domenica 28 ottobre 2012



Domenica. Le lancette a cambiare direzione. Non ho più parole da incartare, non ne ho da cantare. Attendo, mai stanca, che qualcuno ne scriva al posto mio. Non più parole, né titoli, né rime, né giochi di suoni. Solo una musica che racconta di una domenica –sporca- che mi ha regalato l’illusione di poter tornare indietro. (un) domani, forse, ne scriverò-ne scriverai.




(Labiali scempie si prende una pausa. Da me).



mercoledì 24 ottobre 2012

Sarà che Ottobre è un'incertezza





Sarà che Ottobre è un’incertezza, sarà che le stagioni si confondono e si fondono come non avevano fatto mai. Sarà l’ebbrezza che mi coglie impreparata, sarà il tuo sguardo che taglia in due ogni emozione. Scrivo per smaltire ogni pensiero, scrivo per assecondare la verità, per ammetterla, per renderla innegabile. Mi sorprendo, davanti a questo foglio bianco, se dietro la grafia non leggo che un’altra bugia. Dov’è finita quella verità che mi appariva innanzi, dove la lucidità, dove il mio raziocinio cinico e necessario, dove i tuoi occhi, dove le tue paure/parole? Sarà che pure l’autunno è un’incertezza, ed i suoi giorni carte scoperte in un gioco senza rivali. Sarà che ho immaginato fiori freschi lì sul tavolo, al mio arrivo, e fatico a ricordare cosa vi fosse, lì in salotto, tra la mia tazzina sporca di rossetto e il tuo bicchiere riempito solo per metà. C’eri tu, dall’altra parte del tavolo, c’ero io da questa. Ed in mezzo a noi, sai, non lo ricordo.

E’ solo che Ottobre è un tempo sospeso, come in attesa di qualcosa che verrà. Sarà che da quando ti conosco le stagioni non si riconoscono più. Fondi tra loro i miei tempi, li dilati, ne confondi i confini: perimetri inconsistenti ma almeno definiti, prima di conoscerti. Scrivo perché tutto sia chiaro, scrivo per saperci inventare, forse scrivo solo per negarla, la verità: ché mi sorprendo, davanti a questo foglio bianco, se dietro la grafia non c’è niente che possa dirsi verità. Dov’è finita la tua voce calda, il tuo desiderio e la mia ritrosia, dove quei giorni, dove quel cielo di Roma? Sarà che l’autunno non si fa capire mai bene, finge il sereno e poi irrompe -improvvisa- la pioggia. Sarà che ho ancora il tuo odore tra le dita. Si incastra bene, sai, e non va mai via.

Tra la mia tazzina –sporca di rossetto- e il tuo bicchiere – riempito solo per metà- c’erano i miei sogni aggrovigliati, doloranti, esausti. C’eri tu, dall’altra parte del tavolo. C’ero io da questa. Ed in mezzo a noi, sai, c’era una distanza che era come nebbia, ad impedire la realtà. E come un pugno, un coltello, uno schiaffo. C'era distanza. Ed un solo fiore: ricordo di un’emozione che fu. Emozione di un ricordo che sempre sarà.





"Un momento dopo, mi ha domandato se l'amavo. Le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no. Lei ha avuto l'aria un po' triste. Ma mentre preparava da mangiare, e per una sciocchezza, ha ancora riso in un tal modo che l'ho baciata."
 Albert Camus, Lo straniero 

martedì 16 ottobre 2012

Rosso tenue (a dipinger foglie e colli)




E parlava di alberi e radici come fossero giornali del mattino. Cadono le foglie, danzano nell’aria, consuetudine di ogni autunno, ciclo naturale, meccanismo insovvertibile. 

E’ autunno. E’ autunno e ancora manca quel colore – rosso tenue, a dipinger foglie e colli-, è autunno e mi sorprende, col suo fare solito e mai casuale. Non ho ricordi, ricordi forti, che leghino la mia memoria a foglie secche e alberi spogli: col vuoto dell’intorno c’è un vuoto più profondo. Lacrime, tempeste e occhi grandi, tutto quello che ricordo. 

Ma l’albero nel mio giardino, lo stesso che è diventato grande insieme a me, mi sorprende: spoglio, vuoto, quasi inconsistente. Mi stupisce ciò che è prevedibile, ciò che è naturale. Mi stupisce ancora il volto di mia madre, la rugiada di mattina, quando ancora il mondo è assente. Mi sorprende trovarti al mio fianco –al risveglio- senza pelle e senza odori, presenza effimera eppure così forte, abbraccio caldo in questo freddo che ora sì, è arrivato. I miei vestiti nell’armadio ordinati da altre mani, quelle materne, quelle che sempre mi accolgono come fossi rara cosa, quelle che impediscono all’autunno –lotta vera, mani contro mani- di spogliarmi delle mie risorse. I disegni dell’asilo, le poesie scritte per gioco, quella letteratura sbagliata riposta nella mensola lì in alto, i romanzi -quelli buoni-, quelli  che vivono con me ovunque vada. Son pezzi di una storia mai raccontata, suggerita dalle frasi, sempre contenuta. Smorzata dal coraggio, offuscata dalla voglia di rivalsa.

E’ autunno. E’ autunno e il sole arranca mentre un uomo compie una missione lì, in cielo aperto. E’ autunno e tutto muore per trovare nuova vita. Resurrezione consueta, il paradosso del fattibile, la mano materna in cui trovo ristoro. E’ autunno e ancora manca quel colore –rosso tenue, a dipinger foglie e colli- è autunno e mi sorprende la sua natura a riproporsi. E’ autunno, sai, e mi sorprende –come epifania improvvisa, lampo di luce, verità mai ammessa - non trovarti ancora qua.


Col vuoto dell’intorno c’è –ancora- un vuoto più profondo.

giovedì 11 ottobre 2012

(Flashback di) Nubi e presagi





Fa caldo, da giorni.
Stringere al petto –per l’ultima volta- una vecchia fotografia, sentir l’immagine imprimersi come inchiostro all’altezza del cuore. Per l’ultima volta. Addio a ieri, addio. Qualcosa –una mossa, un istante, una sola telefonata- avrebbe cambiato le sorti del gioco e dei giocatori: re e regina insieme a difendere il loro territorio, una schiera di soldati-amori già morti per loro. Poi il tempo d’attesa, come in ogni gioco. L’escogitare la mossa, starci a pensare, fingere indugio e intanto tremare. 

"Fa caldo, da giorni. Non sorrido se non davanti ai tuoi occhi. Non vedo bene se non davanti al tuo sorriso. Mi manchi. E sei qui."

Ma un giorno non importeranno le stagioni, mi dico, il loro irrompere senza avvisare, il loro costringerci al saluto. Non importeranno più le pene, né lo sguardo poetico di quel pomeriggio di metà mese. Non conterà la febbre del non averti, né l’assenza che è solo una costante. Come ci si avvicini alle cadute, come si possa inciampare ad ogni avvallamento, come si perdoni un non amore, non sto neanche più a pensarci. Penso alle tue mani. Agli abbracci. A quando respirammo la stessa aria, smog che parve dolce essenza. Al contorno dei tuoi occhi, a quel dentro che –lo so- è meravigliosamente mio. Alla mia scrittura che mi fa rabbia ed è patetica, se dietro le parole non leggo che te.

Già, fu in un giorno di pioggia. Nubi nere e dense come ovatta bagnata, asfalto scivoloso come fosse un avvertimento a non proseguire, un presagio, una profezia. Ma il gioco non ha senso -un po' come la vita, i film, i libri e ogni canzone- se sai già come andrà a finire. Ed io voglio giocare, sai -perdere, piangere soffrire-, anche se conosco già il finale:

"Fa freddo, da giorni. Non sorrido se non davanti ai tuoi occhi. Non vedo bene se non davanti al tuo sorriso. Mi manchi. Perché non sei più qui?"


martedì 9 ottobre 2012

Al tuo scrivermi muta (soggetti come rime alternate)




Alla tua pelle delusa, prigioniera di un abbraccio che non dura mai abbastanza. A queste pieghe nel libro, a ricordarti quegli occhi che ti fanno regina. Regina un giorno solo, regina due volte, regina di un castello in  macerie, che nessuno ha mai ricostruito. Alla tua pelle delusa, a quel sordo respirare del tempo, alle tue gambe tremolanti e indifese, a quel sorriso bugiardo. A questa città che sembra parlare, di notte, tra un sogno voluto ed un altro dovuto. E chissà cosa suggerisce, la Roma delle tre di notte, tra uno sbuffo di fumo e una carezza sognata. Cosa vuole dirmi, questo cielo arancione che è luce e buio e che non sa parlare?

Ma è solo quel che resta di un vestito indossato troppe volte, è solo la fatica del freddo che si avvicina senza farsi notare, come un ladro a carnevale. Piedi scalzi e passi cadenzati, la sorpresa di un silenzio inaspettato. Ghiaccio e gelo all’orizzonte, un tepore mite sotto i piedi. E non è una novità, ma è solo quello che rimane di due sguardi di stagioni che da sempre si toccavano. 

Alla tua pelle che odora, alla tua pelle discreta, al tuo sapermi incosciente. Riconoscere –d’improvviso- le rammendature del presente, sentire gli aghi infilzare i polpastrelli: sangue che non ha ancora un colore, ferite –tante- così piccole da non farci neanche caso. Al tuo saluto che si smorza sul finale e accorcia il suono, ché tanto domani sai che torna. 

A domani, alla tua pelle delusa, al tuo scrivermi muta, come essenza nell’aria, come destino incrociato, come trecento metri di strada in un pomeriggio d’Ottobre che ti ha regalato un solo caffè.
Alla mia pelle delusa, all’oggi che arranca, al domani che aspetta. 

Al domani. 

“A domani”.

sabato 6 ottobre 2012

(non so dirti che in rima)






Non era questo, quello che raccontavano i libri. Una prefazione che non svelasse nulla, che leggerla poi a che sarebbe servito. Le premesse ai miei discorsi, sempre disordinati eppure così densi, non son servite a nulla neanche quelle. Capitoli a susseguirsi come giorni: lunedì il coraggio, martedì la serenità di averlo fatto, mercoledì un solo dubbio, giovedì il tuo nome in ogni strada, venerdì mi sono persa, sabato mi hai ritrovata, domenica che vuoi che importi, è solo finita un’altra settimana. Un’altra settimana di menzogne, un’altra settimana a dirmi che son io, e solo io. Poi i tuoi occhi che non sanno dove andare, rinchiusi in una cabina telefonica che conosce solo la mia voce. Sei distante in ogni istante, sei luce flebile e miraggio, un insulto al mio già stentato coraggio. Non so dirti che in rima, come a volerti intrappolare entro un ingranaggio perfetto, che non abbia intoppi né dissonanze. Come a voler per te una sola casa, una sola cosa, un solo possibile caso. Come a cercare di inserirti in un gioco di parole, che ha l’incastro giusto ed il countdown già terminato. No, non era questo che mi insegnavano i libri. Ci hanno provato, negli anni, ad indicarmi le possibilità come tentativi da non forzare, da aspettare. Mi hanno insegnato che le parole –maledette, sai, le parole- son come le monete: testa o croce, l’una o l’altra faccia, che paiono medaglie e talvolta non son che lame. 
E no, sai, non era questo quello che raccontò la tua lettera, scritta con la tua penna e il tuo inchiostro. Sangue che io vidi sgocciolare lì sul foglio. Mi scrivesti "ora non ci sei che tu". Non valutai che “ora” è “ora” e che non è "poi".

Ma non era questo quello che raccontavano i libri, sai.


(Ostinato e vomitato, alle due e trentotto)

martedì 2 ottobre 2012

L'amante di ieri e l'anima di vento






Fino all’ultima goccia, bevve il suo liquore come fosse l’ultimo bacio all’amante di ieri. -Addio, corpo vigliacco, addio carne e nient’altro. Non sento più niente, non voglio più niente-. Si leccò piano le labbra, mosse appena il suo sguardo, lo poggiò su quelle mani distratte, da tempo ancorate alla sua sola immagine nuda. "Sei bella", diceva. Il giorno seguente tutto restava impresso come impronte digitali, tutto, fuorché la sua anima di vento. Non vi si chiudeva dentro, l’amante di ieri. Contratte, le braccia, nel toccarle i capelli, disegnavano quel cerchio che sembrava portasse al suo cuore. Non era una strada, quello era l’inganno. Come indicazioni stradali che non coincidono con la mappa, come un indirizzo sbagliato che fa arrivare in ritardo, come un saluto alla persona sbagliata, col giusto sorriso. 

Fino all’ultima goccia, mischiò il suo sudore a quello dell’amante di ieri. Addio, pensava, odore unico, unico amore. Addio specchio di me, addio al tuo sapore, addio a questo letto. Non voglio più niente, non provo che niente. Rimise l’anello e la giacca, versò ancora del liquore all’arancia, sorrise sbeffeggiando il già fatto, prese le chiavi dal suo comodino in disuso. Raccogli i tuoi stracci, pensava, ridammi le mani, ridammi i pensieri, il mio odore, il mio amore. Non sento più niente, non voglio più niente. Non fosti che un’ombra, amante di ieri. Ad umiliare la pelle, ancora una volta violata. Non fosti che carne, mentre i miei occhi cercavano carezze. Tu fosti la pioggia, io il tuo vento. Tu fosti un amante, io non fui che la mia anima di vento.

E allora gli strinse i polsi, guardandolo impassibile, guardando i suoi occhi in cartapesta. Strinse i suoi polsi e non senti che la stoffa:  né un battito, né un sospiro, né sangue, solo un attrito. Sentì il suo -di lei- respiro soffiare più forte, come a suggerire vai via, tu che di vento sei. Trattenne la corsa sfrenata del sangue, le parole che non gli seppe dire, il grido straziante del cuore, incassò quel pugno allo stomaco che è un male più forte, atroce, violento. Poi - fredda e severa, indossando la maschera che più delle altre tradiva il sentire - trattenne - esausta - il getto di lacrime che gli occhi avrebbero vomitato per lui. 
Fino all’ultima goccia.



Image by http://etimo.it
Da Bonomi, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana


(A ciò che verrà, a ciò che è già qua).