giovedì 29 settembre 2011

Ma tu fingi che sia giorno












- Dimmi come sono. -
- Sei un viaggio, e poi tu sei natura. -


Fingi che sia giorno mentre spoglio il tempo, corpo senza petali né vesti. Senza trucco. Fingi un nuovo nome per il mio volto, e rughe e cicatrici che non ho. Ché la prima volta che t’ho visto inventavo espressioni col mio viso per incontrarti a metà strada tra un sorriso e una domanda, per incontrarti quando è niente a governare i gesti ed indicarti, nell’assenza di ogni suono, la nota giusta, che è nel guardarsi muti. Ché le parole sono maschera e trucco del sentire, ed io non son capace di tenere incatenati i sensi. Voglio scoprire.


Perché sei terra di confine, incontaminata e ancora sconosciuta. Sei continente, terra emersa ma ancora da vedere. E sei linguaggio a mascherarsi dietro una canzone. Sei sostantivo, mai aggettivo, e sinonimo del domani, sia pure un giorno solo. Dimmi quanti significati hai. Dimmi come si scioglie il ghiaccio del dirsi per formalità, e come ci si racconta senza accartocciare le parole nella bocca.


Ma tu fingi che sia giorno, quando la luce è spenta e la città dorme, fingi che sia giorno e insegnami la luce, inventa un nuovo mare e nuove strade da esplorare. Insegnami la luce, ché io non so guardare.


Tu sei lo stesso viaggio, sei la natura. E poi sei musica.
Muta.


 


"I saw a face / It was a face I didn't know /
Her sadness told me everything about my own."
 

lunedì 26 settembre 2011

[...]






►Stormy Weather, Little Dragon

Timidamente si affacciava l’autunno, con il sole ancora tiepido e le foglie marce a dondolare. Ne guardammo i colori, un giorno. Sapevi distinguere, in quell’arcobaleno di toni, il colore che io amo.
"Quello è un sempreverde". Io, che do un colore ad ogni cosa, stentavo a credere che qualcosa non cambiasse, non morisse mai: "dici sempre ed è come se dicessi mai, io non credo al mai e non do fiducia al sempre". 

E' per questo che non t’ho mai detto sempre, sarebbe stato come dirti mai.

[ Di grigio si colorò il giorno, o forse era già notte senza che me ne rendessi conto. Si affiancava la mia ombra ad altre immagini distese, a fare corpo dipinto con la luce e a ritagliarsi, sull’asfalto, un suo posto esclusivo. Come se uno spazio ci fosse, a delimitare quella che sono. Come si potesse chiedere di non calpestare quell’ombra, o di camminare un centimetro più su.


Alzai gli occhi e mi sembrò di vederti aprire le mani, ed unirle, come a raccoglier neve. Ma io non ho niente da darti, e non sono che un’ombra, oggi, che cerca di cucirsi un vestito addosso. Ma i fili, le righe, i termini, son troppo corti per ricamare anni, e le mie forbici troppo molli per tagliare ciò che c’è da dimenticare. Era calda la terra ed odorava di incenso e d’ambra, e si mescolava al mio profumo quello dei ricordi, troppo vicini per esser raccontati e così intimi, così preziosi da essere allora, e ora, prigionieri del silenzio.


Poi mi sembrò di veder le tue mani chiudersi, e allontanarsi l’una dall’altra, ed indicare ognuna una traiettoria differente. Non è a destra né a sinistra il percorso che arriva a me. Poi indicasti, quella sei tu. Di nero ero vestita, su sfondo grigio, e mi guardavo. Mi toccasti il viso, questa sei tu. Di nero ero vestita, sullo sfondo la città, e mi guardavi. ]


Cadevano, le stesse foglie a cui parlammo di noi, in un altro inizio d’autunno. Non c’era neve da raccogliere, né sole a scaldarci, c’erano foglie ad ammantare un’estate da far addormentare. Eravamo, noi, solo ombre sbiadite. E i nostri giorni foglie secche, ormai cadute, sgretolate. Di un sempreverde vigliacco, ora arancio, che non ha mantenuto una promessa.

Per questo non t’ho mai detto mai, sarebbe stato come dirti sempre.
E sempre, ora lo sai, non lo diremo mai.





 



martedì 20 settembre 2011

In un Dicembre qualunque



►Forget about, Sibylle Baier


Mi stringevo le mani. Si stringevano, le mie mani, come a dir una preghiera.
In mezzo alle dita, negli angoli stretti del da farsi, viveva – mai stanca – una sola frase tua.


Era muta ieri, quando guardando una foto non vedevo che nero. Si risvegliava, stamattina, nell’umidità addolcente della fine del temporale. Pioveva, stanotte. Grondava il cielo sui miei luoghi, e martellava, a ritmo deciso, sui tetti – (in)stabili – delle mie certezze. Tremava, ancor più forte e per un solo istante, la parete dove scrissi – col corpo – di non cercare calore mai più.

Ed un’altra fotografia mi ha scattato il giorno, ad occhi chiusi, mentre carezzavo col pensiero la tua mano e ti invitavo in un Dicembre qualunque, a cogliere di me quello che non sai. Ché il freddo m’ha sempre dato un altro senso, come fossi in grado di scacciarlo in pochi istanti. Ché il freddo - non lo sai - ma l’ho cercato, quando troppo era il sudore sulla fronte, e troppa la fatica del fingere il sereno.

Pioveva, stanotte. E mentre ti chiedevo di guardarmi - piegare le coperte e assecondare il freddo e poi scacciarlo ed ingoiarlo – e di venire con me/provare con me un Dicembre nuovo e senza neve, un fulmine ha tagliato il cielo ed il mio sguardo. Provavo a cercarti. Per portarti/portarmi in un Dicembre qualunque. A guardare quel sole rigenerarsi, e sgranare gli occhi e arrotolarsi piano a cercar tepore sulla propria pelle. Ché il freddo m’ha sempre accarezzato piano e le coperte son state madri, in un Natale senza doni. Ché il freddo - non lo sai - ma l’ho cercato, per regalarmi un giorno quella sensazione di tepore.


Mi stringevo le mani.
In mezzo alle dita, negli angoli stretti del da farsi, viveva – mai stanca – una sola frase tua: dammi la mano.
Pioveva, stanotte, in un Dicembre qualunque.
E tu, tu mi stringevi le mani.

domenica 18 settembre 2011

Il mio nome


Quando t’ho conosciuto suonavano note stanche nelle tue e poi nelle mie stanze.
Ci scoprivamo. Faceva freddo. Ed era stanco anche il tempo, fermo da anni a raccogliere i resti di un vetro – forse uno specchio - in frantumi.

"Ti faccio una confidenza, ti dico il mio nome."

Ma quando t’ho conosciuto l’aria era leggera, e il vento raccontava piano. Era niente più di un fruscio che coccolava le notti. Al buio, ché la luce, lo sai, non fa dormire le mie paure. Poi a scoprirsi son state le gambe, ed insieme alla pelle viveva meglio anche il sangue. Scorreva, quieto e vivo, senza aspettarsi un arrivo, senza perdersi negli anfratti delle vene, senza pausa, senza ritorno. Senza nemmeno aver freddo.

Tra tutte le parole avvinghiate all’incertezza di saperti, tra tutte le parole di circostanza, quelle nutrite dalla carne e nutrimento per la carne, quelle ferme nella gola, c’era il tuo invito al silenzio e il mio coraggio di sentire.

"Shhh"

Quando t’ho conosciuto raccontavo di essere un’altra per dirti chi ero davvero. Ma il mio nome tu l’hai sempre saputo. E le mie tracce, per nulla fredde dicevi, erano risposte d’istinto alle tue, più calde e più vere.

E quando non t’ho riconosciuto, dietro un suono greve e nessun nome, la musica è svanita in un istante.
Ed ora, ora che non sento niente, ora che la pelle è muta e la carne non trema, ora che il sangue s’è fermato e non c’è più musica a soddisfare il mio udito, ora che non sento niente, ora dimmelo tu qual è il confine tra una bugia e una verità, quando persino il mio nome, la certezza d’esser io e nessun altro, l’avevi dimenticato. Ed avevo dimenticato io d’esser chi sono.

Quando t’ho conosciuto, suonavano note bugiarde nelle mie e poi nelle tue stanze.

Ma, quel silenzio, io l'ho sempre ascoltato.
Ma, il mio nome, tu l’hai sempre saputo.





 "Ali a riposo, è stato intenso, quel volo."
 


Antonella

lunedì 12 settembre 2011

Non so darti che l'inferno






►Twice, Little dragon


Non so darti che l’inferno.

Mi abbandonavo alle parole e le parole si abbandonavano all’aria, per poi aggrapparsi alle mie gambe. Stringevano, bloccando il sangue e costringendolo alla resa. Come non ne avessi più. Era facile rassegnarsi, quando guardarmi allo specchio voleva dire vedere un’altra. Ancora una volta combattente vinta.


Cominciò a piovere. Le parole, quei macigni, resistevano alle intemperie. Erano salde, immobilizzate sulla pelle, vipere a succhiare sangue immaginario. Il contorno dello specchio era cornice e salvezza di un’immagine già storpiata nei colori e nella forma. Ero io, erano serpi, era la fatica, era l’ansia di non essere abbastanza.


Io non so darti che l’inferno.


E le ammissioni, la rassegnazione, coloravano di nero l’aria intorno. E le lacrime, mischiandosi alla pioggia, erano piccole verità a formarne una sola, e più grande. Ma la pioggia non lava le colpe, mi ripetevo, non pulisce coscienze, non è remissione, non è colpa, né peccato.
E il contorno dello specchio di ricami e vortici brillava, placcato d’oro finto. La finzione, di nuovo, mi si presentava agli occhi. Se non la conoscessi, mi dicevo pure, sarebbe uno di quegli incontri da dimenticare.



E poi i tuoi occhi smisero la pioggia.
Vai via, io non so darti che l’inferno, ti ripetevo.



E ora che sei andato via, ora che le parole son acqua scivolosa ed i ricordi pure, ora che la stanza è vuota e dentro lo specchio ci siamo io e te a guardarci da angolazioni nuove e punti di vista luminosi, ora che il buio è luce, ora che le nostre mani non si toccano più, ora torna da me,

io
non so
vivere
all’inferno.


domenica 4 settembre 2011

Il mio coraggio







►Forgett, Sibylle Baier


Il fiocco perfetto, blu elettrico, i regali da scartare e i dolci da mangiare per festeggiare i tuoi anni e poi i nostri. Migliaia di giorni da scartare prima, migliaia di giorni da scordare poi, in un secondo.

Ho moltiplicato le parole per numeri infiniti e ingoiato, col fumo sulla lingua, coniugazioni e iperboli di termini, descrizioni tormentate di un noi che svanisce oggi col fumo, tra il palato e la lingua. Senza più sapore, né odore, né consistenza. Senza cadenza. Senza cadenza e senza suono gli addii, stretti nel torace, a spingere forte sul cuore in senso contrario e ostinato. Il battito, la prova che si vive per dare - per dare forte - , ora rallenta.


Non so amare se non a velocità illimitata, io non so dare a ritmo di un battito lento.

Ho diviso le mie cose dalle tue e sommato il senso di ogni nostro acquisto e di ogni sorriso, di quando con le mani legate all’altro sceglievamo e arredavamo i giorni, e dipingevamo pareti e ore. Mi toccavi il viso e ci scrivevi sopra frasi e sguardi, disegnati forse, incisi. E scivolavi piano tra i miei dubbi e le mie necessità, levigavi e arrotondavi gli spigoli duri dei miei errori, curavi e disinfettavi le ferite in superficie, quelle nel profondo.


Non so vivere senza avere paura. Sei stato il mio coraggio.

Ho sottratto i tuoi dai miei errori e valutato lucidamente quello che non ci siamo mai detti. Ho calcolato matematicamente che ogni pensiero, ora, è figlio delle lacrime e dello sgomento, che serve a poco contare. Ho immaginato una linea lunga del tempo e sbavature d’inchiostro rosso intorno.
Eri, del mio tempo, la linea stessa e l’inchiostro.
Eri, dei miei sensi, motivo primo e passione.
Eri, dei miei giorni, prigione calda e libertà.


Sei, oggi, sulla lingua, fumo da ingoiare senza soffocare.
 Non so stare senza te.

venerdì 2 settembre 2011

Niente

Quell’attimo che aspettavo, e che lentamente evitavo, quell’attimo pensato e mai vissuto. Eri tu.


Ed erano gocce, a scivolare lungo la cornice di un ricordo. Erano lacrime, o forse solo pioggia, l’acqua che affogava il sentimento. E lo annegava con una lentezza trascinata e angosciata e disarmante.
Ma erano lacrime vere, o era solo pioggia?



Erano giorni sazi di noi stessi, ancora una volta gli stessi. Era facile, guardarsi e non sentire che il fragore di un ricordo, era semplice perdersi e non ritrovarsi più. Ma tu non sei mai stato dato di fatto, né, del mio viaggio, l’arrivo. Tu eri punto di partenza.


Erano fredde le braccia. Era caldo il tuo sguardo. E le parole si perdevano tra le mani. A che serve stare ancora a parlare, mi ripetevo, quando gli occhi non dicono altro che addio? A che serve piangersi addosso se dopo la fine c’è solo la fine e, magari, la speranza di un domani mai stanco?


Non ci sei più. Tu. Ed io. Noi. Non ci siamo più. Niente corse e abbracci, niente baci appena svegli, niente più mani grandi a tenermi, niente. Niente.
Ma tu sei sulla pelle, nella bocca, dentro gli occhi. Sei ricordo che non passa e presente che rifiuta ogni giorno l’idea di esser passato. E un futuro da inventare, e giorni in sospeso da riempire e immaginare. Ché tu sei intorno, dentro e poi più in fondo. Che sei passione incorrotta e emozione mai spenta. Di un perché che conoscevamo solo noi.


Dimmi, è pioggia, quella che bagna il viso e ne cancella i segni – del viverci nostro graffiato – o son lacrime, a cancellare, a sbiadire e a consumare, quello che è stato in inchiostro, e poi in sangue e respiri affannati?


Perché quell’attimo che aspettavo, e che lentamente evitavo, quell’attimo pensato e vissuto e gustato e poi amato,


sei tu.