lunedì 30 gennaio 2012

All'angolo dei giorni





All’angolo dei giorni, con la schiena ad aderire perfettamente alle pareti.
Nell’incavo astratto dei miei bisogni – che pure è protuberanza, quando son soddisfatti -, vivo le ore come fossero nutrimento. Per il mio palato mai sazio. Per i miei occhi mai pieni abbastanza. 
All’angolo della mia stanza, accanto ad una finestra che ancora non fa giorno, guardo le pareti dondolare, stringersi, poi ritrarsi. E’ lontano, forse troppo, il tempo in cui una camera sembrava il mondo intero e le pareti spazi bianchi da riempire. 

Accovacciata accanto all’ennesima illusione. Di un sorriso di cui ho paura. Del suo coraggio d’amarmi, io ho paura. All’angolo del pavimento, che è spigolo, a guardarlo dal di fuori. Lama a doppio taglio pure questi giorni, a incidere nella carne un nuovo disegno di sangue, a minacciare il cuore, a regalarmi emozioni – vere - a cui non credo più.

Accovacciata a guardare ancora una volta il soffitto, ennesimo foglio bianco di un libro che, finalmente, mi sembra di non aver letto mai. E l’odore, l’odore che ha un libro ancora da aprire, universo nuovo e traboccante, corpo, materia, parte che diventa poi parte di te, lo sento.
All’angolo di questo foglio, che non è soffitto eppure mi protegge, una piega. Ad evitare spigoli. A smussare le mie paure.

Accovacciata accanto all’ennesima illusione, all’angolo dei giorni, nell’incavo astratto dei miei e dei tuoi bisogni, 


io ti aspetto.
Ti aspetto.

martedì 24 gennaio 2012

Ghiaccio





7 Luglio 2011


Dammi la mano. Lascia andare il silenzio. 
E guarda come viene giù, questa neve di luglio che resta impregnata sul pavimento. 

Avevo quindici anni, quando ho visto scendere per la prima volta la neve d’estate. Faceva caldo. Le sensazioni non combaciano mai, quando il dolore sostituisce la vita. E, quando lo fa lentamente, le sensazioni spariscono. Solo veleno nel sangue. Sangue buono. Ma gradualmente contaminato, avvelenato.

Quel giorno ho sentito l’istinto di salire sul tetto, per avvicinarmi a te e dirti vedi? Possiamo ancora dirci, possiamo ancora toccarci. Ma il tetto era ghiaccio, e la luce pian piano andava a dormire. La luce, non io. Io non ho dormito per notti, non ho riconosciuto l’alba e il tramonto per mesi. Nelle stanze, sul soffitto, tra gli spazi lasciati vuoti dai mobili, ti rivedo. Eppure il gelo è anche sulle ciglia, eppure il gelo mi fa chiudere gli occhi. L’avevi scelto tu, pavimento bianco per dar  luce alle stanze, anche quando fuori sarebbe stato buio. Avevi scelto per me la luce, per ordinare i pensieri, per avere un futuro che fosse chiaro e concreto. Ma il marmo s’è trasformato in ghiaccio, nell’esatto momento in cui sei andato via. E l’equilibrio cos’è, quando non c’è un filo su cui poggiare i piedi, quando a dividerti dal burrone c’è solo il burrone. E sopra la testa solo pressione.

Sai, è difficile camminare senza cadere, è difficile farlo insieme agli altri senza rischiare di coinvolgere loro nella tua caduta. Il mio ginocchio sbucciato non mi ha mai fatto paura. 
Prendila tu, oggi, la mia mano. Perché scivolo, continuo a scivolare. Il pavimento è ghiaccio, le mie gambe sfinite. 
Dammi la mano. 
Cado. 
Dammi la mano. 
Sto scivolando.


Ed ho tanto freddo, papà.



Con il coraggio di chi non ne parlerebbe mai.
Perché glielo devo. 
E perché lo devo a me stessa.

domenica 22 gennaio 2012

L'assenza di me (delle banalità)






La penna non riesce a farmi spiegare, e nemmeno la voce. Ma l’urgenza di dire, quella non si può fermare:

Il ticchettare dell’orologio mi sveglia.
Apro gli occhi in una giornata piovosa che niente di nuovo ha da dirmi. Il ticchettare dell’orologio ha scandito i secondi, e nell’aprire gli occhi mi son domandata per quanto tempo li avessi tenuti chiusi. Immobile. In un letto disfatto la sera prima. Che ha sfatto l’ultimo brandello di dignità. La chiamo così, da qualche tempo a questa parte. Chiamo così il senso di me, che è andato perdendosi da quando negli occhi degli altri non trovo più il riflesso mio. Come non vedessero realmente chi sono, e si ostinassero, ogni volta, a guardare in superficie. In fondo, all’incapacità di sentire non c’è rimedio, lo so. Ma ricordo che ero in grado di specchiarmi nei tuoi occhi. Ricordo che, nelle venature più scure delle tue pupille ritrovavo la strada. I tuoi occhi, cartine geografiche chiare del mio andare senza meta.

Occhi bassi sul libro di sempre. Sibilla racconta di una donna che decide di vivere d’istinto. E dell’istinto fare la propria condanna. Occhi bassi sulle stesse pagine che ti raccontavo. Che sentivo come lama nello stomaco. Che sento ora come avvertimento. Che avverto ora come sensazione fredda, e pericolosa. Della paura di me.

Il ticchettio dell’orologio mi sveglia anche oggi.
Guardo dalla finestra il tempo che è andato, quello ancora da vivere senza te – te che sognavi per noi cose grandi, te che fermavi il tempo soltanto con una mano, carezzandolo piano - . All’assenza, all’assenza io sono abituata da sempre, non m’ha mai fatto paura. Quello che temo, quello di cui ho paura veramente, è l’assenza di me. Di divenire istinto e solo istinto. Di non lasciarmi più guardare dentro, più in fondo. Di non poter più spiegare veramente i miei sorrisi, o i miei pianti troppo frequenti – ché sento la vita, ogni giorno, salire alla testa e poi colare dalle ciglia -.

Torno a casa. Ad aprire gli occhi. A fermare il tempo.A ritrovar me stessa.

giovedì 12 gennaio 2012

Al di là del vetro





"Fa freddo", mi dicesti voltandoti a guardare al di là del vetro.

Si respiravano, quel giorno, i primi odori di inverno. Si avvertiva, sulla pelle, il primo freddo. Quello fatto apposta per provare poi la sensazione accogliente del calore. "Oggi pioverà", aggiungesti, scostando la tenda dal vetro. Ci separa dalla verità, pensai, questa finestra. Intrappolati in giorni secchi, noi. Nella siccità di un sentimento che non germogliava, che non aveva nutrimento, che restava seme, mai fiore, né frutto. Che gelava al freddo.
Poi tra le parole un istante si bloccò. I tuoi occhi fuori dalla stanza. Le mie labbra costrette al silenzio. I pugni tuoi chiusi dalla rabbia della fine. Voci a confondermi, occhi bassi, mani ad indicare il pavimento. Come volessero cadere a terra, come si arrendessero alla realtà della gravità. Non avemmo fiato, né forza, per ricostruire la nostra illusione d’amore. Illusione.

Fa freddo, pensai, anche qui dentro. E pioverà domani sui nostri volti, nel dirci addio.

Altre stagioni ho vissuto da quel giorno. Quel giorno che, seppure prepotente, moriva sfinito. E pioggia e sole i miei occhi han visto passare, e pugni chiusi e silenzi nuovi ho vissuto. Perché ogni stagione ha i suoi frutti. Ma dei miei semi non seppi mai fare germoglio. Con le mani – ed altre mani – sbagliai. Con altri occhi – ed i miei occhi – ingannai le prospettive.

Fa freddo, di nuovo. Da questa parte e al di là del vetro. In questa stagione vuota, e lenta. In questa stagione che ne attende una nuova. Che finalmente germogli.
Fa freddo, sai, anche oggi. Nel ricordarti illusione. Nel ripensarci chiusi in quella gabbia. Nel riconoscere, ora, che quello che veramente ci faceva paura, da questa parte e al di là del vetro, eravamo noi.
Noi.
Noi che gelammo al freddo di un amore



che non c’era.



mercoledì 4 gennaio 2012

Intorno e dentro





Stanco il respiro del vento, di non udire altri suoni che lamenti. Come se raccontasse, il vento, storie di tempi andati, mai completamente concluse, ancora nelle mani fredde del destino.

"Cos’è che vuoi?"
Che qualcuno fermi il vento e il suo brusio. Che chieda a me cos’è che m’ha portato qui, quale delle storie che il vento racconta è la mia.

Stanca la pioggia, stanco il vento, stanco pure il mio bisogno di dar un senso. Stanco il mattino, in questo inizio d’anno monco, che attende forza nelle gambe e fiato a sufficienza per iniziare la sua corsa. Tutto sembra fermo, cristallizzato dietro questo strato di nebbia – pure tenue, ma imponente -. Tutto è fermo ed io con l’atmosfera, maledetta gabbia senza sbarre. E’ stanca la pioggia, cede il suo tempo alla nebbia. Stanche le domande, immobili e distanti chilometri di retorica.

"Cos’è che vuoi?"
Che qualcuno mi prenda per mano, oggi. Che mi insegni la strada. Che non sia mai stanco. Che veda tra i nodi – in verità mai districati – dei miei capelli, l’illogicità della bellezza. Senza criterio, la bellezza. Perché il suo gioco è quello di illudere che esista, e che sia così struggente e così appassionata da render vano ogni tentativo di negarla. Che qualcuno veda, nel mio modo di parlare, nei miei gesti, nel mio tono di voce, la bellezza. Di un illudersi mai stanco, frettoloso e appassionato quanto basta a slegarmi dalle mie catene. Disilludersi avverrà poi, ché ogni cosa ha il tempo suo, come la pioggia.

Stanca è l’attesa. Questo voler mescolare l’intorno e il dentro, e farne sempre fotografia unica.

Sai cos'è che voglio?
Che tutte le mie cellule, ogni poro, ogni minuto angolo della mia pelle, si senta tuo. E che nulla, eccetto questa nebbia, sia esterno a noi.