martedì 28 febbraio 2012

E luci color corallo (a ricordarmi il mare)





Asfalto e vernice. E luci color corallo a ricordarmi il mare. E passi lunghi per raggiungerti. Tu che sei di ogni movimento il ritmo e di ogni dubbio soluzione. Passi lenti che non so gestire, forse intenti solo a scappare. Ma corse brevi mi attenderanno e passi paralleli ai miei mi accompagneranno. E se non saranno i tuoi tu sarai comunque

asfalto e vernice, son ricordi di una notte persa a rincorrerci. Son ricordi flebili eppure insistenti. 
Asfalto e vernice, e luci color corallo a render gioiello un istante. Frammento prezioso di questo camminare, insieme, su un lungomare che non c’è.

Eppure mi dicesti che sarebbe stato bello, una notte qualunque, andare al mare. Mi guardasti sorridere, ché il mare a me ricorda un desiderio antico, spento quando t’ho incontrato. “Il mare a me ricorda un altro”, francamente dissi. Mi ricorda il suo spiegarsi piano sulla riva degli occhi miei. E da quella riva infrangersi su altri scogli, sul volto estraneo di un’altra terra. Il mare, a me, ricorda un sorriso. Poi mi lascia il sapore amaro dell’incompiutezza, ad immaginare ancora l’acqua che accarezza riva e che si ritrae, per la paura di non poter tornare indietro mai.

Ma qui c’è asfalto, un percorso breve da seguire e da riscrivere.
E vernice, inchiostro bianco a rischiarare i giorni.

Mi dicesti che era bello guardarsi negli occhi, e fingere di parlare di letture e asterischi, e scorgere dietro ogni parola un riferimento a noi. Noi che non siamo ancora. Che saremo poi. Che forse non saremo mai.

Corallo, del nuovo mare che pure mi attraversa oggi. Che rende gioiello, opulenza rara, il sogno di poterti avere. Che rende possibilità concreta il pensiero mio di dirti che ti seguirò. Perché, sai, sarebbe bello, ricominciare.

Sarebbe bello, con te, (tornare) a(l) mare.





lunedì 27 febbraio 2012

L'inganno onesto del ritmo





C’era la neve. 

Prima fu un tempo di fiori freschi ad ogni risveglio, e carezze di caffè a dare il buongiorno.
Poi fu un gesto qualunque - carezzarti le braccia in una notte di neve -, fu un gesto inconsapevole –  guardarti mentre con le mani pulivi la giacca -, fu un gesto imbarazzato – abbassare lo sguardo all’unisono per poi tornare a guardarci più grandi -. Il tempo di un minuto ci fece maturi, di scelte, di voglie, di incastri perfetti.
Mi perdonerai, lo farai, se non c’è nitidezza nel ricordo di quando ti incontrai. La memoria in fondo è un vizio, intossica d’apparenza se nutrita solo di immagini. Diventa dipendenza accanita, se registra pure i sentimenti. Mi perdonerai se non ricordo il giorno esatto di quando, per sbaglio, toccasti la spalla mia con la tua. "Scusa", sommessamente dicesti, e svanisti piano.
Con quella dissolvenza che è geniale, nel finale di un film. 

Poi venne il poi. “Sei sicura - mi chiedesti - che nello spazio tuo non ci sia un posto anche per me?” Mi sentii nota, indispensabile e pure squillante, in un pentagramma da riempire. Fummo – per un secondo e immenso – segni complementari a formare un disegno più grande. Melodia o frastuono che differenza avrebbe fatto.
Si bemolle, poi una sola pausa, quattro quarti di suoni, il tempo perfetto, l’inganno onesto del ritmo.

Prima fu un tempo di sole ad ogni nuovo giorno, e di illusioni travestite da realtà.
Poi fu un gesto qualunque, un fiocco di neve, la sincronia dei nostri corpi nell’andarsi incontro, il silenzio scrosciante di due anime che si incontrano, la paura di farsi male, il coraggio di viversi attraverso le parole. Senza toccarsi mai, senza violarsi mai. Senza fiato, senza sosta.
Si bemolle, poi una sola pausa, quattro quarti di suoni, il tempo perfetto, l’inganno onesto del ritmo.

Mi perdonerai se non ricordo le parole, quelle esatte, del giorno in cui ti incontrai. 
Ma, ricordo, c’era la neve.
E quella dissolvenza che è geniale, all’inizio di un film.



M.D.I.


martedì 21 febbraio 2012

Eco, voce





Per ogni ferita –dentro–  uno scritto –intorno-. 


Ma, per scrivere delle nostre partenze, attenderò le giuste – incongruenti, spietate - coincidenze. Lascerò qui tracce di inchiostro, lascerò qui orme chiare, che la strada che porta a noi ti facciano ritrovare – esplorare, toccare - . 
Vedi, tu sei eco, cadenza perfetta, nell’inganno mio dell’apparenza. 
Sei la nota mancante –ancora muta- della mia melodia -ancora assente-.
Sei la eco e il suo ritorno, di un viaggio che dura il tempo di un riscatto.
Sei oggi l'eco della voce mia, quando arranca sull’ultima sillaba e si spezza, catturata dal suono muto dell’incertezza.
Ma, per scrivere delle nostre partenze, attenderò –dei venti- le giuste coincidenze. Quando potrò, attraverso i tuoi occhi, raccontare cosa sono io. 
Io. A mia volta, eco - e voce - della voce - e dell'eco - tua.


Poi, solo poi,
per ogni tuo bacio –intenso- sarà un nuovo verso.

mercoledì 15 febbraio 2012

Inchiostro (delle banalità)





Si accartocciavano nella gola frammenti di parole. Come un singhiozzare che cerca respiro. Come una penna, quando l’inchiostro è quasi finito, a spremere fino all’ultima goccia quello che ancora ha dentro. Come le mani che la impugnano, incerte ad ogni parola. La voce mia pure tremava. Negli occhi, migliaia di immagini – tue e mie e del tuo e del mio viso - diventavano colori riflessi. Vortici astratti a dare nuova tonalità alle pupille. "Hai occhi nuovi", ti dissi. 
Lì, dentro i tuoi occhi, l’immagine mia si stringeva, a ricavarsi uno spazio tra ciò che tu allora vedevi. 
- Vortici fitti. Sentirli ancora nello stomaco, provare a fermarli, sentirli più forti. –

Potessi ricordare i tempi verbali di ogni tua frase, riuscissi anche solo ad intuirli – ricordando i tuoi gesti o il tono della tua voce -, potessi ricordarli, sgranando la fotografia che ho di te dentro i miei occhi, accetterei forse la fine di un discorso che mai utilizzò il futuro. 
Il suono violento della grandine. Non ricordo che questo. Si scagliava contro le finestre, forte, pesante, poi ancora più forte. Ma era leggera la sensazione che provavo, come a dire che fa se fuori c’è tormenta. Io vedo soli ad ogni andare, se nella mano ho la mano sua. Ho carezze dentro un pugno – pensavo - e singhiozzi chiusi nel torace, a premere ancora forte, a ricordarmi che, prima di tutto, ciò che ho dentro, il mio inchiostro, è emozione.

Riuscissi a ricordarli, quei maledetti tempi verbali, riuscissi anche solo a immaginarli dietro questo giorno che ora è già passato, comprenderei la fine di un discorso che mai ebbe futuro. Ché mai ci dicemmo “andremo”, mai ci dicemmo “noi saremo”.
Avrò io occhi nuovi, quando sarà tenue e ormai assopito il ricordo di quando mi dicesti – con i gesti, senza tempi verbali e col silenzio – che era bello essere qui.

Qui dentro.
Dentro i miei occhi.
Dentro il mio inchiostro.

domenica 12 febbraio 2012

Journal (il post che si autodistruggerà)



Dalle pagine scritte per raccontarmi me stessa un domani.
La voce narrante è la mia. La protagonista, stavolta, ha il nome mio.

17.11.2011
Capitolo I. Ferma al capitolo I da qualche mese. Certo, non tutto è come avrei voluto. Certo, non tutto ha preso la piega che desideravo, o che credevo di desiderare. Ma ci sono. Con me stessa, con gli altri, con la vita. Ci sono. I momenti da vivere (forse domani, forse poi) non sono illusioni, son diventati tentativi. Mi butto. Scelgo un burrone altissimo ma non per questo il più rischioso. Ci provo. Sorrido. E’ che c’è da fare, da vedere, da toccare, intorno. Di aspettative in realtà non ne ho, di desideri sì. Sebbene si siano spenti, in qualche modo tornano vivi. Lo fanno quando mi distraggo a pensare ad altro. [...]
In realtà, è un periodo per me. Per riconoscermi e costruirmi. Per guardarmi e guardare. E perché no, per viaggiare.
Capitolo I, “chi sono”.
Sfondo bianco, penna blu. 
Si ricomincia.

[…]

12.02.2012
Da qualche giorno la neve prova a rischiarare i giorni, che di per sé sono incolori. Mesi densi son trascorsi, corse brevi che non hanno visto traguardo. Tra gli sguardi c'è uno sguardo nuovo, e il suo sorriso. La verità, la mia verità, è che adoro quegli occhi.
Gli occhi che mi guardavano prima ci sono ancora, meno frequenti, meno attenti, dopo aver tentato di allontanarli. Ha bei mondi dentro, che io non sono riuscita che a intravedere, ché non m'è stato consentito l'accesso. Ha bei mondi dentro, ma una lastra di vetro – sottile e già crepata, quindi tagliente – a custodirli. Mi fa rabbia. Ora un po’ meno sì, perché, per la prima volta, per pochi secondi, ho sentito di non voler oltrepassare quella lastra. Per la prima volta. [...]
Io. Io non so dove sono. A che punto della mia vita, cioè. Se muoverò veramente io le fila, prima o poi. Non so quando. Non so se. So che ho desideri, lontani forse troppo, forse invece solo un battito di ciglia. 
Oggi c’è il sole: cielo blu, basse temperature. Oggi c’è il sole e domani molto tempo per pensare. Nel frattempo, in questo tempo che non conto ormai da molto, provo a fare i conti con me stessa.
CAPITOLO III, "attesa". 
Altro burrone, altro tentativo.
Sorrido e prendo l’ennesimo foglio bianco. 
Da riempire ancora.



Muta tutto. 
E tutto è ancora fermo a ieri.

domenica 5 febbraio 2012

Dal mio dentro e da così lontano


All’alba di un giorno qualunque, nei riflessi sformati dalle serrande, in quei piccoli tunnel di luce che la mattina regala, raccontasti di te:

“Io da qualche tempo sono in una città straniera. Il nucleo è quello, anche dopo aver spazzolato ben bene la pelle con setole di ferro. Sapevo, sapevo già. Dal mio dentro e da così lontano. Spesso la lontananza rende al bacio: è un buon metro di misurazione di archi, colonne e basamenti di marmo e di lembi di mare da cui siamo giunti per sognare. E, tutto ciò che attraversa il cuore e la mente. La lontananza smacchia la pelle, ci rende quasi trasparenti. Certo, non tutta la polvere depositata sui vestiti va via, qualcosa rimane nei posti più difficili da raggiungere. C'è sempre quel tratto di andata e ritorno di mattina, nel buio col sole freddo. Quante volte sei andata e poi ancora ritornata? Forse un milione, ma no, non si contano più. Eppure sembrava sempre l'ultimo, il definitivo, il tratto che chiudeva il tutto.”

Tante volte son partita. Con lo scudo dell’indifferenza pronto a proteggermi. Ed ho sentito gente e sogni di altri incanalarsi nelle vene. Ho visto albe tramontare dentro i miei occhi e giorni monchi aggrapparsi all’orizzonte per paura di affogare. Giorni tesi e stretti al ventre del mare da fili sottili, che sempre riconducevano a casa. Ché il ventre è come casa, luogo di natura originaria che ti fa figlia, poi madre. Che ti fa padre. Anche solo di emozioni.
Sapevo già. La lontananza estirpa il silenzio. Se non con le parole lei non vive, diviene assenza.

E, all’alba dello stesso giorno, in quei riflessi che sembrano oro a regalarti il giorno come un dono prezioso, mi raccontasti di me:

“Tu, fermaglio parossistico a forma di rosa. Tu, stillicidio di gocce in tumulto, mischiate a sensualità, bramosia ed erotismo allo stato puro, come le cime sommerse o il freddo assordante. Tali misture organiche e sognanti, null'altro che componenti retrattili dei tuoi occhi fendenti lo scuro, sul tappeto del campo di battaglia sempre desolato e occupato da sentimenti appesi. E tu, tu, a tu per tu con la paura. Una furia in agguato. Un martello pesante pronto a colpirti. Una jena inesorabile, ascella di guerra. Lei, la paura, respiro fertile, trangugiato, annichilito, ma sempre pronta e scattante, tra i cieli a ganasce, il firmamento, le terre e i mondi di lune attese a come i mulini a vento di don Qujote. Lei che t'incatena e tu che, allieva prediletta, corri tra la razionalità societaria di De Sade e l'irrazionalità fideistoica della religione dell'amore. Ti scomponi attraverso allenamenti quotidiani, notturni e sfibranti, essendo tu, ramo spezzato e corteccia sfregiata e linfa intermittente, fiore appassito e cuore enucleato, di quel petto disseccato ma sanguinolento di anima assetata.”

Tante volte son partita. Tra tutti i miei viaggi, in nessuno riuscii a trovare casa. Di tutti gli occhi che vidi, nessuno sguardo indagò il mio con tanto impeto e tanta attenzione.
Io non mi conosco affatto. E’ per questo che arrossii. Raccontasti di una me che mi è estranea. Arrossii come si arrossisce ad un complimento inaspettato. Mi vidi per la prima volta con gli occhi di un altro. Mi guardai, guardai me stessa, con gli occhi di un'altra. Guardai un’altra con gli occhi miei. 
Tra tutte le tue parole – che sentii premere nel ventre come corpo vivo che cerca ossigeno e lo dona, creatura di clorofilla, natura che è natura per sé stessa  - riconobbi familiare una parola sola: paura. 
Del mio coraggio, che ora inaspettatamente riaffiorava, di guardarmi in faccia.
Del tuo coraggio, che ora inaspettatamente si faceva mio, di guardarmi in faccia:
- “Ho cercato di vedere oltre la finestra con il vetro appannato e le tendine, anche se trasparenti”. -

All’alba di quel giorno, con il sole come uno sguardo a filtrare dalla finestra, dal tuo dentro e da così lontano, non ebbi più paura.



Transit Medina
Eteronima

                                    


Per l’incontro di due penne.
Per Transit, affinché apra un suo blog, 
senza privare il mio dei suoi commenti, 
pregni di vita e ormai necessari.
Per il coraggio da ritrovare.
E pure un po’ per vanità.