mercoledì 18 febbraio 2015

Garbo (fiabe irriverenti)





- Con garbo - precisò Emma, quasi come volesse imporre ad altri il suo modo d'essere. Era facile, a quei tempi, trovare in un bicchier d'acqua la soddisfazione di un giorno affaticato. Era semplice, ma Emma ancora non poteva saperlo, sorridere del poco.

Mosse i capelli con la mano sinistra - nella destra, tra due dita, tabacco a bruciare -, piegò le braccia contro il ventre, cominciò a dondolare sulle note di una musica che solo lei sentiva. E' magra la solitudine, quando la perdita è stata subìta. E' gelida l'aria, e le spalle tremanti, quando del caldo non si ha che un vago ricordo. Con garbo, Emma sapeva domandare. Sapeva chiedere, e nulla pretendere, sapeva domandare con la curiosità di un bimbo appena d(on)ato al mondo. E mai riusciva a farsi, della mancanza, una ragione. Ma, con garbo, lei sorrideva di un sorriso aperto, incontrastabile sebbene contrastato. Aveva occhi grandi, di quelli che a guardarli chiunque può specchiarsi, e trovarsi - d'improvviso - migliore.
E allora dondolò, e dondolò con una tale lentezza - perché lenta era Emma: nel camminare, nel raccontare, nel darsi da fare, nell'amare - da fermare il tempo. Cristallizzarlo. Proprio il tempo, che niente avrebbe potuto, ora che tutto era fat(t)o. Ella riconosceva che i dolori non sono che amanti senza cuore, figli di qualcosa di più grande, morte di qualcosa di più grande. Con il suo garbo, ad ogni domanda avrebbe risposto, ed avrebbe abbassato gli occhi, poi, imbarazzata dal suono della sua voce a fluttuare nell'aria. 
E allora fermò il tempo, Emma, con la sua musica. Tolse le calze, le impedivano libertà. Pensò che sarebbe stato facile, se solo accanto avesse avuto lui, trovare la felicità nel poco. Prese il suo libro sul comodino, terminato da anni. Si alzò, colpita dalla luce di un lampo improvviso, mosse la tenda più in là - le scivolò sui capelli -, aprì la finestra. Il cielo la sorprese a domandare:

Tornerai? Dimmi, tornerai?

Gli occhi commossi e impietriti di chi ha scelto il dolore come amante non lasciavano scampo alla verità: Emma sapeva - Dio, se lo sapeva - che niente tornerà. 


[...]

giovedì 12 febbraio 2015

Stagioni (gli occhi di una calligrafia)





(Questi tempi lenti)

Aprì la cassetta della posta nel momento stesso in cui dal cielo cadde la prima goccia. Una busta verde, senza mittente, era sommersa da cartoline qualsiasi. Era quello il tempo d'autunno che, a goccia, faceva cadere anche le foglie. Stessa la forma e stesso il movimento. Corse in casa - lì niente l'avrebbe distratta. Parole arroccate l'un l'altra, e grafia lenta, dal tratto incerto, su trame di clorofilla e cotone. Poteva, accanto al caminetto, leggere -sconosciuta- l'ennesima lettera. Fu un regalo, sotto la pioggia di Ottobre, scoprire gli occhi di una calligrafia. Sul finire di ogni lettera, con altro inchiostro ed in neretto, una frase incorniciata da parentesi tonde.

(hanno il sapore di altri tempi)

Ogni dì, sotto il porticato in legno, attendeva - mai esausta - lettere senza mittente. Destinatario preciso, un indirizzo irraggiungibile eppure raggiunto. Era quello il tempo dell'inverno, bianco e opaco come il volto dietro la penna. Correva in casa - tra i capelli batuffoli di freddo - a scaldarsi col solo alfabeto. Poteva, sulla sua sedia a dondolo, farsi cullare dalle parole. Era un regalo ogni volta, quell'inchiostro a raccontarsi come sangue.

(hanno il sapore di lettere inaspettate)

Fiori a dipingersi nei prati, e urla di bambini a colorare il silenzio. Poi il rumore di una bicicletta e ancora la cassetta della posta da svuotare. Era quella la primavera, a germogliare ancora lettere, a ridirle intatte e a regalare loro un profumo, uno qualsiasi, improvviso e inatteso. Corse in casa - un foulard rosso a farle da scia - ad odorare frasi di porpora e lillà. Era un regalo, quel foglio piegato con cura tra sbavature blu e graffi di biro.

(hanno un sapore, sai, che mi piace)

Colline assolate, al di là della finestra. Il corpo di lei nudo al di qua del muro. Era quello il tempo d'estate, col sole a bagnare la fronte, cogli occhi aperti su quello che ancora v'era da dire. Correva in casa - solo una veste, corta e azzurra - a respirare quel vento la cui provenienza era ignota. Era ancora un regalo quell'improvviso respiro, era di nuovo un regalo, ogni volta atteso, ed ogni volta inaspettato. Prese la penna nel taschino, diresse lo sguardo verso il suo taccuino e prese a scrivere al suo destinatario parole che lui mai avrebbe conosciuto:

 questi tempi lenti hanno il sapore di altri tempi, hanno il sapore di lettere inaspettate, hanno un sapore, sai, che anche a me piace.


[Anni dopo, in un giorno di pioggia, il postino vide un piccolo taccuino all'angolo della strada. Tra il bianco di ogni pagina quella sola frase a dare un senso al silenzio. Ebbe tutte le risposte che negli anni non ricevette, ebbe indietro tutte le lettere che negli anni le scrisse, ebbe indietro tutte le stagioni che la sua penna le aveva dedicato. Ebbe tutto questo - d'improvviso - in un piccolo, perduto, ormai vecchio, taccuino].


(Alle mie lettere, quelle ricevute. 
Nelle quali lessi proprio questa frase.)

lunedì 2 febbraio 2015

Fame (il puzzle emotivo)




Discorsi concentrici, volti al fulcro di ogni cosa, pasta molle per i miei incisivi, affilati quanto basta a tagliar di netto ogni pietanza. Che sian parole, cibi o circostanze. Il nucleo morbido e succoso, casa dell'essenza e del sapore. Vuoti d'aria che percepisco appena e percepisco all'altezza dello sterno, come ansia da prestazione o dolori da alienazione. Lo stesso meccanismo della fame. Riempire vuoti recidivi. E c'è una fame che non è mai vera fame. Bulimia di attenzioni - vedere l'amore dove amore non v'è -.

Avevo palpebre gonfie, quasi a toccar le sopracciglia: le lacrime avevano tentato una diversa via di fuga, per dirsi assenti. Non più rigando le gote, non più seguendo la linea del naso, per cadere più forti, per farsi sentire. Ora, pudiche, cercavano nascondigli. 
(Credetti in lui, come in una gara a fare il tifo. Sbagliai a puntare, soldi o dito). Io dissi - con questa bocca, la mia lingua, velo palatino e saliva - dissi ci sono. Non più un solo motivo per esserci (esistenza in quanto tradizione e mera testimonianza dei fatti), né graffi, né cure. Ipotesi di un complotto del tempo, che alle mie spalle i miei sensi gestiva. Tentai strade alternative ed escamotage di parole a perdere. Poi i sensi risvegliarono ogni percezione e di noi non rimase che un vuoto guadagnato. Scoprire, oggi, che altro non fosti che un nome, di quelli che a Natale tieni chiusi in un biglietto, legati a della carta con un solo nodo, sottile ma stretto. Fosti solo un nome e come tutti i nomi nella mia rubrica sei finito, accanto ad un numero ormai inesistente fatto di inchiostro sbiadito. Scoprire, come un'epifania di luce, che i tuoi anni a questo e null'altro son serviti: pietanza, parola o circostanza. Un ricordo confuso di un niente travestito da vita. Frasi di odio che ancora mi par di sentire, tu che insegnasti a non vivere e a vivere ancora. Dopo di te, che tentasti la mia resa e la mia sazietà, luci e scoperte. Dopo di te un palato ancora mai sazio. 

Perché c'è una fame che ha ogni dì un nuovo inizio. Perché c'è un coraggio che ha forma e manifestazione diversa, che combatte ed agisce cogli occhi, sugli occhi, negli occhi. E che parla sottovoce. C'è una forma di tenacia che ha altri imperativi, che pur somigliando alla resa non ne è che antitesi. C'è una forma d'amore sottile, che non ha mai bisogno di alzare la voce. C'è una forma di vita più forte, che non si sente mai sazia.

Ed io ho ancora fame. 
(Che sian pietanze, parole o circostanze).


(Un collage di post iniziati e mai conclusi. 
A spiegarmi, col senno di poi, gli eventi).