venerdì 29 luglio 2011

Sei fiore





►I lost something in the hills, Sibylle Baier


Direzioni opposte ad incontrarsi, poi, nella deviazione di un momento.

Eri un fiore.
No, era un fiore il mio silenzio. Era un fiore, era un fiore il tuo silenzio. Di quando con gli occhi rispondevi e non domandavi mai, di quando con gli occhi domandavo e non rispondevo mai. Poi le pelli s’incontravano a metà, mai lungo il percorso, ma nella deviazione di un momento. Unico e spontaneo. Più che il fiore, era il coglierlo. Di quel desiderio che non s’annulla mai.


Sei fiore, dicevi.

Ricordo -passi lenti e lunghi- il corpo tuo che, piano, andava via. Ricordo il giorno e poi la sera, li ricordo come fermo-immagine che non riparte mai. Se indietro non si va, se il domani s’attende e basta, tu sei bloccato lì, reminiscenza che non si accontenta di stare, che vuole camminare. Ma i passi, progressi di intenzioni e non di fatti, son movimento che non cambia il senso. L’azione, il mutamento vero, lo si ha da fermi. E t’ho bloccato lì, gamba destra davanti alla sinistra. Braccia a dondolarsi alternate, come giostra per il corpo mio, e ora immobilizzate.

A voce alta oggi dici, sottovoce un tempo raccontavi sei fiore.

Dicevi, sottovoce un tempo dicevi lo sai da te.
Dubbiosa, io camminavo invece lungo il filo dell’errore. E la direzione, unica e obbligata, era limite e mai orizzonte. Se sapessi, se veramente io sapessi, non tenterei invano di raggiungerne la fine. Se potessi saperne di più, di questo gioco che ormai pesa e non mi giova, starei ferma, soddisfatta del tuo mutamento. Perché ciò che cambia le cose, quello che realmente accade, succede se sei fermo. Sei tu a render mutamento l’immobilità.


Direzioni opposte si incontravano, allora, in un solo momento.
Sei fiore
, dicevi.
Sei fiore, t’ho detto.





 

martedì 26 luglio 2011

Ancora, per la prima volta



►Stars, Warpaint

La notte - quella notte - è andata via chiedendosi perché.

Ha voltato le spalle piano, ferma per qualche minuto sul binario del buio, per poi correre e tuffarsi nel nuovo giorno. Frettolosa come quei viaggi che son fughe e scorciatoie, ha salutato i miei passi stentati, in una notte - quella notte - che s’era ubriacata di sé. Coperta da una nebbia che non era di atmosfera. Velo di maya striato sull’occhio.

Moriva presto il desiderio, veicolato da curve a gomito difficili da seguire senza inclinare la testa, e indirizzato verso altri luoghi, lontani la distanza di un aspetta. Dirlo di nuovo, o lasciarlo sospeso tra la mia bocca e il tuo orecchio, o dire una sola volta resta, per dar un senso ad una forma che io credevo sostanza. Carne. Sotto pelli diverse che ne fanno una, dondolandosi bene e respirando forte sulle parole taciute. O dette piano tra le labbra, prigioniere di giochi di fiato.

La notte - quella notte - avrebbe raccontato di intrecci veri, piuttosto che di grovigli di imbarazzi, se solo avesse avuto un fine, se solo avesse avuto fine.

Moriva giovane l’aspettativa, moriva tra le voglie e i dubbi, si accasciava a terra incerta, prima di riprendere il via sulla strada di ferro. All’arrivo, oltre le gambe di cento passanti, c’erano auto. E le auto correvano. E le luci sembravano frecce e poi schegge e poi stelle. C’era la luna, a ricordarmi la lontananza da casa, c’era vento, a ricordarmi che il viaggio che avevo appena fatto era avversario vinto di quella stessa brezza. La velocità ne aumentava la forza. La velocità ne spegneva, a tratti, l’intensità.

Alla partenza, tre gradini erano salita immobile e infinita. Alla partenza, tre gradini son diventati discesa ripida e veloce, da percorrere in un attimo. Per sentirla di nuovo, la tua mano sulla schiena. Per sentirla ancora e per la prima volta.

Poi pensavo che la notte avrebbe raccontato di intrecci veri, piuttosto che di grovigli di imbarazzi, se solo fosse stata davvero quella notte.

La fine del giorno, ubriaca di sé stessa e non di te, s’è spiegata il perché.

lunedì 18 luglio 2011

Dentro gli occhi



►Driving, Sibylle Baier



La strada era deserta. Procedeva a rilento il paesaggio, imprimendosi bene nelle pupille, prima di fuggire per chilometri.
Non amo guidare, guida tu. No, non amo guidare quando c’è da guardare. Quando quello che è fuori è dentro e la mente sente bussare la curiosità. Avessi avuto una macchina fotografica, in questo e in altri cento viaggi, avrei dimenticato ogni luogo. Perché niente serve a ricordare un'immagine quanto l'idea di non poterla guardare mai più. E’ la mente, prostituta senza affari, a voler essere sempre soddisfatta. Gli occhi, invece, l’altra notte, avevano soddisfatto ogni ricordo che, sapevo bene, non ci sarebbe stato. Spazzato via dalla marea, firma di inchiostro delebile su fogli di sabbia. Le conchiglie ed i sassi, invece, approdavano a riva. Lo sceglie lei, la marea, cosa portare via. Il resto, quello che rimane, è ciò che ha voluto lei che rimanesse.

Sulla curva della costa si intersecavano piano linee di luce e d’ombra. E, piano, con stesso ritmo e stessa cadenza, i pensieri cambiavano forma. Non più figure evanescenti e astratte. Quella notte, con le braccia a tenersi strette tra di loro, i pensieri son diventati immagini e certezze. Ferme come quelle mani che mi stringevano forte la schiena e che chiudevano le porte in faccia al resto. Da fotografare. E fotografate. Senza flash. Dentro gli occhi.



Avessi avuto una macchina fotografica, in questo e non negli altri viaggi, avrei scattato centinaia di fotografie. Per dimenticare.
Ché poi un ricordo cos’è, se non un’orma lasciata lì, in attesa di esser spazzata via. Ché poi un’orma cos’è, se non un ricordo impresso forte negli occhi, in attesa di esser inabissato.
E un ricordo io l'ho portato. E un ricordo, lì, l'ho lasciato.







Marea, prima che tutto si fermi in un'istantanea da niente, portalo via.
Marea, prima che la mia orma sia dimenticata restando, spazzala, soffiala via. 

giovedì 14 luglio 2011

Ehecatl






►Tonight, Sybille Baier




Da un momento all’altro il vento è cambiato. Soffiava verso nord stamattina, una brezza leggera e calda. Ha portato via con sé foglie e voglie. Ha spazzato via i resti, gli scarti, i brandelli di un pezzo di carta scritto e trascritto e riscritto. Apografo impreciso del tuo originale.


Ho respirato forte, prima di vederti scendere le scale. La porta si è aperta, il vento aveva portato via anche te. E, mentre cercavo di chiuderla, la curva del braccio era tornante che non ritorna. Il gomito, spigolo duro per la testa. Le gambe restavano percorsi morbidi per le mani. Le tue.


E da un momento all’altro il vento ha taciuto. Il rumore di un soffio è durato il tempo di un battito, sentivo nel polso un frastuono, sentivo nel petto la fatica della corsa del tempo. Il mio, il mio tempo, s’era fermato a riprender fiato più a lungo. Erano le tue ore che si dissolvevano, erano i tuoi giorni che, come passi, scandivano i gradini.
Passo dopo passo, angolo retto dopo angolo retto, piano dopo piano, occhi dopo occhi, il vento è tornato più forte.



Mi dicesti una volta che il vento porta con sé le vite degli altri, mi dicesti che a chiuder gli occhi, ci si ritroverebbe sulla pelle la sensazione di un altro. E’ triste, pensai. Lo leggesti nei miei occhi, poi mi dicesti e se si posa sulla pelle entra dentro, più in fondo, costringendo la carne ad assorbirne una parte.


Da un momento all’altro il vento è cambiato. E, più in fondo, al di là della pelle, nella carne, tra le vene, qualcosa s’è mosso, nell’attimo stesso in cui il mio sguardo non arrivava più a te. Ho sentito i muscoli irrigidirsi e le gambe tremare.


Chissà se ciò che provavo proveniva da te.
Chissà se ciò che ho provato, il vento l’ha portato da te.







lunedì 11 luglio 2011

Cielo e solo cielo






►Raining in Athens, Azure Ray


Sono gli occhi a dar forma alle cose. A dar colore e luce ad un’immagine.
Come quel gioco che si faceva da piccoli, quando ci avresti scommesso qualunque cosa che toccare una nuvola sarebbe stato facile, e che sarebbe stato proprio come lo immaginavi. Tuffarsi in un letto di panna, di schiena, braccia in aria, caduta libera e sicura. Ricordi? Ricordi quando una forma o un colore erano migliaia di figure e centinaia di sfumature? Quando dietro una nuvola c’era il cielo e solo il cielo? E, sotto, altri colori ed altre forme da guardare. Da inventare. Nessun dubbio, avevi, che fosse proprio come la immaginavi. Morbida.


E mi vien da sorridere, quando penso che non faccio altro che tenere i piedi ben saldi a terra. E mi viene da sorridere se penso a quante volte un’ombra m’è sembrata una scultura ed ho taciuto, ché ho smesso tempo fa di esser bambina. Chi ci scommette più che toccare qualcosa sia proprio come pensavo, chi ci scommette più un soldo che dietro una nuvola ci sia solo cielo.


Ed ho riso di nuovo di me quando, cogli occhi brillanti della sua età e con le mani colorate coi pastelli, ha indicato una nuvola e m’ha detto Nelli, ma lo sai che puoi arrivarci quando vuoi, lassù? Basta salire sulle spalle di un papà.

Certo che lo so – ho bisbigliato – ma scommetti che vanno bene anche le mie? Ha risposto sorridendo.

Così dalle mie spalle ne ha toccata una, ed io con lei.

Davvero, eh.








lunedì 4 luglio 2011

In equilibrio sul filo del noi









►Lovesong, Adele


Deve esserci una spiegazione se l'orizzonte è fermo solo se sei fermo anche tu. E si muove se ti muovi. E corre se tu corri.
Già, come quegli amanti che si riconoscono da lontano, ci si affanna per raggiungersi.


Mentre percorrevo la strada verso il mare, l’ho visto disegnarsi sul finestrino, avvicinarsi piano ai miei occhi, terra nuova dove muovere passi. Una vista sfumata e interrotta dal ballo scoordinato dei miei capelli, già travolti da quella brezza che è solo del mare. Ho chiuso gli occhi un istante, lasciandoti il tempo di dirmi mi piace immaginarci laggiù. Acrobati instabili, in equilibrio sul filo del noi. Lì, dove cielo e mare si dividono, netti, bruschi, decisi. Dove ci si può immaginare a fluttuare nell’aria, o aggrappati a quella linea che sembra grafite, da cancellare e riscrivere più vicino, se occorre. Lì, dove ci si può immaginare nudi di vesti, di scarpe, di ansie e anche di sogni, ho visto per un momento il sole abbracciato alla terra e l’acqua scontrarsi con la pietra, per ritrarsi poco dopo e tornare a battersi più viva.


Poi le mani hanno fatto il loro gioco, toccando ciò che c’era intorno, terra, carne, sassi, scogli e te.
Poi le mani hanno fatto il loro gioco, interrompendo la voce degli occhi.
E gli occhi si son persi nel movimento, catapultati nel vortice del tatto.
Ma, di nascosto, ho spostato lo sguardo oltre gli oggetti, oltre le braccia tue che incorniciavano l’atmosfera come fosse una fotografia. Ed ho visto l’orizzonte allungarsi piano e cambiar colore con il calar del sole.
E poi le mani son diventate cielo ed i tuoi occhi son diventati mare, le mie parole solo fumo e le tue ciglia spazi sconfinati in cui viaggiare.


Sai, mentre percorrevamo la strada verso il mare e tu parlavi, pensavo tra me e me che invece l’orizzonte non si muove, che ha un suo luogo esclusivo e irraggiungibile, da guardare da lontano per immaginarsi acrobati. Pensavo che l’orizzonte è sempre là, punto immobile e costante, attrazione e distrazione, punto d’approdo mai raggiunto. Che quando cammini è fermo, che se corri non lo fa, che è immagine di un desiderio inappagato.

Ma tu portami laggiù, ad indicare i sogni col dito puntato in avanti, ché il cielo è già lì.
Portami lassù, ché tanto basta niente e due parole e un bacio e il tuo equilibrio e poi le mani ed il tuo mare.
Portami laggiù, a guardarci per la prima volta da vicino.
Ché tanto basta niente e due parole e un bacio e il mio equilibrio e poi le mani ed il mio mare.


E noi.