venerdì 22 marzo 2013

Eclittica (traiettorie in disuso)




Prima v’era il ghiaccio, e coperte di lana a vestirci di tepore quel tanto che bastava a non dirci freddi, il gelo che senza bussare entrava dalla porta, dalle fessure, dalle serrature. Quel sentimento del pudore che non perdemmo ma acquisimmo, col tempo, guardando cornici senza foto: come se a non mostrare il volto si potesse celare quell’afflato, quel coraggio, quell’affanno. 

Prima v’era un inverno, un inverno lungo cinque interminabili stagioni, e la fretta di correre più veloce della memoria: guardarmi alle spalle e non veder neanche l’ombra tua sfocata, non saperti e non veder più di te la sagoma, trovarmi intatta nelle mie sole mani, non aver traccia di te e del calore che mi davi.

E sì, v’erano colori e schizzi di inchiostro come di vernice e un buio dei sensi che veicolava la ragione: cercai la luce con la fame di un cieco, ambii al coperto come in inverno un clochard. Faceva freddo, solo poco fa. C’era la neve, ce n’è stata per mesi. Interi giorni a cercar quel calore, la passione posseduta e perduta, pensata e riavuta. Quel chiarore rimandato e così ostinatamente cercato, smarrito. Svanito. Oscurato.

Prima v'era la paura del buio al tramonto e le mani tremanti, ché fingevano solo la presa.
Prima v’erano brividi, lungo la schiena e più in fondo, del tuo tatto e del freddo che, nonostante te e le coperte, avvertivo. 
Prima v’era un dolore, nascosto e pure composto, di abbandoni e carezze private. 
Prima v’era un silenzio a rimbombare nella stanza, acqua salata e sorgenti inesauribili di parole da vomitare.

Ora c’è il sole. E caldo, e calore. E luce. E chiarore.
E non fanno più paura, il freddo e la sera.

Ora
che è
prima-v-era.

sabato 16 marzo 2013

Il sospiro concreto (climax arbitrario)



Cosa vuoi che sia un solo foglio bianco?

Che vuoi che siano le differenze, quando a contare son le similitudini? Che vuoi che sia un'ora di ritardo, quando ciò che arriva è ciò che per anni hai cercato? E cosa vuoi che importi se il mio foglio resta bianco, appeso alle incertezze che ancora logorano, a sventolare come una bandiera di resa: depongo le armi – poggio la mia penna e il mio inchiostro – non scrivo perché sento, sento senza il bisogno di scriverne.

E poi che vuoi che sia la distanza, questo rincorrerci e fuggirci oltre ogni logica sequenza. Cosa vuoi che importi se al mattino la mia pelle è più ruvida e i miei occhi nell'indugio sono persi. Cosa vuoi che sia questo languore – figlio di un contrasto, un insieme incoerente di pensieri – e questa sete di sorrisi che ogni dì io avverto. E che vuoi che sia il tempo – questo spazio temporale che è carnale, e vorace, e carnivoro. Cosa vuoi che possano le voci e i rumori acerbi della città – povera illusa, che crede di conoscere tutto lei, e invece di noi non seppe che un accenno. E invece di noi non udì che l'ouverture -

(Respiro. Accenno una canzone: lento incedere degli anni come diapositive, sapere di esserci e non riuscire a specchiarsi.) 

Cosa vuoi che sia questo cielo, questo amalgama di fumi e di pressioni, i miei occhi assorbiti in una nube malevola, il sole, lì nascosto, ad illuminare in sordina. Cosa vuoi che conti un re-spiro più lieve, uno di quelli che a determinarli è una sillaba sola, particella so-stitutiva e verbale che muta una nota in un soffio e un desiderio in realtà: che fa di un RE-spiro un so-spiro. Ancora a metà.

E allora, davvero, cosa vuoi che importi se il mio foglio resta bianco, quando al mio respiro si è sostituito nuovo fiato? Della passione ascritta dentro un solo verso: concepirti e concepirmi in un sospiro lieve, celato dietro coltri di parole. Descriverti un momento, definire ciò che vedo, determinare un'emozione. Come a volerla rendere più vera, fruibile e concreta. Di concreto, tra i miei occhi e i tuoi, proprio non v'è nulla. Solo il mio foglio. Che, sì, resta ancora bianco. (Ciò che v'è scritto non è che un sospiro)

(Sospiro. Ascolto una canzone: il veloce scorrere di un'emozione che non ha parole, che vive di sospiri, che sa di esserci e non pretende di specchiarsi.)

mercoledì 6 marzo 2013

Vedemmo Amore scritto su di un foglio


(Non saperlo scrivere. Perdere il filo e non ritrovarlo. Tutto è scritto. Non nel destino, ma sui miei fogli.)



La linea della mano da intuire – quale sia la traccia che lascia, da dove nasca, dove poi giunga. I destini come corde ad intrecciarsi -  sguardi che prendono la forma delle mani, si legano, sovente, alle intenzioni dell’altro. Era Maggio: germogliavano i ricordi di un futuro anni prima ipotizzato. La nascita di un futuro nel passato, l’ossimoro che è antitesi sincronica, logica, coerente. Nuova treccia di iridi, colori complementari a fondersi in miraggio: vedemmo Amore scritto su di un foglio, scoprimmo di saper leggere insieme – nello stesso istante – un termine universale e polisemico, del quale mai conoscemmo un solo senso. Era Marzo: incastri oltre la pelle di carne e indugi vari, la scoperta che è l’illusione a fare da croupier, la certezza che se la fortuna non ti guarda è perché non l’hai guardata tu. 

- Sei stanca? Sei più bella quando ridi. -
- E’ stata una giornata dura. -
- Ti faccio un caffè. -
- Meglio del tè, hai del tè? -

E allora tra i vapori, in quello stesso istante, la vista era annebbiata e la razionalità pure. Disegnavo su di un foglio volti buffi, api e fiori, cani e gatti, e ogni tratto di matita pareva una nuova linea della vita. Il sudore della notte sfidava i sensi, non sentivo altro che caldo. Alla luce fioca dell’abat-jour guardavo la mia mano come fosse una cartina: quale strada prendere era solo una scommessa, vi sarà comunque quella deviazione, pensavo, quello scombussolamento inevitabile, quel dover decidere se andare o rimanere. E ricordavo ancora una notte di Novembre, quando altri occhi promettevano così come Giuda baciava. Perché guardarsi le mani è volgere lo sguardo a tutto ciò che è stato fatto e detto, il dimenticatoio che dimenticatoio non è mai, il cassetto dei segreti che da piccola serravi con la chiave e da grande vorresti non aver aperto mai.

- Perché ti guardi le mani? -
- Qui c'è scritto ciò che sono, ciò che ho avuto, ciò che per sempre è perduto. -
- ...e ciò che ancora non hai avuto. -

La linea della mano da intuire. La guardai, ancora confusa a ritrovar la strada persa, voltare a destra e incrociarne - proprio come fa il destino - un’altra, incisa sullo stesso palmo – che corre sulla stessa linea del (mio) tempo -. Un nuovo sguardo da fondere col mio, una nuova illusione, una nuova mappa e una nuova passione. Nuovi incastri di iridi.

E allora risi. E risi forte. E risi tanto.

- Sì, sei bellissima quando ridi -

E vedemmo Amore, come un miraggio, comparire proprio lì sul mio palmo.