martedì 7 maggio 2013

Inchiostro su carta (e dagli occhi)



(Sproloqui. Senza capo né coda. Aver voglia di scrivere e non scrivere che questo.)



Poi, come in tutte le storie, arrivò lui. E, fervida, l’immaginazione si concepì savia: tutto ciò che aveva pensato, sperato, intravisto dalla serratura del futuro, era ora materia, sostanza, realtà. Come in tutte le favole c’era un affare intricato, e come in tutte le favole ora la trama era sciolta: avrebbe seguito i suoi occhi per tutto il tempo a venire, l’avrebbe fatto con fiducia cieca – ma mai muta -, con quel sorriso strappato dal vissero per sempre felici e contenti. Che strane, le storie. Quelle lette, quelle ascoltate per caso o per volere, quelle inventate, quelle solo intraviste, quelle che scrivi, a volte, mettendoti in quei panni fatti di carta e inchiostro, sporcandotene le mani, diventandone parte, creatore, lettore, attore. Che strane, le storie. Che da qualunque punto di vista le osservi son altre storie, con altre facce, altri pensieri, altre emozioni. Che pensi di averle intuite, comprese, e invece leggendole con gli occhi di un altro potresti svelare a te stesso ancora un dettaglio, un indizio, una minuzia che dà un altro senso all’accaduto. E all’accadrà. 

Poi, come in tutte le storie - come in tutti i romanzi -, la parte centrale è quella che conta: sfuggire alla noia, saper bilanciare la voglia di andare avanti e quella di godersi la pagina che si ha davanti. Saper intuire, ma non troppo, e saper cogliere il particolare: un’intonazione, un respiro più forte, una virgola – una pausa – che vale più delle altre. Non inciampare nella paura di non aver compreso il personaggio, e lasciarsi trasportare da questi fino all’ultimo rigo. Son strane, le storie. Che pensi sia finita e invece è proprio dal finale che tutto ha inizio. Che pensi di aver perso il filo e invece è il filo stesso a guidarti altrove. Oltre il voler capire ad ogni costo. Oltre la smania di aver tutto sotto controllo.

Poi, come in tutte le storie - come in ogni poesia -, c’è l’emozione: quel sentire in fondo che è tutto lì, dietro un endecasillabo o una parola, la sillaba tronca che ti lascia col fiato a metà, quel punto inatteso dove l’inchiostro poi muore. Suoni e rumori di un’anima – o mille -, che a raccontarla a voce avrebbe un senso diverso. Son le storie, dietro quei ritagli di carta, a far la differenza. E son strane, dio se son strane. Quella loro persuasione che è inganno il più delle volte e illusione nel migliore dei casi. Quel loro incastrarsi perfettamente l’una all’altra senza alcuna linea di confine, e modellarsi, come pezzi di un puzzle, per dar vita ad un’immagine unica. 

Poi c’è la paura. C’è il punto di vista. La voglia di andare avanti e la possibilità di godere dell’oggi. La difficoltà nel capire con chi si ha a che fare. Il timore di lasciarsi guidare. Il confondere l’inizio e la fine, e poi ancora la fine con l’inizio. Annoiarsi nel mezzo del racconto, perdere il filo di ciò che provi e cercarlo, ostinatamente, senza nessuna garanzia di ritrovarlo. Il timore di riaprire ferite già rimarginate. Il fiato a metà. Inchiostro, su carta e dagli occhi. Sorrisi. La persuasione. Pezzi diversi di unico puzzle. Confondere altre storie con la propria, provare continuamente a guardarsi con gli occhi dell'altro, strappare pagine e pagine e poi domandarsi il perché. La paura. La  p a u r a


Ma questa è un'altra storia.
Ed è la mia storia.



«Forse dovresti scrivere.» 
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?» 
«Immergerti nella vita vera.» 
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.»
Philip Roth, Il professore di desiderio.


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