mercoledì 30 marzo 2011

Inchiostro blu



Il sonno a quest'ora latita, dovrei esserne consapevole già da tempo.
Penso poco, forse perché ciò che c'era da pensare ha cambiato forma, forse perché è arrivata la primavera e, insieme all'orario, alla temperatura e ai vestiti, son cambiati anche i pensieri. Ho le stesse certezze che avevo prima di Natale, sebbene in quel giorno io abbia scartato regali sorprendenti e di un valore non quantificabile, che avrebbero potuto stravolgere il senso di tutto.

Muta qualcosa in me e non so neanche cosa.
E non sono me in alcuni momenti, non mi racconto, incespico sui miei timori come una bimba al suo primo giorno di scuola, senza trovare al di fuori stimoli validi affinché io possa dire. Dire davvero.
È che ho provato una sensazione nuova, ultimamente. Una di quelle sensazioni che ti fanno riflettere. Cosa sei, cosa stai facendo, cosa stai provando, dove ti porterà questa strada dissestata che stai percorrendo faticosamente da anni, se ci sarà un arrivo, quale sarà il meritato premio. Una di quelle sensazioni che sai già che potrebbero valere niente e non ripresentarsi quando vorrai goderne nuovamente. Una sensazione andata via.

È che ho collezionato per anni frasi e foto e botte al cuore, di quelle forti e tormentate da passare la notte a gridarle al cielo. Ho seguito sempre quella bestia che si chiama istinto, talmente tanto da non poterne più.
È che qualcuno conserva ancora le mie urla in un cassetto e le protegge.
È che sono un'egoista, un'egoista viziata. Adoro esser viziata.
Il problema è che ho una macchia di inchiostro indelebile sulla mano, proprio quella che uso per scrivere, e l'inchiostro non è il mio. È blu.
Muta qualcosa in me e non so neanche cosa.


E pensare che eri/o ad un passo da.




 ►Mulini a vento, Carmen Consoli



Greed, Vezzoli

Odori nuovi.

Dell'inesistente.

lunedì 28 marzo 2011

Ti chiederò di pettinare i miei capelli



Usavamo le casse come cuffie di una eco a raggio chilometrico. A rotolarsi negli occhi di una, le pupille dell’altra.

Io e te sappiamo quel che basta per conoscersi, e così ci siamo avvicinate, scoprendo di conoscerci già. Oltre le parole, le canzoni, o le telefonate che solitamente ci si fa, oltre i graffi sulla pelle, sorprendendoci a leccare le stesse ferite, rosse come il mio proposito, quello di tingerli prugna, i miei capelli. Li ho tagliati, sai? E non ho nessuna treccia da conservare, eccetto quella di dodici anni fa, quella che custodiscono gelosamente tutte le bambine. Non li ho tinti di rosso, ho preferito il biondo, ho preferito darmi nuova luce. Avrei scritto di lui, stasera. Invece scrivo di te, di quando te ne ho parlato la prima volta, senza nessun imbarazzo, senza nessuna lacrima inopportuna, col sorriso di chi ha preso coscienza di qualcosa e ci convive, in qualche modo lo combatte, in alcuni momenti ne fa addirittura la propria forza. Te ne ho parlato con la libertà di chi sa che le sue parole saranno custodite e accudite e, in qualche modo, fatte valere. Le ho viste entrarti negli occhi, le ho viste soffiare sulle tue ciglia, le ho viste poggiarsi sulla curva del mento, quasi volessero uscire dalla tua bocca. Le stesse.
In qualche modo, tu mi capisci. Così come comprendi perfettamente quanto sia dura per me ammetterlo. Io, fiera e gelosa, che quello che è mio è mio, pure i tormenti. Così come sai che conservo la mia treccia perché la rivorrei, per avere l’illusione di rivivere quei giorni, per avere un’unica, dannata, maledetta possibilità di godere di un sorriso che non ricordo neanche più. E che mi basterebbe il tempo di scioglierla, la treccia, magari di rifarla. Sarebbe abbastanza.

Usavamo le cuffie come casse di una eco a raggio chilometrico. A raccontarsi, in segreto, delle braccia tese e dei vestiti da cercare.

A stringersi le mani. Hai colorato un inverno in bianco e nero, ne hai disegnati ormai a decine nella mia vita. M’hai stretta a te in quel giorno che ti aspettava, che io, cosciente, aspettavo, che tu non t’aspettavi. M’hai stretta a te in un momento che avevo già vissuto, che tentavo di cancellare, che, rabbiosa, provavo ad annientare. Sei riuscita a ricordarmelo con la delicatezza di chi non ti procurerà mai altro dolore. L’hai come intrappolato. Tu ci sei riuscita. In un modo o nell’altro, quella mia forza di cui parli, io l’ho avuta da te.
Ho vinto qualche paura, in questo tempo. Ne ho collezionate di nuove.
Ho superato qualche ostacolo, qualcuno raggirato, altri ignorati.

Sono riuscita a parlarne di nuovo, ora. Mi stupisco. E sarai stupita tu, quando leggerai tutto questo.
E quando dormiremo di nuovo insieme, nella stessa cameretta di allora, piena di peluche e fumo e musica, pettinerò i tuoi capelli.
Ti chiederò di pettinare i miei,
ti dirò "fammi una treccia".
Sarà abbastanza.





E hai sentito quegli imbecilli? Ancora a parlar di come uccidersi meglio. Ad avere il coraggio di chiederci. Hai sentito? Che il quoziente intellettivo degli esseri umani non deve essere basso, no no. In tal caso esisterebbe. Mi auguro che si possa essere all’altezza di scelte buone, sempre che qualcuno ci consenta di scegliere. Imbecilli. Rendiamo gloria alla Littizzetto, io di certo non so dire di meglio:




venerdì 25 marzo 2011

Leggilo tu


    



 ►Haruka Nakamura, Harmonie du soir                                                                       




                                                            I


"ehi mi senti. mi senti. sono vivo.
per questo non mi senti. non è il cuore.

è questa carne qui che fa rumore.
come corresse. attesa dal suo arrivo.
intanto nelle tempie. mentre scrivo.
di quanto assordo. assorto nel motore
che sanguina. la vita. col vigore
di sempre. e mio malgrado recidivo.
ma quanta forza. e quanta furia intesse.
questa materia intenta a trattenersi.
che il varco di chi va mai non recide.
e se non senti. è solo perché spersi
il tuo silenzio. in quanto ancora stride
di me vivo di queste vite smesse."


II


"ma adesso lasciami. lasciati andare.
mischia questo sfrizzare al tuo rumore.
lo senti. e come no. pare un motore.
sarà che non hai smesso di ruotare.
e giri. giri intorno a queste tare.
sono le stesse. e meno male. il cuore.
almeno quello astratto. ha il suo rigore.
ritorna sempre lì dove c’è il dare.
il prendere. l’avere. e dove il male
è in uno con il bene. e ti sostiene.
a ritrovare un senso anche alle pene.
quel senso insomma che mi rende uguale.
diciamo. a te. e insieme il tuo rivale.
l’aria che ti mantiene. e le catene."



Gabriele Frasca, da Rive.



Leggilo tu, trattenendo i respiri.
Leggilo tu che sai come dirmi, leggilo tu che.
Leggilo tu e rendilo mio, questo pezzo di vita che ha lo stesso sapore del
sangue. E della carne.

Dammi un frammento di quello che sono e che non conoscevo.
Dammi un suono, un odore, una forma.
Rendi al tempo la mia immagine sbiadita.
Fotografami.
Si, fammi una fotografia,
una di quelle che non hanno orologio, nè trama, nè ricordo.

Fotografami ancora.
in questo luogo che m'ha disegnata e mai dato un colore.

Sceglilo tu.

Leggilo tu.
CCché non è vero 

sabato 19 marzo 2011

Al bignè


Eri seduto sul letto, a scegliere le canzoni giuste per me.
Ero in piedi sul letto, a muovere passi sulla musica scelta da te.
 

Ho visto la tua ombra alle tue spalle, mi sono avvicinata. Il muro ha disegnato anche me, vicino a te.
T'ho detto "guarda" / m'hai detto "vedo".


Lo specchio,stamattina, m'ha raccontato di noi.
Un risveglio avvolgente, la mia pelle impregnata del profumo tuo, la mia bocca a sorridere del tempo che sembra non essere trascorso mai, e fare la doccia per mischiare il tuo odore al mio bagnoschiuma.
Al bignè, precisamente. Pastoso e intenso, una fragranza che si addice perfettamente alla giornata.


Hai pettinato i miei capelli, li hai asciugati, carezzandomi le palpebre ogni volta che i miei occhi si chiudevano. A godere del tuo tatto, morbido e ritmato, sulle note di quella canzone, quella lì. Quella che mi somiglia.



Malika Ayane e Pacifico, Sospesa


Ho visto la tua ombra, mi sono avvicinata.
T'ho detto "guarda"
m'hai detto "vedo"
t'ho detto "vedi solo la mia ombra, non sai quant'è bella la tua"
m'hai detto "non sai cosa ti perdi tu"
t'ho chiesto "cosa?"


"...non sai cosa ti perdi 
a non vederti il viso".



- Un'assenza particolare, oggi. E ogni giorno, da troppo tempo. -

lunedì 14 marzo 2011

Un solo orecchino


Sfoglio le pagine di un libro vecchio, alla ricerca delle tue parole perse, delle corse per darsi uno schiaffo, dei lividi sulle braccia a forza di tenere stretti i polsi, presi dalla sensazione gelida di perdersi. E le nottate a urlarsi contro, le canzoni, i sapori della tua pelle dopo aver sfiorato la mia, la voglia di darsi e consumarsi.
Lo abbiamo fatto, a consumarsi nel freddo che tentavi di scacciare, quando mancavano poche ore alla partenza per un viaggio che, sapevo, non sarebbe mai finito.


- Potresti anche metterne due -
- No, adoro portare un solo orecchino, e solo a sinistra
-

Le frasi si spezzavano così, tagliate da quattro occhi ad incastrarsi. Le mani, quelle mai.


Da lontano m’hai sentita, dopo anni,
e, con la musica che non ascolto, m'hai detto



  Negramaro, L'immenso
 Da lontano t’ho ascoltato e,
con le gambe tremanti a ricordare quel freddo, t’ho letto:

"Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
né mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie trecce snodo."


Sibilla Aleramo  
- Amavo ed amo questa donna, tu lo sai. -




Sfogliavo le pagine di un vecchio libro che inizia col tuo nome.
Il tuo nome che sa di Spagna e di mare e di pioggia col sole, e di me.


Tu, che m’hai chiesto perché sai che adoro le domande.
Tu, che m’hai indagato gli occhi, prima di prendermi la mano.
Tu, che hai fedi di altri mondi, che parli di extraterrestri e di destino.
Tu, che m'hai dato senza fine.

Tu, che hai capito - e mai l’hai detto - cosa vuol dire per me mettere un solo orecchino.



venerdì 11 marzo 2011

Direzione casa mia


Secondo me è la sua pelle a saper di cacao.
Ne ho sentito l'odore mentre facevo la valigia, quando affiancavo ai miei libri il lettore ed un paio di cuffie. Ne ho sentito l'odore anche stanotte, nel mio letto disfatto, tra le parole pronunciate nel sonno.

Quel sonno così breve che non fai in tempo a chiuder gli occhi ed è un secondo e il sole batte sui vetri, frastagliando l'aria in mille particelle, impercettibili e di polvere, leggere e mute, sebbene sappiano tutto.

Quel sonno che a volte ha un nome, altre volte è solo sonno, quel sonno che è sogno e vita insieme, amalgamati mai perfettamente, al punto che puoi fingere - e lo fai - di non saper distinguere l'uno e l'altra.

Ed è un sonno morbido, di carezze e graffi e baci e poi carezze. Ore di finzione, confezionate in un pacco rosso, da scartare a mezzanotte. Per viverle totalmente, nel buio che non riconosci e invece sai. Per toccarle veramente, quelle ore che sanno di niente e di tutto, che si incastrano perfettamente tra le tue abitudini, tra i tuoi ritmi, nelle tue cose, quando vorresti che ciò che è tuo non fosse mai violato.

Quel sonno è così debole che anche uno sbuffo di fumo può interromperlo. Così maledettamente debole che a guardarlo negli occhi, lui che solitamente li tiene chiusi, ti sembra di intuire che tutto ciò che vuole è che tu chiuda i tuoi. Niente di più.

 Probabilmente mi sveglierò, o forse già l'ho fatto.
Intanto prendo un treno, direzione casa mia.




Carmen Consoli, Madre Terra

mercoledì 9 marzo 2011

Sequel


(Per inventare una storia, per darle una trama.) 



Dopo che, Massimo Volume
                                                                                                                                    

Lo immagino ancora.

Nonostante il tono divenuto stridente,
          la mia bocca cucita a coprire un'offesa,
                   la tua voce incisa da una nota graffiata,
                                le mie mani a tenerti la faccia,
                                       la paura a riscoprirsi intatta e bastarda,

                                       Nonostante i desideri che provo a celare,
                               le carezze sospese sulle dita contratte,
                   l'orgoglio che sfida, seduto qui sulla spalla.
          Nonostante i miei nei che non sai collocare,
nonostante
quella voglia impaziente sul braccio,
                                           - mi han detto al caffè -
                                                                         

io lo immagino ancora.


giovedì 3 marzo 2011

Il teorema (di cose tipo: S = f x v blabla)

La realtà mi sbatte in faccia da una vita.
Ho la speranza di spostarne i confini, di stravolgerne i limiti.


Ieri, ad ascoltare i suoni di uno strumento a corde tese, pensavo che, se ci si basasse sulla matematica dei comportamenti, non ne uscirebbe che un risultato fasullo, di formule e teoremi che non hanno un diretto riscontro, e tangibile.
Pensavo che la fisica insegna che per spostare un corpo, per far muovere qualcosa, bisogna esercitare su questo una forza ed una velocità, una qualunque velocità, intesa come tempo impiegato per. E il tempo corre, ma a volte corre p i a n o.





Ciò che avevo mosso è tornato al suo posto.
A sbatter la testa e il corpo contro il muro, senza parlare.
A dire a me stessa, oggi, che ogni cosa ha un suo peso, un suo movimento, una sua legge. A dirmi che se una formula c'è, dà luogo ogni volta ad un risultato differente, a seconda del corpo e del suo spostamento.

Pensavo, poi, che farei bene a pensare a fiorellini e farfalle e al niente, piuttosto che intrecciarmi al filo logico di questo discorso, ammesso che ne abbia uno.
Ma se un filo c'è, non ha una fine.


"Ho iniziato come pittrice e, quando ho fatto la mia prima performance, ho scoperto due cose: l'ENERGIA, che si produceva nell'azione, e il fatto che lì il TEMPO è parte del lavoro."      Marina Abramovic 

mercoledì 2 marzo 2011

Signora Opportunità



La Signora Opportunità ha il trucco sbavato, macchie nere intorno agli occhi, lacrime di rimmel sulle guance. Ma sorride. Si, lei sorride. Perché niente ha e niente perde quando si tirano giù i dadi e la sorte decide il da farsi.
Se le facce dei dadi non barano, e se il risultato non ti spaventa, la Signora non sorride più.



L'ho vista passeggiare in Via Duecento mentre frugava nella borsa, la borsa di un'altra. E rubava qualcosa, forse un rossetto.
A colorarsi di rosso le labbra, a rendersi ancor più provocante.

Io l'ho vista mille volte, con quei tacchi storti e cigolanti, ubriaca e barcollante, afferrarmi un braccio e trascinarmi.
A graffiarle le braccia per difendermi, io, come un folle che conosce per la prima volta la ragione.




La vedo. E' sdraiata e canta, la stronza, a desiderare la mia invidia. Vuole che io vada con lei.La seguirei, se solo la meta non fosse così lontana.
Un luogo fermo in una fotografia, un luogo muto delle frasi che vorrei


La Signora Opportunità tira i dadi e se ne frega, ché tanto,
nel caso, son io che            qual(?)cosa.
                               perdo