martedì 31 maggio 2011

Dello stesso, identico colore






►Moon river, Amalia Grè


Eravamo lungo il fiume, acque serene e riflessi accecanti, a dirci che poi, a dirci che noi.
Ambra e patchouli, t’ho detto, sento.
Tra il naso e la bocca. Il tuo naso e la mia bocca.
Quel profumo, dalle note del sapor della tua pelle, l’avevo messo sulla mia. Un bagno di fiori, una carezza cicatrizzante, copriva ferite dimenticate da anni. Scordavo persino il mio vizio di dare un colore alle cose. Lo ricordavi tu, sorridendo: gli odori non hanno colore.


E non hanno avuto colore i dieci giorni a casa. Invisibile per chiunque, assente anche per me stessa. Ma l’assenza, te l’ho detto anche davanti al fiume, non è altro che l’immagine imperfetta della perfezione della presenza. E se avesse un colore, sarebbe nera.


E pensavo a quando mi dicesti vediamo un film in bianco e nero? E perché non riprendiamo mai in bianco e nero? Avevi ragione. Girare in bianco e nero quei momenti, tenerli stretti dentro gli occhi, sarebbe stato più semplice. Girarci, noi, tra il bianco e il nero, sarebbe stato l’ideale. I miei capelli e le tue pupille dello stesso, identico colore. Anche i momenti sarebbero stati tutti uguali, e le sequenze ad imitazione delle precedenti. Senza poi, senza mai.


Fossero stati quelli i giorni voluti, di mancanza e di assenza, fossero stati quelli i momenti scelti, di lontananza e noia, non tornerei oggi a toccar quell’acqua e quel verde. E fossero state le tue quelle mani tese ad abbracciarmi, fosse stata la tua voce a chiedermi cosa succede, ti avrei afferrato forte, ti avrei stretto ancora.


Ma ora non dirmi che poi, non dirmi che noi, non dirlo mai più.


Vedi, anche il poi ed il mai, in bianco e nero, sono dello stesso, identico colore.





 





►Foto: scala piana, Eteronima   


 


Gli odori, invece, ne contengono a milioni   .




 Gli

giovedì 26 maggio 2011

L'oceano verde





Foto: effeacca, Eteronima



Poi mi raccontasti una storia.
E mi dicesti la realtà può esser così. E mi dicesti affrettati, ché il tempo è tiranno, passa e non bussa alla porta, passa e non chiede permesso.
Dedicai alle tue parole ore scapigliate, di quelle che pettinarsi è cosa del giorno dopo, di quelle che son fatte di sostanza.
Ma i nodi tra i capelli tu li vedevi, e li scioglievi col dito.
Ma le ore incastrate nella serratura tu le prendevi.
Accarezzale, questo dicevi. Come a prendersene cura, io che le gusto e poi le abbandono.



Sentivo la pioggia. Sentivi la pioggia.
E poi mi dicesti chissà, dico chissà, come sarebbe fotografare la pioggia.
Mi dicesti chissà, dico chissà, come sarebbe immortalarla senza il cielo a far da sfondo, senza case e rumori in sottofondo.
Dedicai a quelle gocce ore intrise di umidità. Che sembra debba scoppiare il giorno, tant’è la foga, tant’è l’apnea di quei momenti. E che ti fa soffrire il caldo, che ti fa rimpiangere il sole. Che ti fa spogliare delle vesti calde e ti concede solo il cotone. Fresco di quei fiori sul vestito che mi regalasti.



Poi te ne raccontai una io.
E ti dissi la realtà è così. E ti dissi non avere fretta, ché nel tempo c’è tempo. E se non bussa pazienza, e se non bussa non entrerà.
E vidi cerchi e vortici, e turbinii e buchi effimeri, nell’inconsistenza di una pozza.
Ma sotto quell’acqua io vidi la terra.
Ma dentro i tuoi occhi io mi guardai. Riflesso del riflesso di luce. Specchio inconsistente come quella pozza.
E dentro un C’era una volta io mi gettai.
E nell’afa di una giornata piovosa io respirai.



Poi mi raccontasti una storia.
Una storia che faceva così:







►Oceano, De Andrè


"..se ci tieni tanto" dico "se ci tieni tanto,
puoi baciarmi ogni volta che vuoi
."


"..Vorrei sapere quanto è grande il verde,
come è bello il mare, quanto dura una stanza.."

sabato 21 maggio 2011

Di clessidre, musica e speranze






►Every, Marlango


Ho rovesciato la clessidra e la sabbia ha disegnato forme astratte e cumuli beige. Intrappolati in pareti di vetro che sbattono la porta in faccia all’ossigeno.
Nelle cuffie trema forte una canzone, nel mio tempo corre forte il susseguirsi dei miei giorni. Nella gente, ieri sera, la voglia di svincolarsi dalle storpiature del presente. Goffo e sordo, questo oggi che non tramonta e non ascolta mai. Ho speranze accartocciate come fogli da gettare, ma custodite nel cassetto. Ho ambizioni e obiettivi, assonnati ma tenaci. E ho sorrisi.


Il tempo scorre e io mi guardo. Mi vedo nelle tracce lasciate sull’agenda rossa, quella che sa di me più di me, a illudersi di riassumere una vita in mille fogli o poco più. Pensare che a volte ho la tentazione di riscriverle. Come se si potesse cambiare il tempo. Come se si potesse cambiare.
Ma il passato è. Il passato sei. Anche quello che, ora, è solo un senso di colpa. Anche quello che, ora, è solo una mancanza.



Ho rovesciato la clessidra due minuti fa. E immaginavo che, in fondo, quel domani di cui ho paura è nelle mie mani. Pensavo che non mi conosco, pensavo che, per la prima volta dopo molto tempo, mi son voluta bene.
E che una canzone non è mai abbastanza, se lo spazio di un pentagramma è troppo poco per esprimere ciò che senti. Se la chiave dei tuoi discorsi c’è, è da qualche parte, ma non è quella di violino.
Una canzone è troppo poco, quando non è un muro a separarci, ma chilometri di assenza e di doveri.
Una canzone non è niente, quando guardo la tua foto e percorro con il dito i contorni del tuo viso, quando guardo nel cassetto e riscrivo le speranze. Una ad una, con la biro di sempre. E la musica, d’un tratto, diventa silenzio.



Ho rovesciato la clessidra e c’ho visto dentro me, piccola quanto basta per starci e non soffocare, a cercare, tra la sabbia, il senso dei pensieri miei.
A cercare
me.

mercoledì 18 maggio 2011

Terra e grano


►Je suis venue te dire que je m'en vais, Carmen Consoli


Poi che mi piace il francese lo sai. Forse è la prima cosa che t’ho detto.
Che ho vissuto Parigi quanto basta per decidere di tornarci, quando e se avrò le tasche e gli occhi abbastanza pieni per farlo. Che mi piacciono quei fonemi lì, morbidi come fossero curve di una donna, e da non toccare, da sentire, da avvertire, da tenere in equilibrio tra la lingua e il palato. E quell’ultima consonante, grafema e simbolo del superfluo, non la cancellerei. La lascerei lì, a nascondersi dietro le altre, come biglietto da visita di un luogo mai visto, da conoscere senza essere svelato mai. E poi Parigi mi fa pensare alla tua erre.


Poi che mi piace la Consoli lo sai, forse è la prima cosa che t’ho detto.
Che ho scritto un libro con le sue canzoni a far da sottofondo. Un libro da bambine che si credono donne, con vortici e stelle a far da copertina. Un libro che non sa parlare. Ma che ha parlato. E ne ha dette di cose. Come quelle donne che si credono bambine e che si sentono in diritto di dire qualunque cosa.


Poi che adoro Pessoa lo sai.
Che mi piace leggerlo con la luce soffusa, quando non è materia d’esame e fuori piove. Piove piano. Che adoro inventare. Che mi piace mettere le persone alla prova. Che le mastico, le parole degli altri, per comprenderle bene.


E sai anche che impazzisco per Campana e la Aleramo. Quando dico passione. Quando le finzioni non t’appartengono sei un folle, perché puoi fare e dire ciò che vuoi, tanto sei un folle. E che coraggio ad andare incontro a quegli occhi gonfi di pazzia. E che coraggio e che paura a non abbandonarli mai. Li ho sentiti nelle ossa e ancora sulla pelle.

Poi sai che mi piace il buon vino, è la prima cosa che t’ho detto.
Che potrei bere un bicchiere di bianco, immaginandomi dentro un Modigliani. Quanto vive. Respira forte ancora. Lo senti anche tu.


Quello che non sai è che la mia città di notte ha luci arancio e profumi di terra e grano. Quello che non sai è che chiudo spesso gli occhi quando ho freddo. Quello che non sai è che ho una febbre che dura da una vita, della voglia di prenderli a morsi questi giorni, uno ad uno. Non sai che combatto da anni con lo stesso mostro e che l’arma che ho scelto è il sorriso. Peccato non riesca sempre a vincere.
Non sai che guardo spesso le fotografie.
Non sai che rifarei uno per uno tutti i miei viaggi.

E poi non sai che io non dimentico mai.


"sono venuto a dirti che vado via, ma tu vieni con me"
questa è la prima cosa che tu hai detto a me.

lunedì 16 maggio 2011

(Di) Affinità elettive





"Balzava nella barca e remava fino in mezzo al lago, poi tirava fuori un libro di viaggi, si lasciava cullare dal moto delle onde,leggeva, si sognava lontana, in luoghi stranieri dove sempre trovava l'amico suo, al cui cuore ella era pur sempre rimasta vicina, com'egli al suo."

Goethe

 





►Foto: (di) affinità elettive, Eteronima


Goethe G ""    

sabato 14 maggio 2011

Solo polvere



►Glow worms, Vashti Bunyan



Svegliarmi in piena notte e trovare delle risposte. Stese lì, sul cuscino, ad un palmo dalle ciglia. Intrecciate alla federa verde, la stessa che ha visto mille notti aggrovigliarsi intorno ai piedi del letto. Ammanettate. Prigioniere di questa stanza e di quest’aria. Trecce e tracce di emozioni diventate ormai grovigli di serpenti.


Affacciarmi alla finestra e trovarci la mia vita dipinta ad acquerello. Tinte sgargianti e vuoti d’ombra. Le fonti di luce, quelle lì, sono andate via da un pezzo. Quanto basta per trovarne di nuove, mai corrotte, mai interrotte. 


Svegliarmi in piena notte e trovare le risposte. Le domande, ormai da tempo, le avevo gettate sotto il letto.
Farmi una doccia per rigenerarlo, questo corpo che ha bisogno di nuova pelle. E vedere, nella trasparenza di quelle gocce, il senso di. Di quello che ho. Dei desideri, quelli trascinati lungo strade che nemmeno ho mai esplorato. Di sensazioni scure, di catrame e cenere, come fossero sporche, come fossero solo quello che resta di. Polvere, solo polvere.



Studiare metodi per deglutire bene con questo groppo alla gola che spezza le parole. Che le frantuma. Si, in fondo non sono che particelle di un corpo più grande, inespresso, rinchiuso. Ma un linguaggio vale la pena conoscerlo, qualunque sia la sorgente, qualunque sia l’orecchio, se il gergo parlato è quello di dentro.


Svegliarmi e prendere una decisione, finalmente.
Di ripulire la stanza. Di scacciare quei serpenti. Scegliere. Pretendere



Rendermi conto di rincorrere un’illusione. Io. Io. Io che non corro neanche davanti alla paura. Io che, solitamente, mi stendo lì, sotto il letto, accanto alle domande smesse.


 


"  Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra,
talvolta vediamo la vita nell’aria.
E la chiamiamo polvere."


Stefano Benni

giovedì 12 maggio 2011

You chose your journey





►Winter Lady, Leonard Cohen



Ti ho visto su un treno, stamattina, mentre camminavo verso casa.
Ti immaginavo sfogliare un libro di un secolo passato, che so, uno che racconta di storie perdute e di scommesse che sarebbe stato meglio non fare, di vestiti pacchiani e acconciature pompose. Uno di quelli scritti con lacrime e sangue, che la mattina dopo ti sembra di aver vissuto. Uno di quelli che racconta anche di te e che vorresti riscrivere, risolvere, concludere. 

Doveva avere un cappello, il protagonista, perché, proprio in quel momento, hai sfiorato i tuoi capelli come ad imitare il gesto del presentarsi.


- Piacere – avresti detto, sollevando il cappello. E avresti sorriso.

Ti ho visto seduto e con lo sguardo attento, a cercare, nel vuoto del sedile davanti, altre pagine da vivere. Nascoste nelle venature delle pupille di qualcuno. Da leggere. Ho sentito persino la tua voce. Ed avrei voluto dirti che non ho sentito mai due corde così dense. Uno strumento a fiato, affannato. Un suono che diventa visibile, che diventa corpo.

Ti immaginavo indossare dei jeans, una camicia e nessun profumo, a parte quello impresso a placcare la pelle. Ed avrei voluto incastrare i miei occhi ai tuoi, sedermi in quel posto vuoto, dirti che nelle pieghe del tempo, negli angoli stretti degli istanti, c’è abbastanza spazio per non avere fretta. E per godere di tutto. Anche quando tutto sembra niente.

Doveva essere sciocca, la protagonista, con i suoi modi da bambina e le sue assurde pretese. Che dagli occhi scendesse allo stomaco, quella sensazione di appartenenza che provava. Mischiare i gruppi sanguigni, come miscela di colori da gettare sui muri della tua stanza. E colorarli bene, senza lasciare traccia di bianco. Con una vernice indelebile a decorare pareti che, ora, scopro fatte di cartapesta.

Ti vedo scendere dal treno, proprio mentre scrivo.

Stazione raggiunta, binario lasciato, treno a ripartire dietro te. Doveva essere ubriaco l’autore del libro, quando ha scritto il finale. Non sa, non l’ha mai saputo, che l’ho riscritto, risolto, concluso in altro modo. 
Che sarò io a salire su quel treno, a riempire quello sguardo e quel sedile.
Anche ora.
Ora che, su quello stesso treno, i posti vuoti sono due.


–Avrò gli occhi bassi – ti avevo detto. Forse solo in un altro libro letto.

mercoledì 11 maggio 2011

Di fare rime a milioni



        







►Far far, Yael Naim


Di fare rime a milioni, combinare pezzi di fiato accantonati nell’angolo della mente, come spezzoni di canzoni che rimangono incastrate dentro te. E che ripassi, quando il tempo sembra quello giusto e i timpani tengono bene l’equilibrio, con il dito a battere forte sul tavolo, a dare un ritmo anche ai tuoi "se". A farti male, se a battere tra le dita è anche l’anello. L’anello.
Chiudo con le nuove strade, quelle da imboccare ancora. Ricordo quelle già percorse, come cartine geografiche di una città che conosci già a memoria. Mi guardo, bambina, scrutare il seno che cresce e le gambe che prendono nuova forma. O la piccola voglia sull’occhio, quella sul braccio, cambiare colore con il finire delle stagioni. Con il tuo sole e la mia neve. La mia cicatrice sul mento, quella sull’altro braccio, segni tardivi che non hai conosciuto.

 

Di fare rime a milioni, combinare sillabe come fossero pezzi di un puzzle di cui non si conosce l’immagine finale, cambiare acconciatura e tornare sempre alla stessa. Colorarli di giallo, questi capelli che erano lunghi e castani. Darmi delle certezze e distruggerle un secondo dopo. Aver voglia di occhi e poi non averne più. Far morire il tuo girasole, mischiando sbadatamente acqua e benzene.
Chiudo con le speranze vane, quelle di non cercare più carne, di voler solo pensieri. E di tenerli stretti. Ricordo quelle nutrite, appagate, risolte. Mi guardo ora, quasi donna, a tentar di definire verità. Come fosse facile trovarne. Come fosse facile, ora, non provare stupore, dinanzi ad una tragedia dal finale comico e inaspettato, appena svelato. Come fosse facile ora non provare stanchezza, dopo aver strofinato la pelle fino a raggiungere le ossa.




E’ che io parto. Ed avrei voluto portare con me almeno un'immagine di te.
E’ che, donna, ancora non lo sono.
E’ che, bambina, avrei voluto, come tutti, esserlo per sempre.











                                                         ►Foto: Due tempi, Eteronima               



  "..Just look at yourself now
deep inside
deeper than you ever dared .."




 


                                                               

martedì 10 maggio 2011

lunedì 9 maggio 2011

Tra la spazzatura e i fiori



►Suzanne, Leonard Cohen 

Ci credi che ogni giorno, alle 19.30 circa, il mio cielo ha i colori della tua finestra?
Come fosse un Monet, ad assemblare la sfrontatezza della natura nei tratti fitti e costanti del motto en plein air. E ci pensi, dico ci pensi, a cosa vuol dire en plein air? Letteralmente. Di averne totale godimento, di farne parte come corpo presente e verde. Mai di carne, di clorofilla.

Ci credi o no? Che l’orologio scandisce i tuoi secondi e i tuoi minuti e persino le tue ore. Vedi, le lancette, come cartelli stradali, ti indicano delle possibilità. Dove correre, dove tenere a bada il respiro, dove fermarsi un po’. Come ad insegnarti la vita, a volte, gli oggetti. E sembra che stiano lì ad osservarti, prendendosi gioco di te.
- Ma dalla stanza, affermai un giorno, non si vede che il mondo di un altro. E tante volte mi dicesti andiamo, altrettante io ti risposi vai. -

Ci credi o no? Che ho gettato in un setaccio le formule magiche e gli scontrini e che faccio ancora a botte con le cravatte e le auto costose. Che non vivo per il pane. Che vorrei fotografare. Ed un telaio, questo vorrei. Come ne I viaggi di quello lì, che il telaio fa da slot-machine, da possibilità e scelta tra i frammenti di un idioma che, sai bene, non è il mio. Che sarebbe bello scegliere per te un domani facendo decidere al caso la giusta faccia del dado. Con il giusto sottotitolo. Dal giusto suono.


Ma tu ci credi? Che a volte vorrei raccontare quello che ho provato. Ed ho provato il sapore pastoso e nauseante del fango nella bocca. E invece da dieci anni il respiro si spezza e la mia penna si blocca sull’ultima immagine, quella più recente. Ci credi o no che l’unica cosa che io so fare, che mi riesce davvero bene e che adoro fare è, maledetta me, stare in silenzio?

E, semmai, farti notare i contorni delle cose. Quelle che ti strappano un sorriso.
Allora? Ci credi o no che, ogni giorno, alle 19.30 circa, il mio cielo ha i colori della tua finestra?


 





  


                                                                                          ►Foto Lag08, Eteronima


"..and she shows you where to look
among the garbage and the flowers .."








►(Odio l') Estate, Amalia Grè


La mano sulla fronte. 

Il dito ad arricciare. 
Lo sguardo fisso sull'ultima ora. 
Diapositive sulla parete. 
Le riviste d'auto. 
Macchine fotografiche da collezione. 
Cappuccino, grazie. 
Un saluto. 
Le tue gambe. 
Nove in letteratura. 
Poi. 
Vento forte sulla faccia. 
Giugno
              Boom. 
                       Il tuo addio. 
                                          L a  m i a  s c h i e n a.


(Dimmi, tornerai mai a rimboccarmi le coperte?)
 

giovedì 5 maggio 2011

Il "senso" dello zucchero di canna



Rincontrarti in un caffè per non sentire il tuo odore, coperto da quello di tazzine fumanti e impazienti di esser svuotate.

Ricordare le tue abitudini, quando commenti la mia mania di bagnare di caffè il bordo della tazzina prima di berlo, o quando mi dici "che senso ha lo zucchero di canna?" e poi scuoti la testa e metti nel tuo neanche mezza bustina di zucchero bianco.


Vivere ancora una volta il tuo sguardo appeso al bancone a specchio, a spiare che scarpe indosso. Se ho deciso finalmente di mettere i tacchi, o continuo ad aver ben saldi i piedi per terra.


Respirare quest’aria di primavera, proprio io che amo l’inverno.
O seguire i tuoi discorsi su tutto quello che c’è da fare e che vorresti fare insieme a me.
Su dove vivere un giorno, se c’è un posto che mi piace, io che viaggio e ritorno e poi prendo un aereo e poi un treno e poi chissà.


Rincontrarti e sentire sulla pelle il tempo che passa, anche quando sali su un treno che ti porterà a chilometri da me. Perché il tempo che passerà sarà molto e la mancanza ancor di più.


Mentirmi nuovamente, quando non ci sei e non metto lo zucchero di canna nel caffè, ché se lo metto è per sentirtelo dire.
Mentirmi quando non piango o quando fingo che il caffè, in fondo, non mi piaccia.
Mentirmi quando compro due orecchini, per fingere che a me non manca niente.
Mentirmi se racconto e avere il coraggio di raccontare di mentirmi.



Rincontrarti sullo stesso binario che ti porterà lontano da me. Per ore, per giorni, per notti.
E, finalmente, dire a me stessa la verità. 
Che quel binario, lungo quanto basta per riempire un’ora, l’abbiamo scelto io e te.
  

E pensare che sei solo dall’altra parte della città.


►Il treno va, Paolo Conte



Grazie alla Tì e alla Cà
per l'immagine sognata
e che io sogno per loro.

mercoledì 4 maggio 2011

Il venditore di possibilità





E’ così che appari. Come la pioggia improvvisa di oggi, che bagnava i miei capelli e non il mio ombrello, lasciato a casa a proteggere progetti e sogni campati in aria. Da scriverci sceneggiature, tu. Io non so se poi è possibile vederseli cadere addosso come quelle gocce, i desideri. Quelli veri. Non so se ci si può liberare davvero di uno di questi soddisfacendolo. E non sono in grado di spiegarle, le emozioni. Quelle che il tempo di un giorno non basta per viverle. Quelle che hanno i denti stretti e i pugni chiusi, a sopprimere il grido di un impeto annientante.

Mi hai detto "lo sa, signorina, che a tutto c’è fine e a tutto si può dare inizio?" con quel velo di speranza che a volte sembra non appartenerti. T’ho detto "bisogna dar valore alle cose" con l’intento di mostrarti quanto io dessi importanza alle tue frasi da venditore quale sei. E non di parole, di case, di viaggi, tu promuovi possibilità. Mosso forse dal principio che l’importante, in ogni affare, è guadagnare. Io non baratto e non compro, io prendo quanto posso. E non fingo di provare, o di dare.

E’ così che ti vedo ora. Come uno spettacolo a tempo determinato, che ha una fine, e a cui si potrebbe dare nuovo inizio. Così naturale da nuotarti dentro e mai cercare approdo. Recitato in ogni espressione, a volte. Stanco ad ogni passo, poi. 
Come fossi una sinfonia, tu. Ed io non fossi che il tuo LA.

Tu.

Che sei strumento e nota insieme.




  ►How to play the sound of rain