Prima v’era il ghiaccio, e coperte di lana a vestirci di tepore quel tanto che bastava a non dirci freddi, il gelo che senza bussare entrava dalla porta, dalle fessure, dalle serrature. Quel sentimento del pudore che non perdemmo ma acquisimmo, col tempo, guardando cornici senza foto: come se a non mostrare il volto si potesse celare quell’afflato, quel coraggio, quell’affanno.
Prima v’era un inverno, un inverno lungo cinque interminabili stagioni, e la fretta di correre più veloce della memoria: guardarmi alle spalle e non veder neanche l’ombra tua sfocata, non saperti e non veder più di te la sagoma, trovarmi intatta nelle mie sole mani, non aver traccia di te e del calore che mi davi.
E sì, v’erano colori e schizzi di inchiostro come di vernice e un buio dei sensi che veicolava la ragione: cercai la luce con la fame di un cieco, ambii al coperto come in inverno un clochard. Faceva freddo, solo poco fa. C’era la neve, ce n’è stata per mesi. Interi giorni a cercar quel calore, la passione posseduta e perduta, pensata e riavuta. Quel chiarore rimandato e così ostinatamente cercato, smarrito. Svanito. Oscurato.
Prima v'era la paura del buio al tramonto e le mani tremanti, ché fingevano solo la presa.
Prima v’erano brividi, lungo la schiena e più in fondo, del tuo tatto e del freddo che, nonostante te e le coperte, avvertivo.
Prima v’era un dolore, nascosto e pure composto, di abbandoni e carezze private.
Prima v’era un silenzio a rimbombare nella stanza, acqua salata e sorgenti inesauribili di parole da vomitare.
Ora c’è il sole. E caldo, e calore. E luce. E chiarore.
E non fanno più paura, il freddo e la sera.
Ora
che è
prima-v-era.