giovedì 30 maggio 2013

Quanto lo volemmo, quando null'altro cercammo





E allora nuotare dentro quegli occhi stanchi e sazi, e allora andare, dentro quegli occhi che sembravano amare. E ancora incespicare, e non trovare l’equilibrio - e percepir lo scacco, la feritoia degli ingenui, la marcia folle del combattente leggendario -. Ma continuare per la stessa strada, e non veder più i passi suoi seguire i miei – stesso il ritmo e stesso il movimento -, e non avere alcuna garanzia, e sentire ancora addosso l’odore delle fogne – degli attimi in attesa, degli attimi imputriditi dall’attesa -, e non saper dove volgere lo sguardo, e muovere ancora il volto – come a cercar un diverso appiglio – velocemente e sospettosamente. E riuscire a intravedere a stento un domani, se quel domani è solo Ieri, ma travestito. Non saper cosa indossare per rivedere quello sguardo compiaciuto, e fingere che nulla sia cambiato ed imparare a memoria tutto quello che gli piace, e passare poi altre notti, e ancora mille, a regalargli e a regalarmi un noi. Quanto lo cercammo, quando null’altro volemmo. Quanto lo inseguimmo – quanto lo inseguiamo – quel treno che sembrò esser l’unico - il più rapido, il più accogliente, il miglior viaggio immaginato -, e quante volte ancora lo scegliemmo, in quelle notti in cui i megafoni annunciavano sordi e le pupille non avevano altra meta che il corpo dell’altro.

E allora amarlo – ogni cellula, ogni respiro -, ostinatamente amarlo e immaginarlo – ancora immaginarlo – essere la certezza che mancava. Convincermi che è tutto qua, e nuotare in quegli occhi che (non) sanno di menzogna, ed allontanarmi solo per riprender fiato, e poi tornare a trattenerlo. Concepire le mezze verità. Respirare per metà. Trattenere le parole, nascosta in un mutismo che non sa di libertà. Ma continuare a nuotare in quegli occhi, e dentro quegli occhi ritrovare casa, e dentro quegli occhi credermi felice. Quanto lo volemmo, quando null’altro cercammo. 

Quanto lo cerco, ora che null’altro voglio.


(Le parole sono e devono esser lame, 
la verità la lama più tagliente e la corrispettiva 
- più efficace - cura.)

mercoledì 22 maggio 2013

Acqua color pelle (e un clunk, l'onomatopea al mirtillo)




Sorseggiò l'ultimo goccio di tè al mirtillo, poi prese a contar le sigarette rimaste nel pacchetto con la precisione di un chirurgo, toccandole con l'indice una alla volta, portandone infine una alla bocca. E' chiaro - sussurrò, lasciando che la fiamma bruciasse da sé il tabacco - che lei scrive per capire, Amandine. Per dare un senso alle cose, o per perderlo, a seconda dei casi. E' chiaro, mia bella Amandine, che non sempre le cose ne hanno uno, e che è da cocciuti ostinarsi a trovarlo.
 
- E scrivo, talvolta, per domandar perdono.
- Di cosa, Amandine, di cosa ha da scusarsi?
 
Mosse appena la gonna portandola al ginocchio. Accavallò le gambe, poi chiese il permesso di accendere una sigaretta. Non la lasciò bruciare da sé, Amandine, ma la fumò, la aspirò come fosse l'unica, l'ultima, e in assoluto la più buona della sua vita. Era impaurito, il suo sguardo, e languido, quando si spostava al di là della finestra.
 
- Lei ama il mondo, vero, Amandine?
- Amo - rispose senza indugi.
 
Spense cautamente la sigaretta, cercando di evitare che il fumo la dividesse da quell'uomo.
 
- E di cosa, Amandine? Insomma, di cosa ha da scusarsi? -  si sentì ancora domandare, ma non con impazienza, né con invadenza. Era la curiosità degli uomini a parlare, quella del mondo.
 
E allora Amandine pensò: Chiedo scusa di amarlo troppo e troppo poco, quel mondo. Di essere grata alla vita ma non abbastanza, di non saper scrivere di altro all'infuori del dolore. Chiedo scusa al foglio bianco, che aspetta una carezza ed io non faccio che usurparlo, violarlo, e renderlo ogni volta peggiore. Chiedo scusa alle carezze, talvolta raccontate come fossero ceffoni. Chiedo scusa al giorno di non viverlo abbastanza, di non viverlo come fosse l'unico, l'ultimo, e in assoluto il più bello. Chiedo scusa al cielo e al sole, e all'incapacità mia di ritrarli ed esaltarli. E chiedo scusa poi all'amore di non rendergli giustizia, di descriverlo ancora come una ferita aperta, e non come ciò che è. Ed è la mia salvezza.

Ma non lo disse. Guardò gli occhi curiosi che aveva davanti e che attendevano risposta, sorrise, poi si voltò. Prese a lavare le tazze, ancora intrise dell'odore di mirtillo. Le pareva ora un oltraggio eliminare quell'odore. Le pareva uno spreco l'acqua corrente. Ma la lasciava scivolare sulle dita, ancora, ancora e ancora, e la osservava colorarsi del colore della sua pelle. E quel mondo, al di là della finestra, d'improvviso, aveva un altro senso. Da scrivere.
 
- Poco zucchero nel tè, signore, di questo le chiedo scusa -
L'uomo scosse il capo, poi si congedò senza troppi convenevoli e chiuse la porta dietro di sé. Quel rumore, il rumore della porta che fa clunk, fu per Amandine l'inizio del silenzio. Quanto amava la pace. Sul tavolo, accanto ai fiori che ogni giorno dissetava e curava come fossero suoi figli, un biglietto: chi scrive, è altrove. Lei ama, Amandine, glielo si legge negli occhi. Ami e scriva, mia bella Amandine, ché scrivere, in fondo, è gratitudine. Ed è sempre - dico sempre - una dichiarazione d'amore.

E Amandine scrisse, allora.
E amò, Amandine amò ancora.

 
 "E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so."
 
Mariangela Gualtieri 
 
 
(Ad Amandine, la mia scrittrice immaginaria.
Ad A., la mia salvezza finora inimmaginata.
Ad Eteronima, la me da sempre solo immaginata.)

giovedì 16 maggio 2013

Senza corpo




La città sbadiglia, sul letto della terra. È stanca, mi dico, di essere sfruttata, calpestata, tradita. È stanca, non ancora abbastanza, dell’incedere svelto di gambe e di sguardi ai crocevia dei tram, sotto i tabelloni delle fermate degli autobus, sui marciapiedi, nei parchi, e dove altro chissà. Ed io incedo, cauta, avvertendo il suo sbuffare come un soffio. A spingermi più in là. Di tutta la notte – ora ricordo – un solo ricordo minacciò il presente: una bugia. Ma camminai, e camminai ancora, mentendo agli occhi e al desiderio, credendomi felice di un "ti amo" all’orecchio, percependo un incanto dove non v’era che un inganno. Puttane ai semafori – a vendere ciò che non hanno, a vendere l’unica cosa che hanno -, scooter impazziti che sbandano – di chi cerca la via dentro un bicchiere e di chi vuol perderla, in quello stesso bicchiere -, l’odore di smog che pian piano evapora, e sparisce – io dentro il mondo, il mondo solo dentro me -. Un fantasma – dunque senza corpo – ciò che di me cammina. Dividere sé stessi in due parti, lasciare il corpo in quel letto – ad abbracciarti e ad abbracciarmi, riuscendo a concepire le distanze – e svegliarsi in una metropoli deserta e buia, così come mai s’era veduta.

E camminare, mentre i tuoi occhi per guardare si chiudono e il tuo inconscio disegna circostanze paradossali – io nel tuo sogno e nella tua realtà, ad un palmo di mano da te, a stringere quel palmo, a stringerti la mano -. E camminare, andare, allontanarmi, e ancora camminare. Guardarmi, dall’angolo della strada, nel tuo letto. Ad occhi chiusi. Percepire il tuo respiro come un soffio – a dirmi c’è tepore, resta ancora qua -, e comunque andare, e andare e andare. Scoprirmi due dentro una sola, avvertire l’amore premere il costato e la paura portarmi altrove. Avvertire il battito del cuore accelerare – me lo dicevano, i libri, che talvolta accade, ed io scettica, a pensarlo ridicolo – e il tuo viso in un attimo rappresentare tutto, e tutto il male escludere. Chiudermi tra le tue braccia raccontandoti il mio inconscio, e sentire tutto il mondo dentro il nostro letto.

Mentre la città davvero sbadiglia, sul letto della terra.


(L'istinto di due minuti a guardar dalla finestra)

martedì 7 maggio 2013

Inchiostro su carta (e dagli occhi)



(Sproloqui. Senza capo né coda. Aver voglia di scrivere e non scrivere che questo.)



Poi, come in tutte le storie, arrivò lui. E, fervida, l’immaginazione si concepì savia: tutto ciò che aveva pensato, sperato, intravisto dalla serratura del futuro, era ora materia, sostanza, realtà. Come in tutte le favole c’era un affare intricato, e come in tutte le favole ora la trama era sciolta: avrebbe seguito i suoi occhi per tutto il tempo a venire, l’avrebbe fatto con fiducia cieca – ma mai muta -, con quel sorriso strappato dal vissero per sempre felici e contenti. Che strane, le storie. Quelle lette, quelle ascoltate per caso o per volere, quelle inventate, quelle solo intraviste, quelle che scrivi, a volte, mettendoti in quei panni fatti di carta e inchiostro, sporcandotene le mani, diventandone parte, creatore, lettore, attore. Che strane, le storie. Che da qualunque punto di vista le osservi son altre storie, con altre facce, altri pensieri, altre emozioni. Che pensi di averle intuite, comprese, e invece leggendole con gli occhi di un altro potresti svelare a te stesso ancora un dettaglio, un indizio, una minuzia che dà un altro senso all’accaduto. E all’accadrà. 

Poi, come in tutte le storie - come in tutti i romanzi -, la parte centrale è quella che conta: sfuggire alla noia, saper bilanciare la voglia di andare avanti e quella di godersi la pagina che si ha davanti. Saper intuire, ma non troppo, e saper cogliere il particolare: un’intonazione, un respiro più forte, una virgola – una pausa – che vale più delle altre. Non inciampare nella paura di non aver compreso il personaggio, e lasciarsi trasportare da questi fino all’ultimo rigo. Son strane, le storie. Che pensi sia finita e invece è proprio dal finale che tutto ha inizio. Che pensi di aver perso il filo e invece è il filo stesso a guidarti altrove. Oltre il voler capire ad ogni costo. Oltre la smania di aver tutto sotto controllo.

Poi, come in tutte le storie - come in ogni poesia -, c’è l’emozione: quel sentire in fondo che è tutto lì, dietro un endecasillabo o una parola, la sillaba tronca che ti lascia col fiato a metà, quel punto inatteso dove l’inchiostro poi muore. Suoni e rumori di un’anima – o mille -, che a raccontarla a voce avrebbe un senso diverso. Son le storie, dietro quei ritagli di carta, a far la differenza. E son strane, dio se son strane. Quella loro persuasione che è inganno il più delle volte e illusione nel migliore dei casi. Quel loro incastrarsi perfettamente l’una all’altra senza alcuna linea di confine, e modellarsi, come pezzi di un puzzle, per dar vita ad un’immagine unica. 

Poi c’è la paura. C’è il punto di vista. La voglia di andare avanti e la possibilità di godere dell’oggi. La difficoltà nel capire con chi si ha a che fare. Il timore di lasciarsi guidare. Il confondere l’inizio e la fine, e poi ancora la fine con l’inizio. Annoiarsi nel mezzo del racconto, perdere il filo di ciò che provi e cercarlo, ostinatamente, senza nessuna garanzia di ritrovarlo. Il timore di riaprire ferite già rimarginate. Il fiato a metà. Inchiostro, su carta e dagli occhi. Sorrisi. La persuasione. Pezzi diversi di unico puzzle. Confondere altre storie con la propria, provare continuamente a guardarsi con gli occhi dell'altro, strappare pagine e pagine e poi domandarsi il perché. La paura. La  p a u r a


Ma questa è un'altra storia.
Ed è la mia storia.



«Forse dovresti scrivere.» 
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?» 
«Immergerti nella vita vera.» 
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.»
Philip Roth, Il professore di desiderio.