martedì 27 novembre 2012

Un mimo e il suo talento





Me ne accorgo. A testa bassa, in silenzio, contando i passi che mi han sempre divisa da te, riesco a scorgerti nelle venature del pavimento – il riflesso di quelle dei miei occhi – mentre ti dipingi su altre ciglia. Lo avverto come si avverte la pioggia prima ancora di veder bagnato, come un odore che annuncia un avvento, o come un brutto presentimento che diventa presagio. Lo percepisco ad ogni chilometro, mentre –zaino in spalla- inseguo una vita che non so dove si sia nascosta, lo percepisco ed è un morso, uno schiaffo, un insulto. A tutto quello che non ti ho mai detto. Il silenzio che è oro, ma svenduto a prezzo stracciato da un mimo e il suo talento, allunga la distanza, fa atroce la paura, disegna i contorni del mio sentirti, definisce i margini del tuo bastarti. Tu che ad ogni pagina tradisci il rigo, tu che non sai smussare i tuoi difetti, tu che non sai darti mai torto, misuri il tuo perimetro massimo, inaspettatamente. Io che non ho metri e non ne troverò, dovessi –zaino in spalla- arrivare in capo al mondo. Io, disillusione e continua mia illusione, controfigura inadempiente di me stessa, la scucitura sul polsino, la sbavatura del rossetto, la lingua perspicace di chi vive di sapori. Me ne accorgo, come lo leggessi nei tuoi occhi. E’ spaventoso. Avvertirti/avvertirlo e non saperti in nessun posto, percepirti/percepirlo e non averne alcun motivo. Sentire oltre la pelle che, attraverso la pelle, ti sento ancora. Che ricordo il tuo odore, ma che non riesco più (ancora) a pronunciare il tuo nome. 

A testa bassa, in silenzio –maledetto silenzio-, contavo i passi che mi restavano per arrivare a te. Riuscivo a scorgerti, sai, assai più vicino dell’orizzonte: trucco sulle ciglia –le mie-, odore del tuo odore su di me, solo un bivio da non dimenticare, un traguardo da toccare. 

Seppi solo il silenzio. Che è oro, sì, e che solo ora capisco quanto mi è costato.

(Nonsense. A migliaia di anni. 
4.17 -proprio come (con) te)

venerdì 23 novembre 2012

Un treno, in inverno


E allora la domanda si fa avanti da sola, ogni volta che nei passi verso casa cerco le risposte, quando mi affretto per non perdere l’ennesimo treno, o quando camminare nel caos della città mi pare l’unico modo di stare al mondo. Le città visitate negli anni, troppo poche per dire di aver visto e troppe per dire di dover ancora viaggiare, ritornano come un flashback di un tempo mai vissuto, si fanno nostalgia di tutto ciò che non ho mai toccato. Il fumo esce dalle labbra, mentre nelle cuffie la colonna sonora della mia vita si fa lenta, sempre più lenta, a stimolare la memoria. Passo dopo passo, battito dopo battito, tra quegli incroci di luci, di riflessi sulle vetrine. L’intorno tace, isolato dalle cuffie. Non c’è strada, qui, che non abbia percorso. Non c’è volto, qui, che io non abbia già visto. Le risposte che cerco - e che si divertono a giocare a nascondino con la bambina che sono - diventano sassi da calciare il più lontano possibile, per sfidarmi a raggiungerle. Al prossimo giro. E al prossimo giro metterò la sciarpa, ché non è neanche iniziato e già lo chiamano inverno. 

Adoro passeggiare, mi dico. Adoro immaginarti qui, tra uno sbuffo di fumo e la mano che si contorce nella tasca, come alla ricerca di un abbraccio. Pochi spiccioli ed un biglietto mai timbrato, per un viaggio in treno che ho sempre e solo sognato. C’era scritto il nome della tua città, sul tabellone delle partenze, quel giorno, in partenza da un binario ancora imprecisato. E anche lì la domanda si faceva avanti da sola, e la risposta si perdeva nell’annuncio del mio treno. 

E sì, adoro camminare. E cercare sui volti della gente una risposta, una qualunque, che possa ammortizzare il rimbombo delle mie incertezze. E la domanda si fa avanti da sola, insistente, mentre con altre lettere provo a farla sfuggire:  da cosa sto scappando?

Da tutti quei treni che perderei, da quelli che ho perso, da quelli che è da un po’ che non vedo arrivare.  Dal freddo che avverto: ché non è ancora iniziato e già mi pare inverno.



(Agli occhi miei)

domenica 18 novembre 2012

Amore, amor




E’ che si può scrivere di una sola parola, e costruirvi su impalcature di predicati verbali, e proposizioni subordinate e principali, e catene di complementi come ci fosse sempre una risposta ad ogni domanda. Di chi? Di cosa? Specificare di chi sia stata la colpa del nostro andare e poi, d’un tratto, andarci male, come vestiti acquistati anni prima e da un certo punto in poi non più calzati. Darsi una risposta ad ogni costo per far filare un discorso che altrimenti andrebbe perso: in un ammasso di frasi fatte ed escamotage qualsiasi, insieme a milioni di scuse già messe a tacere. Un filo che regga al peso delle nostre acrobazie, per mantenere intatta l'illusione dell'equilibrio. Cademmo. Lo perdemmo. Lo stuprammo, tentando di camminare su una sola gamba - l'altra già sospesa a cercare un nuovo suolo. Esaminare ogni frase, ricordare i gesti, rivisitare quelle sensazioni mute che ci fecero tremare. Come una divisione in sillabe che arrotonda per difetto, nel dirsi amor il tempo brucia ad una ad una le sue lettere. Di inchiostro o di carta, purché scritte:

Perdona il non-amore che non ti seppi dire. Perdona se le tue mani nuove stoffe carezzeranno, se i tuoi sì sulla bocca di un’altra cadranno, se il mio coraggio è ancora fermo al tuo sguardo. Perdonami per le menzogne ben recitate, per la tua interpretazione errata (del)la mia recitazione migliore.

E perché mentii nel dirti amore.

(solo una parentesi, nel vuoto delle attese)

martedì 13 novembre 2012

La bugia






- "Perché vuoi andare via?" -

Viale Manzoni sembra distendersi come tappeto, mentre il cielo cerca di scoprirsi gli occhi. Queste nubi come ostacoli, ad impedire la chiarezza della luce. Roma respira ad ogni passo, la senti fremere, terra che ribolle al ritmo del cuore del mondo. Il cielo, a quest’ora, ha sfumature arancio. Si incastrano, sempre più debolmente, a tangenti di fumo che accarezzano soltanto il sole. E’ bella, la Roma delle cinque, quando a guardarla son due occhi in cui il sole si rispecchia bene, che cercano luce e la trovano, che hanno ancora fiducia nel domani. Il marciapiede è lo stesso – stretto, troppo stretto per due -, ma l’aria che si respira è un’altra: l’odore di zucchero filato si confonde con quello disgustoso dello smog. E’ Roma: è calda, trema ancora, sempre savia, mai sazia. Traiettorie di occhi ai semafori, il lasciapassare verde, strisce bianche sulla strada come quel gioco da bambini. Mani che si scontrano per caso, il “prego” sommesso di quell’uomo alla fermata. Salgo sulla metro ed i ricordi si accavallano, una vita scritta sui muri e sulle panchine di questa città, flashback di me in ogni angolo ed in ogni via, quel rimpianto che non ho mai confessato, quel bacio che non ho più dimenticato. Si potessero scrivere, quelle emozioni che non hanno un nome comune, quelle fermate del cuore che hanno nomi propri: le ho riviste oggi, dal finestrino della metro, scorrere più veloce del tempo. Volti e voci e un solo odore, il mio corpo che s’è trasformato negli anni, i libri letti aspettando la fermata giusta. I treni persi e quelli rincorsi, le sirene come mille richieste di aiuto. E poi le persone, i loro sogni calpestati come sigarette, i loro soldi persi in una mano di poker. Roma è tutte le volte che non l’ho fatto, quelle in cui sarebbe stato meglio non aprire la porta, quelle in cui il cielo sopra la città era così eloquente da zittire pure il sangue. Ci pensa la città, quando necessario, a rendere gioiello un istante. Roma è quella lacrima che somigliava ad un verdetto, quella lacrima in piena, fredda di un gelo che mai si scioglie. Roma che mi ha visto nascere, poi tornare, come una mamma che sai che sempre ci sarà. Roma che è una donna anziana, saggia e battagliera, che non si spegne mai. Roma, bella e puttana, di calze rotte e un ansimare forte. Roma-mamma, Roma-amante, Roma-casa, Roma-realtà.

-"Perché vuoi andare via?"-
-"Perché l'ho amata e la amo alla follia, e l’amore per sempre è solo una bugia".-

venerdì 9 novembre 2012

Spazi bianchi



Amandine torna a giocare. Ha reimparato un vecchio gioco, uno di quelli che si impara da piccoli e poi si dimentica con la facilità con la quale si dimenticano tutte le cose belle dell'infanzia: riempie spazi bianchi con i colori. Sul giornale di enigmistica della madre, Amandine non cerca che quel gioco. Ha tinto i capelli venerdì, di rosso, prima di partire per il mare. Colora i quadretti vuoti  tra le parole, quando scrive. Prova a colorare i giorni cupi - cupi e gravidi come questo - ma quasi mai con buoni risultati. La scommessa - la rivincita, il tentativo - è sempre la stessa: oscurare - abbellire, falsificare, truccare - il bianco e nero della realtà. Raccoglie i suoi libri, perfettamente disposti sul pavimento, ed i suoi occhi si fermano su "Per fare un prato ci vuole un trifoglio e un'ape. Un trifoglio, e un'ape. E immaginazione. Basta anche solo l'immaginazione, se le api sono poche" (E.Dickinson n1755): per fare Amandine basta Amandine, per tutto ciò che c'è intorno, solo l'immaginazione. E allora Amandine si addormenta, esausta, sulla sua terrazza a cento metri dal mare. Quello che sogna ha i colori di tutto, e tutto ha finalmente un colore: gli alberi blu, il sole rosso, le case tonde, l'estate fredda, neve calda. Ha mangiato del tiramisù con la panna, proprio quello che adora. Non sopporta l'idea di non avere tra le mani, anche solo per un secondo, qualcosa che adora. E' buffa Amandine, col suo neo a metà strada tra il gusto e l'olfatto, l'aria soddisfatta di chi la fantasia l'ha già tutta in tasca, un fiore tra i capelli a farla bella per mezz'ora, quel profumo estivo sui polsi e sulla nuca. Ed è bella Amandine, di quella bellezza rara, non convenzionale, di forme accentuate e la riservatezza a farle da scudo: ha negli occhi la paura, Amandine, ma braccia tese e aperte verso il mondo, oscuro e sconosciuto. Ancora. Ha venticinque anni, ormai, Amandine. Quelli che sente - che avverte scorrere come acqua sulla pelle, inarrestabile, sempre più velocemente - sono molti di più. Quelli che vorrebbe avere - e che continuamente ricorda - sono molti di meno: l'altalena, la notte di San Lorenzo nella casa sul lago, quel pallone che non ha più calciato, la merenda alle sedici in punto. Queste, le cose che Amandine proprio non dimentica, che ricorda, anzi, sul finire del giorno, ogni santo giorno. Le ricorda come si ricorda una ninna nanna, con lo stesso senso di vuoto all'altezza dello sterno. Poi un libro, sempre lo stesso, che accosta ai primi tentativi di imparare a nuotare: Ventimila leghe sotto i mari. "Ventimila - pensava la piccola Amandine - ma quante saranno ven-ti-mi-la?" La grandezza, di fronte a tanta minuziosità, sembrava comparire come un'ombra imponente sulla sua espressione trasognata. Tenera, la piccola Amandine. Oggi le cose -pensa, mentre passeggia sulle vie assolate verso il mare (senza raggiungerlo mai, peraltro, il mare, e senza saperlo attraversare, ché ancora non impara a nuotare) - non sono cambiate: questo ammasso caotico di gente che viene, di quella che va. Amandine teme le persone, così come i bambini temono il buio, le ombre, la realtà. La stessa realtà che lei camuffa, quando può, colorando gli spazi bianchi dei giornali, delle attese, di quei pianti, delle parole a metà.


[...]

martedì 6 novembre 2012

A cuore spento




A cuore spento. 
Istinti aggrovigliati che non hanno via di fuga, istinti che somigliano ad animali, quando non resta che la corsa al più forte. Il gatto impaurito chiedeva perdono per quella briciola che non seppe dividere: la fame è ingorda, l’istinto un nemico. A stomaco pieno, il senso di colpa è un masso a premere sotto la gabbia toracica. 
Rinfacciami il freddo che non seppi evitare, rinfacciami i silenzi che hai dovuto ascoltare. Sbattimi in faccia il perché delle cose –che pure conosco bene-, parla la mia lingua, che è quella di dentro. Per una volta almeno butta giù la maschera, il tuo personaggio fittizio, superfluo, superficiale. Raccontami di quegli spazi vuoti -tra un rigo e l'altro- che non sai colmare, dimmi almeno che hai capito che i miei furon solo silenzi: scelti, indossati come un abito, calzanti come la tua maschera. Non fummo che teatro muto, a riempire una scena che era già morta di per sé. Tu col tuo fare che non mi inganna, io con l’intento di ingannarti: ché sarebbe stato facile mostrarmi, tutta, fiera della mia interezza, dei miei sarcasmi, delle mie tenerezze. Ma sarebbe stato poi altrettanto semplice perdersi, e la confidenza di me niente più che nebbia a fare da atmosfera. Eppure un giorno scrissi questo: filtri di parole che non volli mai pronunciare, suoni incerti, inventiva l’emozione. Ma il cuore mio, sai, pulsava ancora:

Non scelsi la musica. Immaginai voli pindarici su trame tradizionali, storie d’amore scandite secondo momenti e criteri già stabiliti, Tristano e Isotta e il filtro d’amore, l’amore (im)possibile che sempre ritorna. E ritorna. Incontrai per sbaglio i suoi occhi, dietro una partitura per oboe e violino. Incontrai –per sbaglio- le sue mani, mentre con la leggerezza della musica istruivano il mio udito. Fu epifania, un sussulto inconsueto, una scossa improvvisa a recidere le vene tra il tatto e la schiena. Lì dove tutto ciò che è tangibile diventa astratto e allo stesso tempo carnale, e vibra, e trema, e traccia la curva della donna che sei, nel solco dei reni, nella curva più acuta di te. Provai a calmare gli istinti, legai stretto il mio petto con lacci e catene indissolubili e ferme. 
E non scelsi la musica. No, non la scelsi. Provai con le parole a disegnarti ritratto, arrestai la penna sull’ultimo tratto: il tuo mento attento accarezzato dalla tua mano, la curiosità di me sul tuo viso posato. Arrestai le parole, provando ad immaginarti vicino. Fu una risposta inattesa scoprirmi di nuovo ad un palmo da te. Ma non bastarono, le parole, a spiegarti completo. Delle debolezze mie che accarezzi, mai esausto, come le corde del violino che ti vidi suonare. Per dare loro nuova vita, un tocco nuovo, nuove eco e nuovi suoni. 
Non scelsi la musica. E le parole non bastarono. Non bastano. Non basteranno ancora. Saranno pentagrammi e città storiche in movimento a dare a queste note un senso compiuto e il coraggio di un volo pindarico, in quella tua trama noiosa –l’ennesima- di tempi e momenti prestabiliti. Come le storie (im)possibili che d’amore non sono. Ma che sempre ritornano. E tornano. Non scelsi la musica e ti dissi poi "sceglila”, toccai le tue mani dopo l’ouverture del nostro primo incontro. 

Ed ora non basteranno parole, né rime, né quella trama solita e antica, ma sei sottofondo costante e appena accennato, la danza che mai riuscii a ballare, le mani alle quali non mi seppi dare-che non seppi mai abbandonare. Non scelsi musica e non ne sceglierò. Sei stato e sarai quel La che non so riconoscere, l'istinto animale che è tutto e nient'altro, l'illusione che le note non servano a render perfetto un istante.

A cuore spento.

venerdì 2 novembre 2012

Specchi a rovescio *




Gli occhi che ti guardano sono specchi a rovescio, corrosi dal tempo, rigati dalle mani che li hanno toccati-altri occhi che li hanno guardati. Luce contro luce, l’inganno del troppo, soddisfarsi di una traiettoria attenta, leggere iridi e poi non saper parlare. Fu un saluto, alle 23.00, a confezionare i nostri incontri in un unico pacco: mittente ignoto, ed il destinatario chissà. E non la chiamerai esperienza –non lo permetterò-, io non la chiamerò disfatta –non lo permetterai-: sinonimi negati, sinonimi messi a tacere. Ma uscire vincenti quasi mai è fatto degno di nota. Fu un saluto, nel buio delle 23.00, a ricucire gli strappi delle non risposte: una toppa ben larga a spiegare/colmare l’assenza. 

Di due giorni ad imitare il senso del vento, 
dei tuoi baci a dilatarne il tempo.
Delle carezze respinte come cibo che non toglie appetito: cosa vuoi che importi il sapore, volevo saziarmi, saziarmi di te. 

E gli occhi che mi guardano son specchi al contrario, arrugginiti dal tempo, offesi dalle parole che no, non sanno specchiare. Mi dicono una realtà –di me- che non sapevo allora, raccontano una donna che non conosco ancora. Ma non la chiamerai distanza –che poi si accorcia-, io non la chiamerò definitiva assenza –che non ritorna-: sinonimi pure questi di due opinioni uguali, c’è il tempo del tatto e quello del distacco. Fingersi vicini quasi mai è consolazione. Fu un saluto, alle 23.00 in punto, il rumore dei miei tacchi, quello del treno, il caos della città, a dirmi –a gran voce- che stavo andando via –via- da te.

E gli specchi a rovescio non son che occhi a guardarmi: sinonimi di un’immagine riflessa che non cambia, sia al contrario lo specchio, sia distante anni luce il tuo occhio.

(Fu solo un saluto, alle ventitré e zero zero, fu solo un saluto. Ora un addio).


*Scrivere pure se fa male e pure se fatto male. 
Scrivere comunque, scrivere ancora e ovunque.