martedì 29 maggio 2012

Rewind




Tornassi indietro ci sarebbero dei fiori sul tavolo, a render colorato il bianco e nero di quel giorno. Tornassi indietro metterei del rossetto, perché il mio ultimo bacio sulle labbra tue restasse impresso. Tornassi indietro non ci sarebbero lacrime, né fumo, ché “se non fumi sei più bella”. Tornassi indietro ti racconterei di quanto dura è stata la mancanza, in quelle notti che cercavano l’equilibrio sul solo filo del telefono. E quanta la voglia di spezzarlo e di far cadere quelle notti sulle nostre notti. Farle coincidere perfettamente. La simmetria. Le giuste distanze. La vicinanza ed il contatto di cui necessita ogni amore. Tornassi indietro ti direi che c’è sempre spazio per amare, e che ogni giorno è un po’ come cadere. E non sul suolo morbido di un’altra delle nostre notti, ché di noi un giorno non resterà che l’atterraggio. 

[p o i  u n  r e t a g g i o] C’era il sole. Il treno sarebbe partito alle diciotto. Giusto il tempo per dirsi, con le luci dell’alba e con quelle tiepide della sera ancora in forse, che di amarci non ne avevamo mai abbastanza. Alla stazione –palcoscenico indegno di ogni nostro arrivederci- avrei sorriso, fingendo una serenità che mente. Ma un dispetto a te sarebbe stata la tristezza. Un dispetto al mondo non sorridersi di nuovo. Il tuo vagone, immerso in quella sua aria viziata che sa di lontananza, mi sarebbe parso un continente. Dall’altra parte dell’universo. Non partisti. Non partisti e fu come collezionare in un momento tutte le mie risa, impacchettarle, tenerle al sicuro come regalo da farti scartare. Non partisti e poi partimmo insieme, destinazione un mare vicino alla città. Erano giorni luminosi, che se non ci fosse stata alba avrebbero brillato di per sé. 

Oppure erano giorni a luce artificiale? Di quelli che ci si sta comodi, ora che di cadere non ce n’era bisogno. Ora che i chilometri eran diventati pochi passi e la necessità di noi annegava. C’era il sole. O forse ero accecata da qualcosa di più grande – come un sentimento, di inganno o di rabbia, di amore o di ripicca – che rendeva luce anche il buio pesto? Tornassi indietro non ci sarebbero dei fiori, ché dipingere un momento che senso avrebbe avuto. Tornassi indietro non metterei rossetto, ché finger la bellezza m’è sempre parso un controsenso. Tornassi indietro ti direi di piangere ancora e di sbarazzarti dei grovigli nello stomaco. Fumerei un’altra sigaretta, ché finger la bellezza m’è sempre parso un espediente. Potessi tornare indietro ti racconterei di quante volte t’ho ferito, senza confessarlo mai. E quante notti asimmetriche sognai, quanti decolli immaginai.

Se davvero ci fosse la possibilità di tornare indietro, non mi muoverei. Ché in quest’oggi c’è una notte da spogliare. Nuda. Da godersela intatta, come viene. Nuda, a raccontarmi i giorni, ancora in forse, dell’avvenire. Se ci fosse la possibilità di premere REWIND, forse riascolterei il nastro per intero, senza modifica alcuna. Se potessi tornare indietro –se solo nella sconfinata sequenza di questi istanti ce ne fosse la possibilità – sai, me ne starei qua. 



[X] - [FAST FORWARD] - [STOP] - [PLAY]

sabato 26 maggio 2012

In scala di Do




"Conta fino a dieci"
Contai, esasperata dall’attesa, fino a dieci. Fui forse sorpresa, ad occhi ormai aperti, di ritrovarti lì. Un fiore ad abbracciarmi, tra le tue mani. L’ingenuità di quegli anni che son solo pochi istanti. La carezza lieve dei verbi che ancora non avevano passato. Poi la tue mani ad impugnare la chitarra, gli occhi miei a perdersi nelle movenze caute delle tue braccia. Abbracciai la tua musica per prima, ancor prima di conoscere te. Sentivo, nel vibrare delle corde, un muoversi fitto –pari ad un tuono, quasi un terremoto- dentro me. Sul pentagramma scrissi “me”, tanta era la somiglianza mia con quella melodia: l’incoerenza del ritmo frastagliato dalle pause, il sentire al massimo del volume qualunque cosa accada. Ero io. Nelle tue note, c’ero io.

Non ti chiesi un fiore, quel giorno di Settembre. Eppure me lo regalasti col sorriso di chi sa che non se ne andrà. Acquistammo una macchina fotografica usa e getta, di quelle che a che serve stampare i ricordi, tanto chi se li scorda più. -Carta straccia lo saranno poi, più in là-.

"Conta fino a dieci", ti dissi.
Fosti forse sorpreso, ad occhi sbarrati, di ritrovarmi lì. Un plettro nuovo per suonare e ricordi in scala di Do da immortalare. Ma non ti chiesi mai –ehi, io non ti chiesi mai – di comporre per me. Ti chiesi un giorno un solo rigo, qualcosa che ti somigliasse e che potessi fondere con ciò che scrivo. Ti chiesi due battute sulla luna, su come il tempo gira, su quale viaggio tu vorresti fare, quale il concerto dove poi vorresti andare. Ma non chiesi mai – mai – di comporre di me.

Ché la tua musica mi racconta senza che tu mi voglia raccontare. Anche oggi. Oggi che è bastato ricontare fino a dieci per vederti allontanare.


(L'ennesima, inevitabile banalità)

martedì 22 maggio 2012

Pioggia e clorofilla (e poi solo un'ombra)




Ti prego, non fermare la pioggia. Ché tutto quel che sento, oggi, è pioggia. Lavasse pure ogni cosa, scrostasse le persone dai residui dei loro errori –ancora attaccati alla pelle, ancora sensi di colpa penetranti-. Sciogliesse pure il ghiaccio che congela questo tempo, da mesi immobilizzato. "Si manterrà sempre giovane e intatta la voglia di amare", mi dicevano. Ma appassirà in un istante, mi dicevo io, se improvvisamente un giorno tornasse il sole. Ci vuol costanza – come a dire ci vuole allenamento- pure nei sentimenti. Ci vuol resistenza e luce –chiarezza- quanto basta. Una vera e propria fotosintesi clorofilliana. Del tempo. Del cuore.

E in questo tempo il fumo mi ingoia ancora. Nella sua danza tribale –così disordinata, ma sinuosa-, nel suo cercare senza sosta un punto d’approdo. Come si affanna, questa nuvola tossica, voltandosi in ogni dove, roteando su sé stessa, fluttuando -come non riuscisse a respirare che sé stessa- alla ricerca di aria buona. Sembra di riconoscermi. Nella penombra –ancora troppo buia- del suo profilo, rintraccio il momento esatto in cui mi accorsi che i suoi tratti erano delineati esattamente come la luce li dipingeva. Ingoio ancora del fumo. La sua ombra –nella penombra- ancora oggi, senza riflessi a stagliarla, è ritratto appeso in questa stanza. L’odore del fumo, misto a quell’umidità che indolenzisce le ossa, fa dei ricordi chiusi qui dentro corpo putrido e stagnante. Li ho seppeliti, li ha seppelliti un profilo nuovo.

Ti prego, ti prego, non fermare la pioggia, non coprirne il rumore, non abbassare le serrande, non chiudere i vetri. Che tutto quel che può lavare, lavi. Che tutto quel che può spogliare –gli alberi di foglie secche o di frutti maturi, i muri di manifesti o di scempi o vere opere d’arte-, spogli. Che la terra ne ricavi nutrimento a sufficienza per far germogliare nuovi fiori, e che il sole di domani possa non farli appassire.
In questo tempo, inalo ancora del fumo. Pongo gli accènti giùsti sulle parole per far comprendere la cadenza del mio cuore – del mio tempo – ad orecchie nuove, che mai mi avevano udita. Soffoco gli istanti, cerco –cogli occhi- di aprire le fessure ancora socchiuse del mio lasciarmi andare. Tra le ciglia, il riflesso del sole, domani, aprirà nuovi varchi.

E tu, tu che sèi clorofìlla – che assòrbi per me lùce e chiarézza-, tu che sèi pér me la piòggia -che scìvoli vìa gli errori mièi, che làvi le paréti del mìo déntro- ti prègo, nòn fermàrla, ti prègo, 


nòn andàre vìa.

domenica 20 maggio 2012

Dalle mani (ad altre mani)



[...]
Nel polso, frastuono. 
Un palpitare così forte, l’ansimare della vita. Pensai che è tutto lì, tra il tatto e il cuore. Pensai che un motivo doveva pure esserci se al tuo silenzio morivo di silenzio, se alle tue corse il cuore mio arrancava, se alle tue urla la mia voce si perdeva. Dov’è che ci si divide un istante, dove va a finire tutto quello che io –di noi- non ricordo? Dev’esserci un modo – pensai – per spartirsi un’emozione così forte. Dev’esserci un modo attraverso cui io sento ciò che tu senti.
Strinsi forte i tuoi polsi per vedere fino a dove il sangue arriva. Se dalle mani passa ad altre mani, se dalla pelle si dona ad altra pelle. Strinsi poi le tue mani, sentendo il battito tuo accelerare col mio. Lasciai andare le mani, che si lasciarono andare. Scrissi ancora di occhi, guardasti ogni rigo, leggesti il mio viso. Provai con le risa, sorridesti splendente. Scegliesti la musica che io stavo già ballando. Capisti i pensieri ancor prima che io li lasciassi parlare. 
Nel polso, a velocità costante, ancora un frastuono. Di migliaia di frasi che ho serrate tra le labbra, di un tremore costante, dentro. Di una lacrima che asciugasti senza saperlo. Della voglia di te che logora i giorni. Mai stanca. 
[...]

A (te, a) questo presente vigliacco 
che chiede il mio coraggio.
Ancora.

mercoledì 16 maggio 2012

Grovigli




Sale dal costato agli occhi, senza lasciarmi respirare. Si inanellano i sospiri, si inanellano alle parole. Danno forma ai pensieri, strozzati nella gola. E’ che ho folate di intenzioni, aggrovigliate lungo i contorni della forma. Corpo fisico e concreto, disegno ed invenzione. Ho grovigli ancora intatti di speranze ed ambizioni vane, a soffiare lungo il perimetro dei giorni miei. Come a volerne spostare i confini. Come a sperare che qualcosa, prima o poi, cambi. In un’apatia che sembra ricorrente, da un po’ di tempo a questa parte, una dipendenza, una patologia, qualcosa che c’è e che mi ostino a non spiegare. A capire di quale malattia si soffra, poi. E’ solo un modo di sentire: un aggrovigliarsi degli organi, oltre la pelle. Un sospiro che diventa respiro. Un respiro che prende il ritmo dell’affanno. Tante volte provasti, con la pazienza di chi non riuscirà, a scovarmi dentro la mia grafia. Tante volte tentasti, avvicinando le dita all’ultimo rigo: come se il succo di ogni cosa fosse sempre lì, alla fine. Ma così –ti dissi un giorno- si rinnega la bellezza del passato: ricordandone, in ogni nuovo giorno, nient’altro che la fine. 

I pensieri, giorni fa, erano fili a guidare i miei gesti. Che nome avevano quelle sensazioni, che nome aveva quella dannata impressione – come un sentore, più in fondo - di aver disegnato i giorni esattamente come li desideravo? Quale maledetto nome hanno le parole dette e poi sfumate, di centinaia di baci ancora nell’aria? Abbracciata a quei fili instabili, come una marionetta in mano alle intenzioni di un altro – che pure erano mie-, mi districai, e ballai, e poi raccontai. Come se raccontarsi volesse dire parlare di cosa s’è fatto oggi, quale faccia s’è vista, quale frutto poi hai deciso di mangiare. Come fosse facile sapersi e raccontarsi, farsi etimologia e significato insieme.

Non ho mai capito come facciano, le parole, ad aver così tante cose da dire. E come, nella distanza effimera che divide la bocca dal timpano, possano assumere toni diversi e significati infiniti. Come si perdano, in quel tragitto che è la loro unica strada, e diventino equivoci. Miserabili, sciocchi, bastardi, gli equivoci. Ti dissi andiamo –ognuno per la sua strada-, capisti di andare, insieme, lungo la nostra strada. Mi dicesti restiamo, pensai che davvero saremmo restati. Restati insieme. Nessuna sequenza logica, a farsi raccontare. Invece il silenzio, così logico, disse proprio la verità: che il mio dito era ormai puntato sull’ultimo rigo, col tuo. Che non avrei ricordato più nulla di noi, se non la fine. Che non può esser mai equivoca. Che non ha altro nome, sai, fuorché fine.


Image by www.etimo.it
Da Bonomi, Vocabolario Etimologico Della Lingua Italiana


lunedì 14 maggio 2012

Un panno sul cuore






E allora stai zitto. Ché non è dolore quello che senti. Non è che assenza quella che chiami dolore. Non è apatia, quella che senti è paura.  

Un pianto strozzato dietro una carezza. Un pianto affogato nelle sue lacrime, figlie di nessuno alla ricerca affannata di un punto di raccolta. Le tue mani –sporche di fango, incollate tra le dita, ancora ferme – sono per le mie veleno. Stai zitto. Tieni le braccia conserte, non avvicinarle alle mie. Ché tutto quello di cui avevo bisogno era solo un respiro, sentirlo col mio. Ché tutto quello di cui ho bisogno è un’illusione pronta per l’uso, un panno stretto proprio sul cuore, che ancora sanguina. Ancora. Chiedevi attenzione, un piacere, un momento. Ti arrampicavi, mai esausto, sulle rocce ormai erose della mia passione per te. Sfibrata. Ora stanca, stremata, esaurita. Una mano a toccarti, questo chiedevi.

Silenzio, stai zitto. Ché tutto quello di cui ho bisogno è un’illusione consapevole e pronta per l’uso, due passi e poi l’ennesima fine.

Una carezza strozzata dentro un respiro. Un pianto interrotto che freme sul volto. Ancora – cascata o torrente – le parole tue - inopportune - a veicolare i giorni. Non ho più tempo da investire, né amore da dare. Tutto quello che avevo da dare è andato a farsi fottere forte, tutto quello che volevo è andato a sbattere in pieno sulla parete più salda di un’altra stanza. Ora stai zitto. Lascia ai miei giorni la libertà di sciogliersi dalle catene dell’impotenza. Lascia le mie mani toccare altre rive e lavarsi –asciugarsi- nell’acqua. Chiedevi passione, risate, un momento. Chiedevo una penna, due righe, nello stesso momento. 

I giorni che passano. Un pianto strozzato. 
Dicevo –nel sonno- stai zitto
Sporche di fango. Il fango. 
Stai zitto. 
Ancora, ti prego, ancora. 
Passione sfibrata. 
Veleno, le mani. Un momento. Ancora respiro. Poi neve che appare, come un miraggio. La saliva tua sulle gote, il tempo di un bacio. Giuda, imprecavo, Giuda. 
Maledetto quel giorno. 
Il sangue riaffiora. 


Un panno sul cuore, chiedevo.

(In ipnosi. 
In attesa che la mia penna torni 
a rispondere alle mie emozioni)

sabato 12 maggio 2012

Ritagli




A me piacevano i suoi occhi. Innocenti quanto basta ad accarezzarmi i sogni, intensi quanto basta a svegliarmi il mattino dopo con l’immagine sua e nuove primavere. Sì, a me piacevano i suoi occhi.  E le sue mani, quando, nell’esitazione del primo contatto, pareva mi chiedessero il permesso: posso prenderti la mano? domandavano timide. E quando la sua bocca si avvicinava – come volesse urlare qualcosa – alla mia, sentivo il suo corpo esistere come il mio, nel mio, col mio. Solo un’ora. Un’ora soltanto. Poi tutto avrebbe preso il solito corso. Come si potesse fingere, come si potesse tenere sempre tra le labbra le parole non dette e che fremono, come si potesse sempre mentire agli occhi – che è vero, dicono sempre la verità -. Io i suoi li guardai, in quella notte che somigliava a lui. Io toccai le sue mani come fossero pelle mia. Riscoprii, nella leggerezza dei suoi “se”, la mia paura antica di mostrarmi. Era ieri.

Non c’è giustizia, né chiarezza, tra le sensazioni: rubano quel che possono l’una all’altra, fino ad azzerarsi. La notte – quella notte –, sullo stesso filo lungo il quale i miei piedi si allineano senza stabilizzarsi mai, illudeva il corpo di aver trovato ancora un equilibrio. Ma troppo sottile fu la fune e troppo il peso dell’amarsi senza dirsi. 

Mi portò dove la terra stende il suo tappeto e le luci sembrano inventare immagini sul prato. Ma nessuno inventò noi, nessuno. Mi portò dove nulla c’era da guardare. Posso guardarci da vicino, pensavo, scrutare i dettagli, segni particolari come la sua voce. Quella voce che somiglia così tanto a ciò che dice. Di un tepore che sorprende, una carezza che non tocca. Che parla, che suona. Che preme forte sul ventre. Era ieri: nel finestrino, solo un prossimo mattino. Fra le sue mani, l’impazienza di viverlo. I miei sorrisi, riposti in un cassetto qualche mese fa, si poggiavano ora sul costato, a divenire goffe risate, alla faccia del tempo che è stato. Ora, ora che è domani e ieri è già passato, nei ritagli di un tempo già perduto, spalle contro spalle, in direzioni opposte camminiamo.

Ma nei ritagli di questo tempo, nei ritagli asimmetrici dei nostri passi, troverò il modo giusto per raggiungerti. E poi, spalle contro spalle, a dirci l’un l’altro cosa vediamo. Cosa siamo. Poi occhi negli occhi, a raccontarci la strada che fin lì c’ha portato. Ma nei ritagli di questo tempo che di nuovo mi separa da te, nei ritagli di questo foglio rotto dal tempo, avrò tenacia a sufficienza per ricucire ogni strappo(?), e sangue, sangue nuovo a disegnare sulla carta il nostro ritratto.

Era ieri. E, ieri, era solo un attimo fa. 


A S., ritagli di post scritti per lui e mai pubblicati a formare, 
oggi che tutto ha preso la forma giusta, un collage.

Perché, nonostante tutto, glielo devo.
E perché a me, a me piacevano i suoi occhi.

lunedì 7 maggio 2012

Che stupida, la luna





Io non l’ho vista: questa luna che ha deciso per una notte soltanto di staccarsi dal suo cielo. Eppure dietro la sua luce - m’è parso di capire - si intuiva ancora la sua casa. No, non l’ho guardata: eppure varie volte ho fissato il cielo, nascosto dietro i palazzi di questa città dove tutto è offuscato dalle luci artificiali e dai rumori meccanici delle auto in movimento. A cosa serve andarsene, pensavo, a cosa serve allontanarsi se ogni passo riconduce sempre a casa. Pensavo che c’è un cielo per tutti, ovunque siamo. La luna no, la luna pensa ai fatti suoi. Se è qui non è altrove, se dal suo cielo si staccherà avrà una casa a mezz’aria, sospesa, senza fondamenta alcune, sorretta da un soffio. O dalle braccia timide – e che non si faranno scorgere - del suo cielo. Pensavo che stupida, stasera, la luna. Si allontana ma già sa che tornerà. Lei che ha mille sguardi e mille spalle e non riesce a voltarle mai. 

E allora immaginai di cadere, l’altra notte. Dal cielo. Di staccarmi dal mio cielo e farmi creatura sola. Immaginai sogni grandi farsi puntini minuscoli e mai pensati, lucciole a luce continua ma sempre più tenue. Immaginai di scrivere per la prima volta frasi crudeli, indirizzate a te: sognai l’anima liberarsi dei suoi tarli che, nel tempo, son diventati macigni. E di dirti tutte le cose che un cuore ferito ti direbbe: codardo, vigliacco, vergogna, bugia, rispetto, amore mio. Pensai che, come la luna, un giorno, andai via dal mio cielo. Andai via e il cielo iniziò a piangere. Una pioggia così forte, il temporale dei suoi occhi. Stava solo annegando la vergogna. Annegava - cercava di sopprimere - il senso di colpa, che mai avrebbe svelato.

Ora un’altra sigaretta. Nebbia nella stanza quanto basta per ricoprire tutti i ricordi appesi alle pareti, che se quel giorno fossero crollate che danno avrebbero fatto in più. Altre macerie a graffiare la pelle, ferite profonde quanto basta a sanguinare, e poi saliva a disinfettare pure l’anima.

E allora immaginai di cadere, io, improvvisamente, dalla parete più curva della sua pelle. Cadere. Come cade una foglia in pieno autunno, stremata dalla resistenza sotto il sole, distrutta dalle intemperie che ogni giorno le succhiano vita, esanime, rassegnata. Pensai che di quella pioggia avrei riempito un catino fino all’orlo, per poi rovesciarlo forte sul tuo volto. Come a toglierti di dosso le impurità che il rancore che ti porto ha generato. Come a dirti ehi, tu che non avevi sbagliato mai, tu che avevi sogni grandi nella tasca della mia giacca, tu che sorridevi forte ad ogni mio sorriso, lavati la faccia. Risveglia la coscienza ora dormiente, solleva questo strato di polvere che hai sugli occhi, di’ per una volta almeno la verità: che si sbaglia – io sbagliai, sbagliasti tu – e che non si pecca mai ad ammetterlo. Toccami le mani – col pensiero, che sia forte – e dimmi che di tutto il tempo – ad arrotolare il filo di un discorso che sembrava avere una lieta conclusione – è rimasto un attimo in cui mentire no, non serve. Dimmi che sotto lo stesso cielo di stanotte abbiamo costruito fondamenta buone per dirci che ciò che siamo – indipendentemente l’un dall’altra – non crollerà. 

Pensavo che stupida, stasera, si allontana ma sa già che tornerà. 
Pensavo che stupida, mi allontano e so già che mai più ritornerò



(A __, per le bugie che so e che non gli rinfaccerò. Farò solo finta non sia esistito mai.
Anche la delusione ha la sua dignità. 
Per A., che spero riesca a farsi amare davvero. L'amore non è mai una colpa.

Per te, presente e futuro da raccontare.)

mercoledì 2 maggio 2012

Io(,) volto -il giorno verticale-





Girai la chiave nella serratura più volte. Ad ogni mandata, un brivido attraversava il mio stomaco vuoto. Ritornerò, pensavo in fretta, avrò tempo per ripercorrere ogni cosa e ritrovare le mie tracce. La chiave – smaltata di vernice color oro – sembrava chiudere per sempre una di quelle porte oltre le quali si apre una strada, una già percorsa, che custodisce un tesoro. O che nasconde, allontana, seppellisce un dolore appena messo a tacere. Decisi di partire. Partii.
La ricchezza si esibiva in ogni movimento. La chiave – d’oro -, sembrava incastonata – come diamante – nella serratura di una porta dalle decorazioni barocche, imponente, scura e pesante. Dietro, il passato era una nube che lentamente svaniva. Oltre, i miei passi si alternavano lungo una strada, una nuova, che non sapevo dove mi avrebbe portato. Con una matita disegnai mappe sulla mia moleskine, che ancora oggi conservo intatta. Così come intatto è il ricordo del mio viaggio, che finì con uno zaino in spalla e una canzone in tasca. Che finì per gestire la mia vita ad un passo dai vent’anni.

Poi le mani dei passanti – incontri e scontri per le vie del mondo – sembravano indicare sempre -a terra- un punto definito. Come a dire questo è il tuo luogo, come a dire ora fermati qui. Gli occhi dei passanti si alternavano lungo i vialoni, tra boutique e coiffeur,  folate di vento e meraviglie di sole. Pure nel buio pesto, sentii in ogni via odore di vita. Parigi non ha mai sonno, d’estate: il giorno si allunga sulla linea dell’orizzonte, si stende per ritornare solo più tardi verticale, a coprire con un estremo la luce del sole. E invece la notte sembra un soffio, per le vie di Parigi. Una carezza le sue luci all’alba, il frusciare della Senna, i lampioni arancio davanti all’Opera, i cappellini naif delle signore di una certa età, i bateaux che ogni dì sembrava mi aspettassero. Il tuo sorriso appeso all’Arco di Trionfo, le braccia tue ancora custodi di un addio. Il mio. [...]

Tornare non è mai facile. Sbattersi in faccia di nuovo la realtà, ritornare al buio pesto di un giorno che vive e muore verticale. Al ritorno, girai la chiave nella serratura più volte. Ad ogni mandata, un brivido attraversava la schiena gelida. Ritornerò, pensavo, avrò tempo per tornare a Parigi e ritrovare le mie tracce. La chiave, ancora placcata d’oro finto, sembrava aprire e chiudere per sempre una di quelle porte oltre le quali sai che un giorno tornerai. Lo sai.
Come con una matita – su di una moleskine - svelai ai miei occhi il volto vero dei passanti. Scrissi pagine intere, che presero la forma -esatta- di ciò che vedevo. Le parole, dietro le parole c'è un mondo fatto di immagini e suoni, e profumi e freddo e poi il sole, il gelo, il mare, l'acqua, ogni suo sguardo, la luce tiepida del mattino, il sorriso di un bambino. Dietro le parole c'è la Vita. Come avessero un corpo. E, come con una matita, scoprii il profilo del tuo e di altri mille sguardi. Riassunto striminzito di una vita – di un diario, un blocco note – che è volto – e volto – all’ultima pagina.
Nuova moleskine, rosso vermiglio. Nuove labbra, rosso porpora. Una nuova porta da aprire, stavolta senza chiavi. [...] E tu -tu- tornerai a bussare?