mercoledì 30 gennaio 2013

Della notte, la danza (metafore a stento)




Il passo della notte è lento, come in un ballo le movenze son cadenzate, il tempo tenuto da un pendolo, l’orecchio teso a percepire l’attacco. Io, che ho sempre perso il momento. La notte è un’amica, da anni, che mi fa compagnia, che sceglie le note, il vestiario, le luci. La notte, questa notte, ha il tuo nome. 

Ha lividi grandi sulle gote, delle carezze mancate. Ha occhi chiari e che sanno parlare, sebbene il linguaggio del mondo non dica parole.  Ha rughe – scie di voli persi e (poi) presi – che sono esperienza, e labbra invisibili a baciare le cime. E’ un tetto, la notte, che sa proteggermi ancora. Quella carezza accennata nei giorni di inverno – il sentore di qualcosa di necessario e indicato – che diventa costanza – un tramonto, la sua alba, l’alternarsi di luce e buio -. E il suo passo non fa rumore. Si adagia, discreto, sul terreno che io stessa tocco. Mi tocca, la notte, senza che io sfiori mai la sua pelle. E’ madre, la notte, di noi. E mai ci seppe dire che sarebbe finita, mai ci seppe insegnare a non farci più male.

Ha le sembianze del velluto, la consistenza, poi la sensazione al tatto. Come potessi toccarla, la notte, e non farmi più male. E’ un cappello, nelle sere in cui piove fuori e dentro di me. Una mano, un sorriso, una trama. E mai ci disse il finale, mai seppe dirci di andare. Poi il giorno, il suo irrompere fiero nel letto, quello schiaffo che non riesci a schivare, il dovere che proprio non puoi evitare. 

No, non lo disse, la notte, che sarebbe finita. A me, che ho sempre perso il momento. E non lo disse perché sarebbe tornata. Nessun addio sulla soglia, solo un sorriso sfocato. Poi l'immagine, nitida, delle nostre mani a intrecciarsi. Tacque. Ché male poi non ci saremmo fatti, ché la fine nostra non avremmo ancora visto.

E andò ancora via - per poi ritornare - senza fare rumore, come una ballerina che, nell'uscita di scena, sa che mai smetterà di danzare.


(Metafore a stento, di un'emozione ancora sconosciuta)

martedì 22 gennaio 2013

E la musica? (ogni cosa al suo posto)






Matita sugli occhi, ché forse basterà a proteggermi. Le ciglia come scudi che non sanno difendere, davanti alle tue. Le parole camuffate, nel tempo, da convenevoli e frasi fatte: come stai? hai più fatto quel viaggio? il lavoro? e la musica? tutto bene, ogni cosa è al suo posto. E invece al tuo posto non c'eri, solo qualche tempo fa. No, non c'eri. Ti cercavo, senza conoscere neanche il tuo nome - che ora rende mute le mie corde, ché solo a pronunciarlo mi sembra di perdere una parte di te, soffiarti via come un respiro qualunque, espirarti e così smarrirti. Non eri, come ora sei, nella maglia intricata della mia sciarpa, non eri sul cuscino, sul mio viso. Non c'eri tra le mie parole, non eri nei miei gesti, nelle mie attese sfibranti e malcelate da un sorriso bugiardo. No, nulla, in verità, era al suo posto. Un filo di trucco a convincerti che non ho negli occhi già il tuo volere - lo stesso, complicato eppure spoglio di incertezze -, il profumo al papavero che adori - il tuo già sulla pelle mia-. Non eri fuori, sebbene fossi - sconosciuto- dentro. Non eri nodo tra i miei capelli - da districare così come i miei pensieri. No, non c'eri.

La frase era la stessa e gli occhi sempre quelli, la traccia che lasciavano, il loro sorridere quanto e più delle labbra. Ha un sorriso, pensavo, di quelli che guardarli soltanto è già un ridere insieme. Rughe d'espressione come rotte - del tempo trascorso, parzialmente nascosto - da seguire senza nulla domandare. 

Eppure una domanda da farsi c'era, ogni volta, mentre il silenzio gridava -muto- ciò che stavamo facendo. E allora, ancora: e la musica? Nelle casse, stordite da ritmi nuovi, intensi e sordi, il silenzio. Il disordine, figlio di un "non importa", era la traccia che lasciavamo di noi. Un disordine, pure quello malcelato - e mai truccato -, che avrebbe potuto parlare. Nessuna disposizione - di libri, di vesti, di parole, di sguardi-, nessuna successione - gli avvenimenti quando inevitabili -, nessun programma - nonostante le intenzioni -. Nessun criterio, nulla - dico, nulla - che fosse in ordine.

Solo una cosa, ora, era - son certa- esattamente al suo posto:


noi.


(Lasciatemi sognare)

lunedì 14 gennaio 2013

Quel sorriso qualunque (il filo di Arianna)




Di un istante appassito, del suo rifiorire a Natale.

Era una mattina qualunque, col sole smorzato da una pioggia discreta. Era stata una notte come tante, ancora incapace di luce naturale, in quello scenario che è Roma, naturale quanto basta a dar senso all’ornamento. Luci, ritagli di vernice bianca sull’asfalto, il filo di Arianna come percorso reale, una sola traiettoria-il dubbio è se partire oppure star fermi. Non sapeva, no, ancora non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta. I bicchieri della sera prima – uno sporco di rossetto- erano l’unica certezza che quel momento realmente era stato: tutto, si diceva, sembrava la messa in scena di una sceneggiatura. Da lei scritta, o da lei soltanto immaginata. Le calze – sfilate all’altezza del ginocchio- erano solo un dubbio: le sue mani, quella notte, l’avevano davvero sfiorata? E quelle chiavi, a penzoloni sulla maniglia del portone, erano forse un invito, un invito a tornare? Ma era soltanto una mattina qualunque, ancora appesa alla luna – suo malgrado, ancora lì, sfocata -, ancora una volta figlia della notte, ancora una volta madre del tempo. E di quel tempo avere ancora così tanta paura. Fu un istante – l’incrociarsi di eventi, di espressioni, di parole-, fu quella condizione inevitabile – sorridergli, senza che nulla potesse fermarla -, a dirle che era lì. Lì. In una mattina qualunque, dentro uno scorcio di Roma – più tua che mia - qualunque, in un Ottobre qualunque, in una serenità qualunque.  Ma era lì. Non importava l’ordine dei libri in libreria, la disposizione dei mobili, il freddo o il caldo della stagione, non importava null’altro. Ciò che davvero contava, in quel contesto qualunque, era che, dopo molto tempo, Amandine non si sentiva una qualunque. E quel sorriso – distratto, pure un po’ capriccioso – no, non era un sorriso qualunque.


(Guardare tutto con occhi sereni,
 per il tempo che sarà)

giovedì 10 gennaio 2013

Amandine

(Un anno e mezzo come vento)

Non c'era, negli occhi di lui, niente per cui valesse la pena rinunciarvi. Amandine era lì, davanti ad un tavolo che ancora dava spazio alla polvere - del tempo trascorso e poi dimenticato -, e non scorgeva nulla per cui valesse la pena rinunciare a quell'attimo, a quello stand-by necessario, logicamente conseguente. La pausa - la necessità - era quella di allontanare gli occhi di lui e guardare tutto, attraverso i filtri di luce del mattino, da un'angolazione differente. Una qualsivoglia distanza - come se la pelle non parlasse un linguaggio perpetuo e costante, indipendentemente dallo spazio - che le permettesse di essere razionale, di pesare le emozioni, i silenzi, le parole - maledette parole. No, non c'era. Non c'era un motivo, uno solo, che portasse Amandine alla conclusione - peraltro sensatissima, nell'assenza di criterio - che avrebbe dovuto chiudere la porta. E, con la porta, soffiare via la polvere - non del tempo che fu, ma di quello che era appena stato. Le impressioni di una mattina qualunque, marchiate sulla pelle come nei, dicevano abbastanza: la loro localizzazione come consapevolezza, a tradire il caso. Una logica matematica che la spaventa da sempre, un cerchio che si chiude perfettamente e il timore di non riuscire a rimanervi dentro. Corrispondenze. Le  risate. La paura - fottuta, pensava Amandine -. Il letto disfatto, la sveglia che, per la prima volta dopo molto tempo, non aveva un suono irritante. Era bello. Bello. E non trovava altro modo per descriverlo. E allora - rifletteva Amandine -, alla distanza, la lucidità, come una sorta di messa a fuoco, sarebbe tornata. Ma una miopia degli intenti impediva ogni razionalità: no, non c'era alcun motivo per fermarsi, per allontanarsi, per rinunciarvi. E, nella luce ancora ubbidiente del primo mattino, la polvere - il tempo, l'attesa - non diventava che aria, a danzare dentro un raggio di luce filtrato dalle imposte. Fu in un preciso istante, quello in cui con le dita spostò i capelli all'indietro - come a voler vedere meglio l'intorno - che pensò che sarebbe bastato un gesto semplice, consueto, a mandarla via. Bevve l'ultimo sorso di caffè, sorrise e finalmente aprì la finestra: via, pensava, via - il tempo che fu, altre mani, il non sapersi ancora - via.


(nell'illusione della verità)