sabato 13 dicembre 2014

(dov'è?)






 Perché è qui che mi hai portato, e allora, ancora, io non sapevo dirtelo.

"Dove ti porteranno le mie gambe - e il mio cuore urlante -, appesantite da questo dolore vorace, mangiate da questa bestia che non dà pace?" Cogli occhi tu domandasti questo - fu questo, son sicura, fu questo. Quel dolore che non conosce ragione - un male sagace - lo sputo in faccia della vita - lo schiaffo vigliacco della felicità data e non restituita. Avevi occhi grandi - una carezza, il tuo sguardo, che altri non potrebbero mai. Braccia aperte verso le mie - ché a me chi altro ci avrebbe pensato? E guardavi - continuavi a farlo - come a dirmi "scusami, amore mio, se non sono riuscita a proteggerti. Scusami, amore mio, se dal dolore non posso salvarti".

"Come ti proteggerò d'ora in poi, in questo tempo nuovo che ci vede sole, costrette in mura gravide di lacrime e stanze che già ne riconoscono l'assenza?" Il tuo abbraccio mi raccontò questo - fu questo, son sicura, fu questo. Quel silenzio che non conosce consolazione - uno strappo all'altezza del petto - violenza inaudita - aria compressa - la testa - il mio cuore (dov'è?). Cercavo il suo volto - ricordi? -, cercavi la mia mano - ricordo -. Crollai a terra d'istinto, mi rialzai per vederti arrivare. Sei stata, tu sei, di ogni mio gesto, il motivo. 

Le ombre sembrano rimpicciolirsi, e la luce disegnare aperture sulle pareti. C'è luce, oggi, a colorare queste mura. In questi giorni che hanno il sapore della rivincita. In questi giorni che sei qui, ad un passo da me, a tenermi ancora per mano. 

Ed è qui, mamma, che tu mi hai portato. 

A dirti grazie, amore mio, per avermi protetta. 
Grazie, mamma mia, per avermi - mille volte - salvata.



Migrant mother by Dorothea Lange

giovedì 4 dicembre 2014

Stoffa bianca








Poi il rumore dei suoi passi si sentiva in lontananza. Brevi, veloci. 
Era forse solo un miraggio, quell'immagine di sagome e ventiquattrore aperte sul pavimento, e libri e cassetti ancora aperti, e tavole imbandite di cibo e fiori - di fiori -. Era un tempo, quel tempo, di gomitoli districati e non da districare. Di piante rigogliose da non innaffiare. Finestre aperte, tanto fuori non c'è che sole. 
Ieri ho sentito i suoi passi. Avvicinarsi di soppiatto come fa il futuro. E ieri non è stata che una cerniera a chiudersi. Io, sarta dalle mani ferite e il cuore pure. Lei, la vita, tessuto caldo eppure scucito, strappato. Come mancasse ancora un drappo. Ne ho cercati, prima d'ogni altro posto, nei cassetti di questa memoria. A ricordar se davvero c'è stato un momento, prima d'oggi, in cui 'sto vestito si è irrimediabilmente strappato. Ne ho cercate di stoffe, pure nel presente. E ad ogni gesto mio di ricerca, il tempo s'è fermato. 
Ieri, per questo, altro non è stato che cerniera. Tra ciò che è stato e quel che è. Ieri, ancora una volta e per la prima volta, ho stretto nel pugno un cuore intero che da solo batteva anche per me. Come cerniera, uno spartiacque fermo oltre il quale non posso più guardare. Cerniera che chiude al passato, ferita rimarginata che corre sempre il rischio di riaprirsi. Di mostrarmi. Io, sarta dalle mani tremanti - sarta dalle mani amanti -. Ago e filo i soli strumenti. Una trama da cucire ed una da inventare. 

Stoffa bianca, la mia vita. Carta bianca, questa vita.


(Di un compleanno festeggiato.
Del mio compleanno, finalmente, goduto.)

giovedì 20 novembre 2014

Un altro caffè







Chi sono? Io sono quell'estate dell'88, fatta di garofanini e sempreverdi che, da terra, si innalzavano come braccia imploranti verso il cielo. Sono quel diario distrutto, violentato dalla forza delle parole. Sono quel giorno di Maggio, quando il treno - e non io - aveva una sola direzione. Avanti, sempre dritto, su binari che non danno scelta. Sono il traffico per le strade di Roma, sempre ferma eppure in movimento. Sono la corsa, l'incanto, la sbronza. Sono una notte di freddo sul lungomare di Nizza, quel sogno rubato da una cartolina a vent'anni. Io - lo riconosco - sono il vento che apre e sbatte le finestre al primo autunno. E sono la quiete, la luce, il calore. Non sono che questo/io son tutto questo.

Ho portato a spasso le mie gambe per chilometri enne. Sarebbe bastato - mi dico - fermarsi in un bar. Incontrare i tuoi occhi tra quelli degli altri, riconoscerli familiari - quel nero corvino che non ho mai nemmeno intravisto -. Sarebbe bastato - mi dico - fermarmi e pensare. Che male può fare, tra vino e tabacco, un'allucinazione d'amore compiuta? Può fare di un male, di un male vorace. A mangiare la carne, a rosicchiare pelle e vene come bestia affamata. Fa male, può farlo. Può fare del male.

E io, io chi diavolo sono? Sono la pioggia, quando suona il si bemolle. Sono quel tavolo rotto, in disuso da anni, retaggio di una vita passata che non pare la mia. Sono le passeggiate in bicicletta, io sono l'acqua - lo scrissi -, sono la spina sullo stelo, il petalo penzoloni nel vuoto. Sono il fiore, talvolta io sono il fiore. E poi tutti i nomignoli che ho avuto, gli schiaffi che ho preso, quelli che ho dato. L'odore di bruciato, la primavera, il selciato. Io sono una lettera sempre incompiuta - la firma, la data - mai ricevuta. Io son tutto questo/non sono che questo.

Ed ho ascoltato milioni di frasi, arroccate l'un l'altra, portatrici di unico messaggio: censurata, la libertà del mio dolore. Violentata, ancora una volta, da mani che non sanno toccare senza fare del male. Ché il dolore, eh, ha una sua maledetta dignità. E sarebbe bastato - mi dico ancora - rispettare me stessa. Sarebbe bastato, dopo un caffè e una sigaretta, restare in quel bar - mani tra i capelli - ad attendere ancora quegli occhi corvini. Basterà - mi dico di nuovo - basterà, dietro un tavolino che solo attende te, prendere ancora un altro caffè.

(Sono odore di caffeina, attesa strenua, pagina bianca, carezza di prima mattina).

giovedì 13 novembre 2014

Passerà (ironia della sorte)


Riprendo, oggi, il filo del discorso. Un filo che si dipana lungo tutto il mio cammino. Fatto di attese, perdite, nuove consapevolezze. Rinascite.

Non l'ho mai rimpianto, io che son figlia di Amore e Venere e non conosco forma d'amore diversa dall'amore. Accavallo le gambe mentre la radio passa Adesso è facile, e l'odore del caffé mi taglia in due l'olfatto: nell'altra narice passa odore di vita - senz'altro messa a tacere, prima di queste settimane qui -. Riscopro cose scritte qualche anno fa, quando nell'incertezza di un Novembre nostalgico mi affrettavo a pensare a Natale, malcelando il dolore di pacchetti non più da confezionare - e ne incartavo di nuovi, mai consegnati e mai contraccambiati -. Mi sorprendo a sorridere pensando a vecchie diatribe, mangio un dolcetto fatto apposta per me, poi mi rimetto seduta accanto ad un foglio e una penna che sembrano star lì ad aspettarmi. E gli occhi son sereni, oggi, sebbene lucidi. Vi si leggono, oggi, consapevolezze tarde e pochi rimorsi. E rido, pensando ai teoremi urlati che i miei timpani hanno dovuto tollerare, o all'ignoranza acerba di chi ha una vita impegnata ma della vita non conosce che impegni. Rimetto in ordine le coperte - fa freddo, in questa casa nuova e ancora sgombra ma calda d'amore - .

23 Novembre 2011

La chiamano ironia della sorte.
C’era motivo per andare viami dicevi in uno degli ultimi venerdì d’estate. E’ facilepensavo tra me e me, lasciare andare tutto in Agosto. Trovar calore in altro modo, non sentir freddo mai, non nelle attese, neanche nelle mancanze. Trovare negli angoli di questa città una via d’uscita. Negli angoli. Nelle strade buie e senza uscita di Roma vecchia vedere un’uscita. Avanti, sempre dritto, una luce in fondo ci sarà. Pensavo, di nuovo pensavo tra me e me che è facile, d’estate, prendere altre rotte, puntare nuovi territori da esplorare, nuove voci da ascoltare, culture diverse a mescolarsi con la propria. Ma non in inverno. Ché col freddo gelano anche i sensi, e ci si scalda solo coi ricordi. Pensavo ai profumi: quelli no, non muoiono col freddo. Resistono, sulla linea sottile dell’olfatto, sotto il naso, sulla bocca. Diventano sapori. E reminiscenze sepolte eppure eterne, a risvegliare le dimenticanze.
Sarebbe stato difficile, pensavo, sarebbe stato difficile non sentire la tua assenza dietro un odore, dietro una voce, sotto una coperta, in inverno. Pensavo che sarà del mio Natale, delle carezze attese per giorni e sempre appese alla finestra, ad aspettare un tuo ritorno.
La chiamano ironia della sorte se, sul lungomare di Nizza, un venerdì di quasi sei anni fa, ci abbracciavamo per la prima volta. Se per anni ho atteso che tu tornassi, ogni venerdì. Se mi hai baciata sulla porta di casa, di venerdì. Se un venerdì qualunque sei andato via.
La chiamano ironia della sorte e mi vien da sorridere se, per un nuovo volto, un qualunque volto, ho atteso ancora che fosse venerdì. Ed attendo. Un nuovo mare, un odore, un nuovo abbraccio, un sapore, un nuovo bacio. Una luce.
Per le stesse strade. Lungo nuovi scenari.
In un Novembre che inverno - e freddo - non è.

Passerà, mi dicevo del dolore solo qualche tempo fa.
Passerà, mi disse qualcuno qualche tempo fa.

Nemmeno è arrivato, sai, che è passato già.

lunedì 13 ottobre 2014

Io sono voce





Sulle stesse strade - diceva - su queste strade non passa mai nessuno. Di cieli tersi, qui, non vi sono che fotografie. Scrisse lunghe lettere e mai confessò a chi. Parlò lingue in disuso, perché il suo messaggio fosse ancor più prezioso. 
- non hai che vent'anni - qualcuno le disse, sotto la pioggia.
- non hai che una voce - lei pure rispose, malcelando sarcasmo. La pioggia le si gettò come furia sul costato. Ho tempo - pensava - per imparare a difendere me. Il cuore compresso, alimentato di sé. Un ombrello a pois, a donare fantasia ai giorni. Non vedo, non sento, pensava fra sé. I sensi tutti impotenti, gridavano - muti - attenzione. Poi le labbra - le labbra - si facevano secche, ché le parole, a vent'anni, non son che un di più. E di donna non hai che la forma, ancora solo accennata. 
La luce soffusa le regalò un po' di pace. Eroina di una virtus sconosciuta, a lottare con le decisioni di un fato mai abbastanza giusto. Mai abbastanza onesto. Che freddo, a vent'anni, quando ancora cerchi risposte. 
Non hai che vent'anni, bambina, e un sorriso che può aprirti tutte le porte. Avrai piedi e scarpe rotti, e fronte crucciata, e viso provato. Non avrai più domande, e rossetto a dar vita alle labbra. Incontrerai cieli tersi, e strade mai a riposo. Sarai solo una voce, e con quella - solo con quella - tutto potrai.

La pioggia, mentre scrivo di me a vent'anni, mi si getta forte sul costato. Non imparerò mai - penso - a difendere me. Non imparerai, bambina, a difendere te.
Ma saremo una voce. E con questa - te lo prometto - tutto potrai.

mercoledì 8 ottobre 2014

(Epiloghi come scommesse. Vinte. Epiloghi che sanno di inizio e mai di fallimento. Sotto il vestito, odor di pelle da baciare. Sul viso riconosco e curo le rughe di ciò che è stato. Ora che il futuro ha cambiato veste, ora che il futuro - finalmente - mi somiglia,

sorrido.
S - o - r - r - i - d - o).

martedì 23 settembre 2014

Inciso

Di passi lontani, l'incertezza dei sensi. Ho fame - pensavo - dei suoi sordi respiri. Sei fame - sentivo - e dolcezza ormai saggia. Hai bocca - tu - hai mani hai pelle odore - la voce - che a me sanno parlare. Di vene il tumulto, nei battiti stanchi di un cuore che riprende a pompare. L'assenza-presenza che è in me esistenza. Di ogni volta che ho taciuto, di ogni volta che ho mentito.

(Ché ciò che voglio ha da anni cessato ogni cammino. Ché ciò che ho dentro ha un nome che non so davvero pronunciare)

Di labbra il colore. E lunghi baci immaginari. E discorsi chiusi in una scatola.

Da regalarti la prossima estate.

lunedì 1 settembre 2014


--> 7 Aprile -  18:11

"Sono diffidente con le persone. Non credo possa esistere un rapporto limpido e trasparente, sgombro da bugie e sotterfugi. La mia paura di perdere le cose e il male che, come dici tu, mi faccio da sola. Poi ci siamo noi. Io e te. Una delle poche cose al mondo che mi fanno avere fiducia nella vita, nelle persone, nell'idea che la felicità non debba avere necessariamente un prezzo. Io e te. Mia. Guenda. L'arancione. I Radiohead. L'albero di natale sulla porta, a Pasqua. Il vino. I telefilm. Le notti calde e serene. Ingrassare d'amore, come fossimo incinti di sentimento. La tua danza del ventre. La gioia che mi hai dato ieri, venendo con me. L'idea di unire il mio e il tuo armadio e vestirci insieme nei giorni a venire. Pare assurdo, a volte, che tutto questo meraviglioso esserci non abbia un prezzo. Ed è questo il mio più grande limite: la convinzione che tutto debba deludermi, facendomi pagare così il prezzo dei giorni felici."


<-- 7 Aprile - 18:17

"Io ti amo"


Se fosse una cena, questo, sarebbe il momento del conto. 
(Salato. Ma per metà, stavolta, già pagato).

venerdì 1 agosto 2014

L'analogia sghemba





[...]

Ma scrissi pagine sbieche, frasi oblique di una obliqua mancanza. Scrissi in corsivo, perché obliqua fosse l'andatura. Marciai di lettere, lungo una strada bianca che a nulla avrebbe portato. Cantai di eroi quotidiani e di quella carezza-madre che è più di un'eroina. Incisi di grafemi roccia muta, facendola parlare. Constatai che a nulla sarebbero valsi chilometri di parole, ma volli ancora scrivere - ché tanto, mi dissi sottovoce, quel che scrivi tu lo senti già -. Ma rivelai a me cose che mai la mia mano avrebbe pensato di scrivere. Profeta di un reale illusorio, a fingermi padrona del mestiere davanti ad una tastiera - che se fosse calamaio avrebbe dove altro immergersi, piuttosto che annegare in gocce di lacrime mie -. E sarebbero - pure quelle - lettere sbieche, frasi oblique di una obliqua mancanza.

- Cosa mai scriveresti, qualcuno mi chiese, se nessuno ti avesse mai ingannato? -
- Il dolore è ispirazione, l'inganno è solo un impostore. -

Mai scrissi del carnefice, io scrissi solo e soltanto del dolore. Mai commentai fatti accaduti, mai raccontai i tranelli, le malattie e gli imbrogli. Mi feci strada nell'alfabeto cercando lessico e forme linguistiche appropriate. Io mai - mai - scrissi o dissi quale fu l'inganno. Ma scrissi. E son state - pure quelle - lettere sbieche, frasi oblique di una obliqua mancanza: perché si percepisce di traverso, attraversando ogni parte del mio corpo. Un taglio di precisione lungo la carne, dall'angolo dell'occhio, al tallone mio che forte non è stato mai. E allora scrivo in corsivo, perché obliqua sia pure l'andatura: di questo ragionare perpetuo e sfiancante che ha nome Passato e che mente, mente spudoratamente: 
                                                   
                                                           ché a passare, questo qui, non passa proprio mai. 


[...]

lunedì 30 giugno 2014

Shh







Scrivemmo lettere senza indirizzi: la nostra penna la voce, il nostro inchiostro nient'altro che cuore. Scrivemmo lunghe lettere e mai sapemmo individuarne destinatario, sia questi l'amante di ieri, sia questo il futuro solo sognato. Raccontammo storie di romanzi letti a vent'anni - che a pensarci, paradossalmente, sembran trascorsi altri vent'anni. E invece la vita è ancora tutta qui, sui nostri palmi. A presentarsi col nostro nome a ogni stretta di mano, a concedersi come una carezza, ogni volta che abbiamo voglia di sfiorare altra gota. Ecco, la vita si disegna - si materializza - ogni volta che le mani compiono un gesto: la penna stretta tra le dita; l'anello che qualcuno, un giorno, ti ha donato; la coccola di tua madre appena sei nato; lo schiaffo in faccia che a dieci anni ti hanno dato; la mano sulla fronte a coprire la luce del sole - troppo forte per questi occhi umani, troppo bella per questo sguardo che oltre non sa proprio vedere -. 
Scrivemmo lettere e non perché altri le leggessero. Le scrivemmo, in cantina, perché la vita - quella creatura così fragile - in qualche modo venisse custodita. Riempimmo spazi bianchi coi grafemi, con la cura che si concede solo alle cose che ami. Colorammo di parole il nuovo giorno, perché avessimo sempre delle risposte, qualunque domanda ci facessero. Fu breve - molto breve - il passo tra le lettere e il silenzio.

- Shh - ricordo mi dicesti, appena sveglio.
- Shh - risposi io ridendo, quasi avessimo terminato le parole. E ascoltammo, per ore, un silenzio asettico, intermezzato da flebili bum del cuore - stesso ritmo, stesso andamento -. Morimmo, forse solo per un attimo, guardandoci. (Forse la serenità vera, mi dissi, è nella quiete. Forse l'amore, quello pieno, è solo nel silenzio).

E scrivemmo lettere senza indirizzi: penna e inchiostro, e mai più una voce. Scrivemmo lunghe lettere indirizzate a noi. Sapemmo leggerle. Sapemmo farcele bastare. E potemmo, ogni mattina, morire solo per un attimo, per ricordarci che la vita è ancora tutta qua.





(di quella voce amica che oggi merita - ancora più di ieri - un po' di "silenzio")

martedì 10 giugno 2014

giovedì 22 maggio 2014

Livido







Le gambe macchiate di viola e ancora calci da scagliare contro le pareti. Sangue rappreso in quel tessuto che ne è prigione - ché sfociare ora non può/ ché solo un tacito guarire può - a dare un colore luttuoso a quella pelle fredda. E freddo fu il senso di ogni botta, data e ricevuta, in quella lotta tra impotenti. Freddo fu il vento, quando non si poté seguirne il verso. Fredde pure le pareti, quando i calci, a dirla tutta, eran destinati allo specchio. E allora scrivo, emocromo completo, per anafore e metafore sciocche, il dolore di ognuna di quelle botte.

E ricordo - occhi lucidi - una storia: lui la picchiava solo in punti nascosti. Sul ventre: tanto al mare, quest'anno, lei non poteva andare. Le spalle: chi vuoi che capisca che a farlo non è stata la porta. Le gambe: niente gonne, quest'anno, chi vuoi se ne accorga. Lei non urlava, quasi come il suo grido implodesse, rimbalzando tra il ventre e la lingua, in un "aiuto" disperato ma muto. Il dolore sta zitto, si nasconde nel buio. Non v'è traccia o ferita che l'altro possa notare soprattutto se no, lei non ci va al mare. I lividi, quelli li vede solo lo specchio, e solo cogli occhi di chi vi è di fronte.

Poi - improvvisa - una carezza. Sul ventre, affinché l'amore si manifesti - immediato - attraverso quel vuoto d'aria che attendi. Sulle spalle: ché a coprirle, stavolta, non son solo i vestiti. Sulle gambe: il cammino, d'ora in poi, lo si farà in due. L'odore di un uomo che solo coi sensi ti sfiora. L'amore che cred(ev)i. Lì.

Le gambe non più macchiate di viola ma ancora calci da scagliare contro le pareti. Ché la macchia non appare ma è nella carne (a contaminare). Dolore che implode, come quell'urlo strozzato tra il ventre e la bocca. E rimbalza, costante, tra vene e tessuti. Che compare, talvolta, quando nel chiudere gli occhi quelle strade di sangue colorano il buio. E fatichi a riaprirli, e vorresti non chiuderli più. Palpebre asettiche, inermi, devitalizzate. Vorresti. E riappare, talvolta, quando piangi, disperata, senza apparente motivo. 

Ma il motivo, sai, non appare mai.


(Il dolore di un'altra. 
La sua vittoria. 
Il suo pianto).

lunedì 5 maggio 2014

Fi-ore





Certi giorni la finestra pare parlare: c'è un mondo fuori ed uno dentro, entrambi da esplorare. Chiusi, noi, in un amore di cartapesta - arruffato ed elegante, rumoroso, talvolta -che si apre alla vita come un germoglio. E' nato, tra queste quattro mura, un incrociarsi di istanti, eventi, sguardi e sorrisi, che non so come narrare.
Certi giorni pare pure fretta, questo corrersi incontro nonostante i bassi di una storia che è nata figlia di uno stelo già spezzato e dal quale nessuno - nessuno- avrebbe mai sperato nascesse nuovo petalo. E' che, certi giorni, tutto questo darsi ha un nome solo e una sola possibile declinazione, qualche rima baciata com'è quella con fi-ore. Son gli stessi giorni in cui corro - tra una casa da svuotare ed una da riempire - per inseguire il mio/nostro futuro. In una Roma caotica, che non sopporta di vedermi percorrere a piedi tre chilometri ogni giorno - tale la distanza che prima d'oggi ci separava -, e mi guarda stupita dai finestrini dei tram. - Corro a casa - vorrei dire a tutti - urlarlo, urlarlo come si cantano le canzoni d'amore, come si esprime il dissenso, come si annuncia una gioia - urlarlo una sola volta e poi sdraiarmi, la sera, accanto ai tuoi occhi socchiusi.
Certi giorni non so fare altro che sorridere, del tempo trascorso e di quello a venire, dei progetti e pure del rischio che questi vadano in fumo. Son giorni rari: corpi sinuosi che muovono, indisturbati, le fila di me. Qualcosa oltre la quale io non posso - non voglio. Vortice astratto di eventi, combinazioni, chiavi da tenere e altre da dare indietro. Poi gli scatoloni. Le foto, pure quelle. Il contratto dell'amore che vieta - dico vieta - non ci si lasci libertà. E' questa la mia promessa: libertà. Che tu sia sempre ciò che sei.

E' che certi giorni capisco di non saper scrivere della felicità. Gli stessi giorni in cui sono felice. Si scrive il dolore, quasi mai l'amore. Ma certi giorni vorrei dirti che sì, ho tempo a sufficienza per iniziare e stravolgere tutto, rompere di nuovo il divano, fare progetti e, se così sarà, distruggerli in un lampo, ho tempo a sufficienza per darmi all'amore e ai litigi, per sorridere e struggermi, per sopportare il solletico, e per guardare altre mille puntate della nostra serie preferita.
 
E avrò tempo, ogni notte, fosse solo un secondo, per guardarti a occhi chiusi mentre fai riposare la vita. Che pare così vera e bella, in questi giorni qui.
 
 
(Slanci emotivi
si prendono gioco di me)

mercoledì 23 aprile 2014

Endiadi (e altri artifici)

 
 
 
 
 
I passi scanditi come gocce residue, nella caduta libera della gravità. Diverso lo scarto sonoro, uguale il ritmo, costante da impazzirne. Stessa la stanza, costretta dal mio gusto a cambiare abito e accessori, e malgrado questo sempre uguale, come se davvero non volesse cambiare.
Perché puzza, quest'idea del futuro che corre deciso verso di me, che non s'arresta, nonostante i rallentamenti che subisce. Puzza. D'asfalto fresco e catrame. Di vernice appena stesa sulle pareti. Di ammoniaca, talvolta, quando l'inspiro è più forte del respiro. Di noce moscata, quando il tappo è aperto e il dosatore è andato. Ha l'odore agro del limone, quest'idea irrazionale che si possa - sai, si può - aprire le braccia, sdraiati, e lasciar fare alle cose senza paura. Ha l'aria della farsa e del gioco, quest'intuizione fulminea che suggerisce che ora c'è solo da andare.
 
Ma dove vai, mi dicevo a vent'anni, quando un paese di mille anime mi vedeva fuggire verso una Roma neanche troppo lontana.
Mi dicevo dove vai? Coi tuoi modi da bambina, a sconfiggere il dolore di un altro - lo stesso mostro che non riesci ad affrontare tu.
Dove - dove - vai? su quel treno di Maggio, quando ai fiori, sbagliando, non prestai la minima attenzione.
Dove vai? in volo verso terre lontane, affamata di volti e di culture da succhiare.
E ancora dove vai? Quando la terra sembrò inabissarsi, e i miei piedi poggiare su suoli di vane speranze.
 
Son gocce residue di un flusso costante ed ora spezzato. Una consequenzialità sparita, col senno di poi. La forza di gravità che condanna alla caduta, senza possibilità di appiglio. Certezze a crollare come foglie, da quest'albero malato che mai scelse la malattia. Sempre la stessa, costretta nel mio guscio e da questo mai fuggita, come non avessi bisogno di respirare - inspirare la vita. Respiro. Inspiro. Perché ha un buon odore, quest'illusione che corre decisa verso di me, che non s'arresta, nonostante i rallentamenti che subisce. Profuma. Di caffè, latte e vaniglia. Di primavera. Ha l'odore della benzina quando il viaggio è solo iniziato. Profuma di sapone, quello vero, da sfregare tra le mani. Di scommessa, nell'attesa trepidante del risultato. Di mare. Ha l'aria di una bella donna-madre, quest'illusione che ha nome Domani e che si affanna ad arrivare.

Sì,
ora
c'è
solo
da
andare.

martedì 25 marzo 2014

Fiori secchi (remove before flight)





Parametri linguistici e carte medievali da decifrare sulla scrivania, luce soffusa e un chiarore sagace in mente. Scatoloni imballati a riempire la stanza: si parte, pensavo, ma del viaggio nemmeno il biglietto. Un mazzo di chiavi e una valigia, poi, all'angolo del letto. Fiori secchi che porterai con te, ché i ricordi appassiscono ma a morire, sai, non muoiono mai. Puoi conservarli – mi dico –, basta un vaso e nessun'altra goccia da versare. L'infelicità ha lo stesso colore del fango, il rumore del tonfo, l'odore di piscio. Ha tempi dilatati e gli occhi pure, è rugosa, l'infelicità, e arranca ad ogni passo. 

Raddoppiamenti fonosintattici inaspettati – mi dico, rovistando fra le carte – e analisi dettagliate che non immaginavo nemmeno di poter affrontare. Mi mette alla prova, stavolta, l'inferno. Mi chiede la chiave d'accesso.  E quei libri imbustati come lettere d'addio senza destinatario, che aspettano da me movimento e restano – faccia a terra – sul freddo del pavimento. E' questione di giorni, anni miei, e poi di voi non sarà che retaggio: le mattine a svegliarmi era il sole, che da est proprio in questa finestra si posava; l'odore del caffè e della carta, a distrarmi, ogni volta, dall'inerzia del sonno; i rumori del traffico (ogni finestra ne ha di suoi, diversi per intensità e durata) che al sonno a fatica concedevano tempo; la felicità ha un solo (non)colore, il rumore del vento, l'odore di un fiore. Ha tempi ristretti e occhi socchiusi; non ha età e non muove che un passo.

Manoscritti della poesia delle origini e testimonianze di unica altrimenti nulli. Edizioni a confronto dello stesso testimone: specchi a succhiare luce e colore. Gli occhi miei che cercan di capire ancora, e ancora non hanno intuito. Che basterebbe ritrovar l'entusiasmo perduto, assieme ai fiori, ai libri e ai vestiti. Che basterebbe urlarla, questa rabbia che ha nomi, cognomi, colpe e che non dà respiro. Che basterebbe concepire il futuro uno spazio per vendicarmi. Del male inflitto e di quello sofferto. Cambi casa, mi dico, e cambi espressione del volto. Non aver paura anche oggi. Non se quello che vuoi è già appeso al tuo portachiavi. Tra voli da tentare e il timore che sia solo l'ennesimo salto nel vuoto. E non dirlo a nessuno – shhhh -, non confessarla a nessuno questa rabbia di sangue che a stento gestisci. Soffocala piano. Strozzala in volo. 



        

sabato 22 marzo 2014

Sentire sordo (prove a teatro)

 
Le ombre - come mostri - tornano a svegliarmi. La finestra filtra luce buona, di quelle che predicono giornate luminose e lunghe. Poi le ombre - come mostri - tornano a svegliarmi. Il viso è pulito, sebbene il sogno abbia portato schizzi di acqua misti a fanghiglia dai quali avrei dovuto proteggermi: pioggia battente sulle gote mie già umide, io che mi somiglio appena - nella notte - e fatico a mantenere asciutta ogni emozione. Assisto alla fretta del tempo come corpo inerme e devitalizzato - dente che morde, che afferra, che gusta, senza avvertire alcuna consistenza-, mentre l'odore del caffè anestetizza pure l'olfatto. Non sento. Odo - esclusiva - la musica che ho sempre ascoltato. Pure il tatto - ciò che mi permette, ora, di manifestare, attraverso la tastiera, questa asetticità completa - stenta a percepirsi. Eppure le gote - già umide di pioggia - sono spazi bianchi da riempire. Truccate/mascherate quanto basta a non lasciar passare nessuna emozione. Oggi soffro di un sentire sordo.
E' che i mostri - ombre, suoni, parole e materia - son tornati a svegliarmi, questa mattina. Il mio corpo caldo - di un calore necessario e involontario - non ha reagito. Ha ripetuto geometricamente i passi di ogni mattina. Tutto è geometria, pure queste righe. E il male che mi fa concepirle prive di emozione.
Ma la finestra filtra luce buona, di quelle che predicono giornate luminose e lunghe, alle sue condizioni. E fortunatamente della geometria non hanno che definizioni.
 

(L' incapacità davanti al foglio bianco e l'inventiva che non regge, dinanzi ad emozioni contrastanti. Mi fingo impassibile, soggetto di una finzione narrativa sopravvalutata. La penna non chiede che movimento. Scrivere è sempre Passato ed io, per la prima volta - come un trionfo ambito da troppo e del quale oggi si intravede il traguardo -, comincio a guardare al futuro).

mercoledì 12 febbraio 2014

Tlin






Un tlin. Poi l'inizio di una nuova vita.
Gocce come istanti che insieme abbiamo legato - sembrava indissolubilmente - l'uno all'altro, e lancette che nessun altro compito avevano, fuorché scandire un sentimento. Farne un ritmo costante sul quale avremmo scritto musica e parole, e danzato, mai stanchi, lungo i corridoi della paura di perdersi. Ma avremmo scritto e danzato, come danzatori esperti - che di vita e strada ne abbiamo entrambi piene le tasche - e, come danzatori esperti, non ci saremmo fermati sul primo incespicare della musica. Lo avremmo fatto - decidemmo - lasciandoci guidare dall'altro. Ma manca, in questo ballo, la libertà di lasciarsi andare totalmente all'altro. Manca, in questo brano, la sicurezza che l'altro - muovendosi, tra pirouette e salti, braccia tese e poi ancora chiuse in un abbraccio - possa riuscire a non fare nulla per deviare l'altro. Per ferire l'altro. Manca.
E tanto altro abbiamo, compresa un'idea - ancora bozza - del futuro. Il pensiero comune che la felicità sia dormire nel nostro abbraccio. L'opinione - la stessa - sui progetti andati in fumo del mondo.

Un tlin. Un altro ancora. Poi le domande che ci si fa quando il passo, nel ballo, pare essere davvero più lungo della gamba.
Gocce come istanti che insieme abbiamo cucito - la pazienza dalla nostra - l'uno all'altro, e lancette che nessun altro compito avevano, fuorché scandire il nostro sentimento. Un ritmo, musica e parole. Poi danza. L'ennesima e la meglio riuscita di tutte. Danzatori esperti ma ignari delle paure dell'altro, a muovere passi sul cornicione unico delle proprie paure. Aver paura, no, non lo si sceglie. Si sceglie soltanto con chi condividerla. Si sceglie un abbraccio fra tutti, un sorriso fra tutti, uno sguardo fra tutti. Si ipotizza che questi possa comprenderla, poi alleviarla, senza nessuna pretesa di farla scomparire del tutto.
Manca, in questo ballo, la consapevolezza che il dare, in questi casi, prescinde da ogni cosa. Manca, in questi passi, un passo incontro all'altro, nella speranza che stia meglio.

Ma il nostro, no, non fu un ballo. Perché un danzatore sia tale, non può permettersi la paura. Fu un sentimento - che comunque dalle gambe partiva, e che, con le gambe, ci fece rincorrere il tempo, e contare i secondi, e raggiungerci in ogni posto a qualunque ora. Fu un ritmo. Che talvolta pare impossibile da tenere. Manca, oggi, la certezza che la tua voce comunque ci sarà, che il tuo braccio comunque mi guiderà, che i nostri passi comunque all'unisono si muoveranno. Manca il compromesso, l'unica coreografia compiuta dell'amore. Oggi c'è silenzio. Né danza, né movimento. Oggi che tutto sembra fermo.

Oggi che quel tlin mi pare eterno.

giovedì 6 febbraio 2014

A





Nelle rubriche della vita, dentro l’abbraccio stretto delle pagine, in una successione di volti e di voci, di cifre e prefissi che la memoria non riesce a conservare intatti, i nomi non sono che indirizzi senza mura, e gli indirizzi nomi che non hanno volto. 

Il dito, appena inumidito dalla mia saliva, segue le linee della penna come fosse il filo del telefono e ripercorre, passo dopo passo, telefonate perse e ricevute, parole che bisognava tacere, frasi di circostanza non adatte a quella determinata circostanza, espressioni di rabbia dimenticate, frasi perentorie ed altre implorate, dichiarazioni d’amore e addii. Tutto ha un nome qui dentro – pensavo -, e tutto ha importanza per un tempo definito e che si fatica a definire. 

Vibrava, sulla schiena, una sensazione di perdita e nostalgia che un nome unico, no, non ce l’ha. Che dovessi classificarlo, ordinarlo, catalogarlo, non saprei trovare iniziale. Saprei trovare un indirizzo. Forse due, forse tre. Ma un nome unico, quello no, non saprei darglielo. 

Nelle rubriche ancora intatte - malgrado i display possano, senza inchiostro, riprodurne di identiche- c’è ancora spazio per altri numeri, identità da localizzare, da bloccare, da fotografare. Ci sono felicità ormai scordate, malgrado la vita possa, senza memoria, riprodurne di nuove e mai identiche. Tra quelle lettere,  anche il dolore ha un nome. E un numero di telefono, e un indirizzo. E un volto e una voce. Quelle lettere, che altrimenti altro nome avrebbero, sono grovigli di parole ammuffite, sintetizzate e poi riordinate. Di quelle che la memoria non vuole conservare intatte e che il display, all’epoca dei fatti, ancora non poteva riprodurre identiche. 

Tutto aveva un nome, qui dentro. Ma i nomi, qui dentro, non sono che indirizzi senza mura. E gli indirizzi non sono altro che nomi senza volto. Vibra, all’altezza dello sterno, un’emozione di conquista e di serenità, che una definizione sola, no, non ce l’ha. Che dovessi ordinarla, catalogarla, classificarla, non saprei trovare iniziale diversa da quella del tuo nome. Con un indirizzo da dividere, quattro mura, e il mio e il tuo volto esattamente a metà.

Alla lettera A.

domenica 5 gennaio 2014

Lontano

 
 
 
 
Viste da lontano, queste strade, sembrano rimpicciolirsi. E i margini convergere in un unico punto.
 
La prospettiva, quest'illusione vigliacca che ha più nomi, aspetta movimento. Come si potesse scampare al pericolo dello sguardo, alla sua lungimiranza, alla sua violenza. Come si potesse vedere la fine, e solo e soltanto quella: un punto di arrivo che sia saldo, un viaggio che valga la pena fare, zaino in spalla e sorriso in faccia. Alla distanza, le forme son deformi, e tutto ciò che pare di un verso è esattamente di quell'altro. Son scelte e possibilità amare, talvolta dolci e rare, son chiodi appesi alle pareti. E il quadro è lì vicino, che vuole solo farsi guardare.
 
E' che, viste da lontano, queste strade, sai, son tutte uguali. E pure questa mi par di averla già percorsa: vento forte e zaino in spalla, - allora - ancora col sorriso in faccia. Il punto di vista, quest'illusione ottica che chiamarla così è un debito alla mente, varia eppure è sempre uguale.
 
E' che, visti da lontano, anche noi sembriamo unirci in un unico punto. Lontano.
Ma c'è un'illusione vigliacca che ha tanti nomi e due gambe da guidare: ché non è vero che l'asfalto va restringendosi e i margini toccandosi.
E' la mente la sola ad immaginare. E il cuore l'unico a camminare.
Zaino in spalla e sorriso in faccia.



A quest'anno neonato che ho solo sfiorato,
alla fine della fine
e a tutto ciò che ne sarà.