martedì 30 aprile 2013

Manhattan di pietra (una volta sola, e per tre volte almeno)







(Dell'illusione che, talvolta, 
forse solo per illusione, è realtà)

La notte scendeva celere, coi suoi intagli di rame e d’oro. Occhi sospesi nel buio a cercar nuovi colori, nuove voci, nuovi baci da illuminare. Se fosse un solo giorno, pensavo, se fosse anche solo per un giorno, questo cercarsi con le mani e trovarsi in uno sguardo, questo camminare insieme e a passi unisonanti – e respirare, di notte, con stesso ritmo e stessa intensità -, questo non capirsi solo perché ancora non ci si è detti tutto, lo rifarei comunque: perdermi - cercarmi, non trovarmi, ostinarmi – dentro l’ira facile della paura di perdere, e perdere te; cercarti, cercarti in ogni dove e in ogni momento, quasi senza accorgermene – negli anni in cui non c’eri e in quelli in cui sembrava solo non ci fossi -, come un riflesso incondizionato, e, in un momento, accorgermi di averti sempre avuto.

Stemmi e retaggi di civiltà passate, sullo sfondo una Manhattan di pietra. Un colpo d’occhio attento su quello che è stato e a quello che è. Poi le mani. Ho fame, ti porto a mangiare. Hai freddo? Eri completamente scoperta stanotte, ti ho rimboccato le coperte e carezzato fino a riaddormentarmi. Prendersi in giro. Tornare a baciarsi. Avere come la sensazione, però, di non aver detto tutto.

La notte scendeva celere, un telo cobalto sui tuoi occhi cerulei. Fu un lampo improvviso – guardarti e non saper dirti altro, spiegarti sapendo di non riuscire a spiegarmi, convincerti a capirmi e capirti – e furono ritorni di eco passate: la storia ci insegna, pensavo, a non dimenticare mai chi siamo. Della mia origine tu sei specchio. Del mio domani spettro. Scoprire il freddo quando non ci sei, e rivestire i sogni di maglie di speranza, e tenerli al caldo per te.

Poi la chiarezza necessaria per dirti – di notte – che ancora non ci siamo detti tutto. 

E quel tutto dirselo d’un fiato – col fiato spezzato -, tremando – e il cuore mio ancora trema – e urlandolo -  tenendo a bada la voce – e strappando fuori dal petto un “non sai da quanto ti aspetto”. Registrare le tue parole come un nastro nella mente e non saper fingere – e non voler fingere – di non provar lo stesso. E quel tutto sentirlo premere sotto gli occhi, e poi scorrere, lento, prima sul viso, poi, veloce – come un brivido caldo- lungo tutta la schiena. E dirselo una volta sola – e per tre volte almeno -, e non saperlo raccontare, e non saperlo spiegare, e non volerlo dimenticare. Quella melodia di istinti vinti e libertà godute, quel sapersi riconoscere - oltre le circostanze della vita e le coincidenze del passato, alle quali io dico addio -, quel dirsi in due parole che si è qui per l’altro.

Quel dirsi strenuo, strozzato e liberato che sei amore, a m o r e  m i o.

"Amor, s'io posso uscir de' tuoi artigli, appena creder 
posso che alcun altro uncin più mai mi pigli."
Boccaccio 





lunedì 22 aprile 2013

Maggio (carezza di madre)





Maggio e i suoi odori si intravedono dallo spioncino, facce assonnate e dai lineamenti eleganti, appena svegliate dal letargo d’inverno. Maggio e i suoi colori mi ricordano l’infanzia, il rossetto di mia madre ad imbrattare il mio volto, i passatempi che bastava una corda – fatta solo di corda – ed il gioco era fatto. Ed il sorriso era esatto. La taglia giusta, l’espressione calzante, il riso eloquente di quando il danno, invece, non è ancora fatto. Maggio e calze velate, l’invito a spogliarsi del sole, la mattina che accarezza le gote come una mamma prima di scuola. E sì, sembra suonare il campanello, Maggio, e chiedere il permesso di entrare. A risvegliare i ricordi. A risvegliare le speranze, ancora intatte, di un domani inimmaginato. Prego, che entri e mi invada, Maggio, con le sue carezze di madre. Che faccia del mio corpo quel che vuole, e dei miei sensi cavie sulle quali sperimentare.

Maggio e la sua luce mi ricordano l’odore dei fiori in giardino, appena sbocciati, affamati di vita. Mi ricordano i viaggi e le passioni, ancora lievi, di qualche anno fa. Le mete non ancora raggiunte, le ossessioni alle quali ancora non so dare nome, le mancanze – quelle pure – che si riempiono di presenze. Ed è tardi, Maggio, per farne un resoconto, una chiusura di bilancio che non quadra, ché qualcosa è annegato nei temporali d’Aprile. Ma è a Maggio, solo a Maggio, che l’essenza di me si risveglia. E si ritrova, intatta, al di qua della porta. A scegliere cosa far entrare e cosa lasciar fuori. A combattere contro i miei stessi errori. Di distrazione. O di valutazione. 

È Maggio, con le sue carezze di madre, a raccontarmi quello che c’è.
E c’è un volto, al di là della porta – una faccia assonnata ma dai lineamenti eleganti – che odora di vita. 

(Ed io un fiore, appena (ri)sbocciato, affamato, ostinatamente affamato di vita).






«Io vedo ciò che ho di fronte, -disse Jinny. - Questa sciarpa a pallini colore del vino. Il bicchiere. Il vasetto della mostarda. Il fiore. Mi piace quel che si tocca, si assaggia. Mi piace la pioggia quando diventa neve e si fa palpabile. Ed essendo impulsiva e più coraggiosa di voi, non tempero, perché non mi scotti, la bellezza con la grettezza. La ingoio tutta intera». 
Virginia Woolf, “Le onde”

lunedì 15 aprile 2013

Il senso del grigio




Ricominciammo ad intuire i pensieri. C’è inconsapevole telepatia – un sentire l’altro e nell’altro più forte -, quando ai silenzi non si dà ancora voce. Iniziammo a saperci completi, senza soffrire dell’altro alcun senso e dissenso, patimmo a metà i crucci dell’altro, scoprendo che è bello soffrire se in due. La voce si ruppe sull’unica frase che non avremmo mai detto, il bicchiere sul tavolo come sudato, quasi a mostrar lo stesso imbarazzo che noi due, al contrario, celammo. E' bello, pensai, scoprirti realtà. 

Il grigio ti dona, a te piace, il grigio?

Pensai alla cenere, alla polvere, al cielo d’autunno, allo smog della città. Pensai ai capelli di mia madre tra qualche anno, a quelli di mio padre, quelli che avrebbe avuto tra qualche anno. Pensai al fatto che il grigio non è che un nero a metà.

No, non è un colore che amo. Forse lo amo a metà.

Di nero ero vestita, di nero mi spogliasti. Vesti come foglie in autunno, colori scuri a modellare i fianchi. Il nero, pensai, sì che lo amo, nella sua totalità. E permisi alle tue mani di privarmene, come l’età fa con il primo amore, senza indugi e con l’esatta consapevolezza che è giusto – maledettamente giusto – che sia così. Per darmi a te completa, senza riserve e indugi. 

Fu allora che ricominciammo a – o forse coi miei occhi ti chiesi soltanto (di) - intuire i pensieri. Il crepuscolo come un sipario calò su noi due, ché di luce non avemmo bisogno, né di voci, né di suoni. Le mani tremanti ed il cuore che implose, due secondi per piangere di un sorriso, per ridere dell’ennesimo pianto, per guardarti e lacrimare e ridere insieme: un arcobaleno che non vide nessuno all’infuori di noi, che provai nelle vene – le mie sole piene vene -: quando alla goccia il sorriso del sole fa scudo, e a rovescio, come a schernirla, s’esprime. È il cielo che vive, completo. È il corpo che prova, senza riserve e indugi.

E' bello, pensavo, saperci completi.

È  bello, pensavo, scoprirti realtà.

E' bello non sentirmi più a metà.


lunedì 8 aprile 2013

Re-stare davvero (creatura senza passato)



Cos'è stato?

Cosa è stato, – disperato chiese in quel solo minuto che aveva per capire, per sapere, per toccare di nuovo con mano quella sensazione taciuta (ormai da anni e forse mai confessata) – cos’è stato quell’inganno se a carte scoperte il risultato non cambia(?): senza vittoria e senza sconfitta. Solo una resa. Divisa e condivisa. Cosa è stato se non che per un istante le carte erano scoperte e il baro dichiarava il suo inganno? Cos’è stato quel lampo – fulmineo, avvertimento o minaccia, che vuoi che ne sappia – che vide fuggire – come un cane randagio – il nostro cuore intero e unico, in brandelli e ricucito e poi di nuovo in pezzi? Cos’è stato di due fiati affannati nella corsa dei giorni, due fiati per voce sola, quattro quarti di suoni - il traguardo fu forse l’epilogo(?) - ?

Ci sono per caso altri modi per raccontare il non detto, se non nelle movenze, nei respiri, nelle parole spezzate e che a stento ricordo? C’è forse un modo, un tecnicismo diverso da quest’anafora – ridondante, maldestra, carnale - per dirti tante volte che fu uno sbaglio, tante quante volte sbagliammo?

Cos’è stato mentire, ritagliare volti soli nella folla delle fotografie, smorzare le luci, rinvigorire i colori, poi prenderle e gettarle al fuoco come carne viva? E carne viva fu. Della passione arroventata dentro un letto, e voci calde che di nuovo mi scaldano. Cos’è stato aversi se il risultato fu perdersi? Perdemmo, consapevoli dell’errore, come in una mano di poker. E la fortuna ti rese eroe per un giorno, a braccetto con l’illusione di non perderla più. (Ma perdesti il coraggio, mille volte, mille volte perdesti il coraggio).

Cosa è stato, se due minuti soltanto avevamo, e divennero ore incatenate alla spalliera del letto, e non per fingerci scienziati del sesso, ma per raccontarcelo ancora quel nostro mondo a rovescio – e perfetto -, visto come in fotografia, ognuno dalla sua parte del letto. (Non fu che un soffitto a renderci reali, e queste mura macchiate di giorni e di odori. Non fu che un miraggio l’idea di restare, e re-stare davvero).

Fu solo che i polmoni smisero il respiro, fu patire più forte e in sordina, e partire – valigie pronte – lontano da noi. Fu un gesto inconsueto, riempire il tuo bicchiere - e non più dopo il mio -, a farmi guardare alla goccia – alla minuzia - che avrebbe fatto traboccare il cristallo – che per anni raggirammo -. Fu solo un destino, ancorato ad ipotesi mistiche e realistiche di quanto il tempo cambi le emozioni, e quanto ci modelli, in relazione a nuovi venti e nuove idee. Fosti solo un viaggio, l’itinerario vario e avventuroso che mi ha portata qui. Fosti ali e sudore, e immaginazione. Fu il gioco più giusto, la cornice perfetta, l’emozione provata, la scia del mio viaggio fin qui - creatura senza passato -, a stringere la mano - e forte - a chi davvero è restato.

Così è stato.