seta, profumava di mandorla. Ricordo le sue mani, porcellana e vernice. Smalto bordeaux, anello in rame. Ricordo le sue mani come fossero di un’altra. Troppo ruvida è la fatica per la sua pelle ancora così giovane. Mi chiese “tu quanti anni hai?”, mi disse che non avrei dovuto contarli, mai. Ed io da allora persi il conto. Ricordo una luce rossa nella sua stanza. Profumava di incenso. La guardai intromettersi nelle faccende del sole, quando affacciandosi alla finestra alzò gli occhi al cielo come in una supplica strenua: non era “perdono”, somigliava a “ti prego” - ti prego di non oscurare questa luce, ti prego, non piangere su di me -.

Le sue rughe sulla fronte raccontavano di un amore perduto a vent’anni e di un padre che scomparve prima che lei diventasse donna. Ricordo un ventaglio di pizzo, con i bordi in argento, logoro di quel tempo vissuto tra pagine e luce filtrata. Ricordo una voce rauca, quando –imbarazzandosi- raccontava di quell’uomo e di quando gli disse addio. Ricordo i suoi occhi bagnarsi di malinconia, la stessa malinconia che sentivo –io- premere sul costato. Era bella di quella bellezza eterna, che è timidezza e passione, che è frutto di un tormento, che è madre di quella saggezza. Mi disse che nulla si lascia al caso, che non avrei dovuto lasciarlo andare, quel sole, quel cielo, quel sentimento che nasceva piano. Ricordo un sospiro, quando, mostrandomi la foto di quell’uomo, alzò gli occhi al cielo come in un’altra –anche a lui rivolta- supplica al cielo: non era “ti prego”, somigliava a “perdono” –perdonami se ti ho allontanato, perdonami pure se non ti ho mai dimenticato-.


(A ottanta anni, come a venticinque).

domenica 9 settembre 2012

Chissà se poi





E allora scelgo di non esserci. Nella cesta dei panni sporchi, quelli che son di ieri e che domani forse indosserai puliti, chissà. Scelgo di non essere nel tuo album di fotografie, che magari domani guarderai pensando sia già al completo. Scelgo di non toccare mai più i tuoi fianchi, o la tua schiena. Di non far parte dei tuoi giorni, o di allontanare te dai miei. Scelgo di non essere nel tuo armadio, dimenticando un vestito che forse continuamente cercherai. Scelgo di non essere sul tuo cuscino, così che mai più ti fermerai a cercare il mio odore. Scelgo la paura. Ancora. Forse scelgo la resa, l’inafferrabilità di un sentimento che, da qualche parte, dentro di me, deve pure esserci. Io, invece, decido di mancare. Mancare su quel treno, quello del tuo viaggio verso noi. Scelgo il come prima, il chissà se poi, è meglio così, non è il momento. Decido di non cercare più i tuoi nei, o il tuo sapore. Scelgo di non essere tra le cose da fare, da vedere, da capire. Di non essere il primo tuo pensiero, forse neanche l’ultimo. Di "non tentare il tentabile". Ma l'amore, sai, non si tenta. Scelgo di piegarmi ancora una volta solo su me stessa. Scelgo di parlare sottovoce, di non urlare contro i miei errori. Scelgo di riservarti un posto, dentro me, esclusivo ed eterno. 
Sei la scelta che non avrei mai voluto fare. 
Sei l'amore che no, non si tenta.
Sei l’errore che non mi ha mai fatto sbagliare.
Sei quel senso che cercavo negli occhi della gente, per la strada, nei caffè. 
Sei la verità che mi mancava.

E sei l’amore che, ora lo so, non c’era. 

sabato 1 settembre 2012

Come petali




Scendono come petali e danzano, su trame di ossigeno e lavanda. Scendono e nulla so di loro, toccano la superficie setosa dell’altro - ognuno, ognuno dell’altro -. Sui capelli trovano suolo, sui miei capelli sciolti si legano alle intenzioni. E’ calda la sera, e lenta oscilla tra l’imbrunire e l’addormentare. Tocca le soglie del mattino, disegna l’aurora, si ritrae a guardare quel giorno che era. 

Ricordo.
Ricordi?
Non so dimenticare. 

Si ferma l’orologio alle due e trentatré, si blocca il respiro all’ora del caffè. 

Ricordo. 
Ricordi? 
Che cosa? 
Di noi. 

Sembravi un disegno, nulla di astratto, un concreto irreale, carta e colori. Sembravi la pioggia che l’ha cancellato. Tu eri colore, eri solo un colore. Trasparenze bugiarde, il mio abito nero, i tuoi occhi invisibili, la fretta di dare. Ma tu eri un colore, eri solo un colore. Levigavo il cuore come pietra preziosa – non fu malleabile, neanche con te -, ascoltavo le note del dì ancora neonato, per ricordare l’attacco, per non dimenticare quel ritmo. Non eri né nota, né luce, né sapore. Eri solo un colore. Lavanda. E il suo odore.
Scendono come petali e danzano, su trame di polvere e fumo. Tossico anche il respiro, in questa stanza che ha contaminato il suo spazio di attese. Tossiche le mancanze, tossiche pure le speranze. 

Ricordi? 
Ricordo. 
Ma cosa? 
Il tuo odore.

Eri colore su tele bianche, che male non avrebbero fatto a restare incolori. Eri un profumo, lo stesso, lavanda. Ed hai lavato via da me ogni carezza, hai reso pioggia e pozza tutti i ricordi: scendono come petali e danzano, su trame di ossigeno e lavanda, divengono acqua. Poi, in un attimo, nulla. 

Solo la sera, ogni tanto, si volta a guardarli. Ed è già un nuovo giorno.





(Bentornato, Settembre).