mercoledì 23 dicembre 2015

Hibiscus (del fiore che eri, del fiore che sei)

(Hai sogni così piccoli, e mani troppo capienti per lasciarli respirare. Hai progetti così semplici, e risorse inesauribili, e fiato a sufficienza per raggiungerli)

Perché sei di nebbia, come i panorami migliori. Soffri di apnea, costringendo il tuo corpo alla resa. Madre senza figli, di una bambina intrappolata ancora tra le vene. Soffri di vertigini, ma non sai guardare che dall'alto. Muoviti piano, fiore frangibile dai petali multiformi. Proteggiti, quando puoi, dai forti venti e dalle fanghiglie scivolose. Sappi proteggerti, fiore in germoglio. Sappi fiorire, sappi fiorire di ogni colore. Che ti annusino piano, che sappiano coglierti. Che sappiano prenderti in una mano e mostrarti meraviglie ancora inesplorate. Che sia un nuovo giorno, nuove scoperte e visuali. Che sia solo il tuo odore. Che siano le sole tue foglie/forze. Curvati appena, a metà del tuo stelo, e non farti spezzare. Godi di luce, quando alla natura non potrai sottrarti. Godi di luce e impara a nasconderti. Petali come un tetto e foglie forti come il perdono.

mercoledì 2 dicembre 2015

2.12



"Augurarti l'insondabile, ancora, chè le vie della conoscenza sono infinite ma la ricerca dei brividi è una tensione morbidissima;
di sognare forte, ovunque si adagi il tuo sguardo,
come la formula di un medicamento segreto,
di imparare a nuotare, imitare l'evoluzione naturale dei pesci.
Senza pensare a nulla, allungarsi come un serpente, con un vento diverso tra il ciakolio delle ciglia,
di profanare il cuore.
Campi d'equilibrio, incontri, bandiere, appartenenze e tumulti sono passeggeri,
ovunque io vada, sei una parte di me, come un primordiale scuotimento cardiaco.

Sii felice, è il mio ammonimento.

Ovunque ti festeggerai, abbi stupore e cura di ciò che sei.
Buon compleanno ragazzina".

C.



Nel giorno del mio compleanno parole straniere ad intrecciarsi con le mie, taciute. Per il mio compleanno, in quest'anno di belle speranze e degni traguardi, sorrido.


Antonella





sabato 5 settembre 2015






"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, cosi', nell'erba. Io ti guardero' con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' piu' vicino."





venerdì 21 agosto 2015

Tirai il colletto della camicia poco più su, aprii la porta e lo sorpresi col capo rivolto verso l'alto, in assoluto silenzio. La voglia era di ridere forte, il destino fu di sorridere appena.
- Ne ho viste di tutti i colori - pensai tra me e me - di notti claudicanti, appese al filo del tempo come lancette lente in attesa del nuovo giorno. Di albe e tramonti che non sanno distinguersi, e lingue voraci ad assaporare, di quel cielo, anche l'ultima goccia. Di tempeste calde e fulmini a scagliarsi sullo stesso lembo di terra. Di negativi di nubi gravide, dai contorni chiari e suoni reboanti. Mani ingorde a imprimere la pelle, ogni volta come fosse la prima. Odori e suoni contemporanei e febbrili. Già, ne ho viste di tutti i colori.
Ma di cieli così - mi dicevo sulla strada verso casa - di cieli così io non ne ho conosciuti mai.

Sulla mia testa, a distanze impensabili, uno spazio di cielo era dedicato a me. Intorno, oltre le cime delle colline, oltre la loro ombra, oltre il loro profilo scosceso, lampi di luce sembravano serrare il mio - esclusivo - spazio di cielo. Provavo ad indovinare una stella, la sua caduta, il mio desiderio, mentre migliaia di parole si aggrovigliavano in bocca insieme al fumo dell'ultima sigaretta. Svanite, pure quelle, in verticale.

E' che di cieli così io non ne avevo mai visti, eppure è vero, sai, ne ho viste tante.
Di penombre ed epifanie di luce, di salti nel vuoto e schianti improvvisi, di cieli tersi, di temporali improvvisi. Di stelle cadenti e desideri inespressi, di sorrisi educati, di proposte eccitanti, pugni in faccia e visi arresi. Scie di luce come tracce da seguire, e fili dorati a Natale, e cieli sgombri e cieli chiari e cieli invisibili e cieli, comunque cieli.

Ma un cielo così, giuro, non l'avevo mai visto.

giovedì 30 luglio 2015

Amara (che non possa mai fare rumore)






- Ho i brividi - aggiungesti, quasi senza aprire la bocca.

Qui. A raccontarti di arabeschi e voli pindarici, a dirti parole vuote, e a colmarle di baci. La lingua ha scelto una diversa via di comunicazione, come i gesti, stretti tra le braccia che non sanno ampliare il loro raggio, come volessero proteggersi e, di rimbalzo, proteggermi. Qui. A spiegarti che ora non c'è posto in questo cuore marcio, violentato dal tempo e dalle mancanze. L'assenza, prima o poi, diventa abitudine. E l'abitudine, sai, diventa tutto ciò che vuoi - tutto ciò che puoi -.
E allora sono di nuovo qui, a dirti che sarebbe bello tra di noi non ci fosse un domani, né promesse, né mancanze. A spiegarti - io, amara eppure, sai, così fragile - che ciò che può giovare non è che un bacio a cuori spenti (che non possa mai fare del male, che non possa mai fare rumore).

Ma le tue mani io le ricordo, e ogni notte le bramo, e ogni dì ne ho nostalgia. Di quei sensi intrecciati alle lenzuola, di un profumo appena percepibile e che sa di desiderio.

Qui, di nuovo, a stringere le tue carni sottili - e trovarle a volte inadeguate -, a sorriderti sommessamente, mentre poggio il mento sul mio palmo e ti racconto - mi racconti - del mio cuore marcio - del tuo cuore marcio - (che non vuol più fare rumore, che non vuol più fare del male). A spiegarti quanto sia facile per me non legarmi. A dirti bugie.

Perché le tue mani io le ricordo, marchiate a fuoco sulle anche, sulla linea della schiena, legate alle mie da un desiderio forte, sospese a mezz'aria dall'ansia del primo "forse".

- Ho i brividi, - mi guardavi negli occhi - dimmi come fai -.
- Ho i brividi, - ti guardavo negli occhi - dimmi come fai -.


E tenere a bada il cuore

prima che possa - Dio, se può - fare ancora rumore.

lunedì 20 luglio 2015

20 Luglio

Mi commuovo appena. Lo faccio con una vecchia biro tra le dita e musica alta nelle orecchie. Scrivo - inchiostro e clorofilla - di anni marchiati a fuoco sul cuore. Un lustro, oggi, di Labiali scempie. Lettere deboli, mai geminate. E missive non corrisposte, e figure retoriche ingenue.
Mi commuovo appena. Lo faccio con un sentimento nostalgico, come sapessi di non poter dare di più. Labiali scempie oggi compie cinque anni di vita, la mia. L'ho mostrata, spesso non chiaramente, a quegli occhi che hanno voluto guardare. L'ho raccontata, talvolta a fatica, a coloro i quali so che sempre mi leggono.
Mi commuovo e mi pare pure di esagerare, ma non riesco a non farlo.

Agli scritti che ancora sono chiusi nel cassetto, agli occhi attenti, alla mia forza, a questi lunghi, intensi cinque anni. Alle mie parole in grovigli, al mio cuore mai sazio. Alle parole udite, alle mani sfiorate.

Solo, grazie.



Antonella

lunedì 13 luglio 2015

Moi, "toi"

Cantastorie verticale, ossessionata da enjambement e anafore storpie.
Ballerina claudicante, sorda e agile, tra pirouette e passi a due.
Veggente di affanni, profeta di vita e di sbagli.
Viro a destra - c'è vento a favore -, poi dirotto a sinistra - senza rischi che viaggio è -. Pilota e viaggiatore, guida e seguace. A fuggire da ogni, bambola asettica di baci e realtà.
Disegnatrice confusa, vertici assenti e solo - sola - grafite invecchiata.
Cantastorie verticale, a guardar verso il cielo senza saper cosa c'è intorno.

Eppure

da te

ritorno.




(per ogni immagine uno scritto, nel futuro venturo)

giovedì 23 aprile 2015

RARUS (la promessa)





- Ricordi? -
- Ricordo. -

(Erano voci deboli e volti smarriti, in una corsa frettolosa e impaziente. Ricordo la pioggia, poi ancora la pioggia).

- Ricordi quei fiori? Ricordi per quanto tempo li cercammo? -
Feci silenzio, voltai pagina e sorrisi. Fu una sorpresa scoprire proprio a quel punto, nel mio album rosa, il suo volto ridente.
- Dicono - disse, sfilandosi ad una ad una le maniche della giacca - che ci sia un fiore di cui esistono al mondo due soli esemplari -.
Pensai alla fiducia cieca, all'amore, al denaro. Pensai all'entusiasmo della ricerca e del viaggio. Pensai alla bellezza.
- La chiamano Middlemist camelia - aggiunse, offuscando la mia vista con uno sbuffo di fumo improvviso - è rara quanto noi -.

Poi la notte ci vide coricati ed esausti, ed il giorno non fu che un germogliare tutto nostro. Le labbra socchiuse e il cuore pure, un solo alito di vento a donar l'essenza del nuovo. (Fosti un sapore - lo dimentico, dimentico il tuo sapore - un profumo, un suono, una notte- una notte soltanto -, lo dimentico, a volte, TU fosti una notte soltanto).

- Ricordi quel giorno d'Ottobre? Ricordi per quanto tempo lo aspettammo? -
Rimasi in silenzio, piegai le lenzuola con la fretta di andare. Squillò il telefono proprio in quell'istante.
- Sbocciavano solo in autunno - mi disse, guardando furtivamente l'orologio.
Pensai alla fortuna, al desiderio, alla paura. Pensai all'attesa del piacere. Di nuovo pensai alla bellezza.
- Proprio la stagione che tu ami - aggiunse, sistemando i polsini della sua camicia a righe.

Il giorno scivolò sui profili delle montagne come un bambino frettoloso sul suo scivolo di mille colori. La notte vi calò proprio sopra, ad oscurarne linee ed ombre. (Fosti un momento - lo dimentico, dimentico quel momento - un bacio, una promessa pusillanime e scaltra - una promessa soltanto - lo dimentico, a volte, TU fosti una promessa soltanto).

Me ne andai - per sempre, io andai -, uscii da quella porta con una valigia e un fiore stretto tra le mani.
Uscii da quella porta e dimenticai d'un tratto tutto ciò che c'era dentro.
Uscii da quella porta lasciandogli un biglietto: 



perché tutto ciò che è raro è per sua natura bello e 




lontano.




Image by www.etimo.it


lunedì 30 marzo 2015

Malade (il compromesso rosso)





Profili di grattacieli, solcati dalla luce come da una vanga, disegnano panorami inesplorati. I tramonti tornano ad imbattersi tra le ciglia mentre sulla linea del naso, sulla bocca - scivoli come acqua - sento colare. La fronte è asciutta, malgrado gli sforzi della mente. 
Ma sanguini. Tu - da me - sanguini. Essenza assoluta, il dolore, il sapore, la cura.
Tra le mani aria e smalto inappropriato / sulla pelle la paura a irrigidirsi. 
Tu da me sanguini, io ho una ferita. Rivolo emotivo, affluente e devastante. 

Profili di volti, e mani sconosciute che provano a toccarmi. Il mio sguardo ancora fuori campo, tu protagonista di un film degli anni trenta. In bianco e nero la fatica - né occhi gonfi, né palpebre basse -, a colori i miei gesti arrugginiti. Hanno memoria, queste braccia, di tutto quel che è stato. Si muovono a stento, e no, non abbracciano più.
Ma sanguini. Da queste pupille dilatate - da me - tu sanguini. Pianto d'amore o di sventura, in questo compromesso rosso che non so fermare.
Sulla schiena brividi caldi / sulla bocca un sapore soltanto ricordato.
Tu da me sanguini, ed io non so cessarti.

Penombre incerte, alla sera, quando la città si ferma. Profili di auto sulla strada del ritorno, le mie mani ancora vuote sul finire del giorno. Al buio, gli occhi tuoi incolori. Al buio, gli occhi miei distratti. Hanno memoria, questi occhi, di tutto quel che è stato. Si illuminano a stento, e no, non guardan più.
Ma sanguini. Tu - da me - sanguini. Sei la mia malattia.
Nella carne incisi i cocci dell'assenza / sulla lingua altre ferite.

Tu da me sanguini, 


ed io no, non so guarire.


domenica 15 marzo 2015

Mosca cieca (son lì, malgrado la mia assenza)



(deliri acrobatici)

Vivo di ombre e contorni sfocati, nell'attesa di un ritorno. Ho palpebre tenaci, che a stento chiudono i battenti, e gorgoglii dell'anima stagna. Ho fiato - ho ancora fiato - e labbra morbide che al mattino possono ancora dare il buongiorno - ma ho bocca asciutta, di sale, di miele, di caffè. E vago - tracce di rossetto sul viso, dovranno scomparire prima o poi - su sentieri bui di carezze. E vivo, vivo di odori ancora fluttuanti. Leggo, leggo di poesie scritte e declamate a gran voce. Soffoco, talvolta soffoco, di pensieri che non scendono giù.

Ma mi par di intuire, tra i ricami del cielo, uno spiraglio di luce. Io fui ombra e a fatica mi vedesti, tu fosti ombra e a fatica ti trovai. Io, intangibile disegno sul pavimento - tu come me, malgrado le carezze che pure sentivo -. Anche il sole si nasconde, talvolta accecandoci. Ma è qui, malgrado la sua assenza.
Fu rincorrere il vento, quell'ostinarmi a raggiungerti. Fu una corsa al buio per trovarti, te che eri ombra e nient'altro - corpo invisibile dai contorni tracciati -.  Il sole nasconde, a volte, annebbiando la vista.

Odore di nuovo e armonie quasi tangibili, nell'attesa di un arrivo. Ho lacrime tenaci che a stento cessano, e milioni di parole da blaterare. Ho forza - ho ancora forza - e mani che al mattino possono ancora carezzare - ma ti cerco, a mosca cieca, tra i sospiri degli altri. E vado - gambe allenate e cuore pure - alla ricerca di luce. 

E mi par di intuire, tra i ghirigori sul foglio, uno spazio bianco. Mi par di intuire, dalle serrande socchiuse, spiragli di luce. Il sole nasconde, talvolta accecandoci. Ma tutto è qui, ad un palmo di mano, malgrado la sua assenza. Ed io cerco, ostinata, un nuovo sentiero. Una quiete di luce che mi somigli, un'alba sfocata che mi baci al risveglio, un tramonto porpora che mi saluti alla sera. Occhi, mani, braccia, bocca. Un'ombra che non sia più solo ombra.


Ti nascondi, perché annebbiata è la mia vista.
Sei qui. Sei qui malgrado la tua assenza.

mercoledì 18 febbraio 2015

Garbo (fiabe irriverenti)





- Con garbo - precisò Emma, quasi come volesse imporre ad altri il suo modo d'essere. Era facile, a quei tempi, trovare in un bicchier d'acqua la soddisfazione di un giorno affaticato. Era semplice, ma Emma ancora non poteva saperlo, sorridere del poco.

Mosse i capelli con la mano sinistra - nella destra, tra due dita, tabacco a bruciare -, piegò le braccia contro il ventre, cominciò a dondolare sulle note di una musica che solo lei sentiva. E' magra la solitudine, quando la perdita è stata subìta. E' gelida l'aria, e le spalle tremanti, quando del caldo non si ha che un vago ricordo. Con garbo, Emma sapeva domandare. Sapeva chiedere, e nulla pretendere, sapeva domandare con la curiosità di un bimbo appena d(on)ato al mondo. E mai riusciva a farsi, della mancanza, una ragione. Ma, con garbo, lei sorrideva di un sorriso aperto, incontrastabile sebbene contrastato. Aveva occhi grandi, di quelli che a guardarli chiunque può specchiarsi, e trovarsi - d'improvviso - migliore.
E allora dondolò, e dondolò con una tale lentezza - perché lenta era Emma: nel camminare, nel raccontare, nel darsi da fare, nell'amare - da fermare il tempo. Cristallizzarlo. Proprio il tempo, che niente avrebbe potuto, ora che tutto era fat(t)o. Ella riconosceva che i dolori non sono che amanti senza cuore, figli di qualcosa di più grande, morte di qualcosa di più grande. Con il suo garbo, ad ogni domanda avrebbe risposto, ed avrebbe abbassato gli occhi, poi, imbarazzata dal suono della sua voce a fluttuare nell'aria. 
E allora fermò il tempo, Emma, con la sua musica. Tolse le calze, le impedivano libertà. Pensò che sarebbe stato facile, se solo accanto avesse avuto lui, trovare la felicità nel poco. Prese il suo libro sul comodino, terminato da anni. Si alzò, colpita dalla luce di un lampo improvviso, mosse la tenda più in là - le scivolò sui capelli -, aprì la finestra. Il cielo la sorprese a domandare:

Tornerai? Dimmi, tornerai?

Gli occhi commossi e impietriti di chi ha scelto il dolore come amante non lasciavano scampo alla verità: Emma sapeva - Dio, se lo sapeva - che niente tornerà. 


[...]

giovedì 12 febbraio 2015

Stagioni (gli occhi di una calligrafia)





(Questi tempi lenti)

Aprì la cassetta della posta nel momento stesso in cui dal cielo cadde la prima goccia. Una busta verde, senza mittente, era sommersa da cartoline qualsiasi. Era quello il tempo d'autunno che, a goccia, faceva cadere anche le foglie. Stessa la forma e stesso il movimento. Corse in casa - lì niente l'avrebbe distratta. Parole arroccate l'un l'altra, e grafia lenta, dal tratto incerto, su trame di clorofilla e cotone. Poteva, accanto al caminetto, leggere -sconosciuta- l'ennesima lettera. Fu un regalo, sotto la pioggia di Ottobre, scoprire gli occhi di una calligrafia. Sul finire di ogni lettera, con altro inchiostro ed in neretto, una frase incorniciata da parentesi tonde.

(hanno il sapore di altri tempi)

Ogni dì, sotto il porticato in legno, attendeva - mai esausta - lettere senza mittente. Destinatario preciso, un indirizzo irraggiungibile eppure raggiunto. Era quello il tempo dell'inverno, bianco e opaco come il volto dietro la penna. Correva in casa - tra i capelli batuffoli di freddo - a scaldarsi col solo alfabeto. Poteva, sulla sua sedia a dondolo, farsi cullare dalle parole. Era un regalo ogni volta, quell'inchiostro a raccontarsi come sangue.

(hanno il sapore di lettere inaspettate)

Fiori a dipingersi nei prati, e urla di bambini a colorare il silenzio. Poi il rumore di una bicicletta e ancora la cassetta della posta da svuotare. Era quella la primavera, a germogliare ancora lettere, a ridirle intatte e a regalare loro un profumo, uno qualsiasi, improvviso e inatteso. Corse in casa - un foulard rosso a farle da scia - ad odorare frasi di porpora e lillà. Era un regalo, quel foglio piegato con cura tra sbavature blu e graffi di biro.

(hanno un sapore, sai, che mi piace)

Colline assolate, al di là della finestra. Il corpo di lei nudo al di qua del muro. Era quello il tempo d'estate, col sole a bagnare la fronte, cogli occhi aperti su quello che ancora v'era da dire. Correva in casa - solo una veste, corta e azzurra - a respirare quel vento la cui provenienza era ignota. Era ancora un regalo quell'improvviso respiro, era di nuovo un regalo, ogni volta atteso, ed ogni volta inaspettato. Prese la penna nel taschino, diresse lo sguardo verso il suo taccuino e prese a scrivere al suo destinatario parole che lui mai avrebbe conosciuto:

 questi tempi lenti hanno il sapore di altri tempi, hanno il sapore di lettere inaspettate, hanno un sapore, sai, che anche a me piace.


[Anni dopo, in un giorno di pioggia, il postino vide un piccolo taccuino all'angolo della strada. Tra il bianco di ogni pagina quella sola frase a dare un senso al silenzio. Ebbe tutte le risposte che negli anni non ricevette, ebbe indietro tutte le lettere che negli anni le scrisse, ebbe indietro tutte le stagioni che la sua penna le aveva dedicato. Ebbe tutto questo - d'improvviso - in un piccolo, perduto, ormai vecchio, taccuino].


(Alle mie lettere, quelle ricevute. 
Nelle quali lessi proprio questa frase.)

lunedì 2 febbraio 2015

Fame (il puzzle emotivo)




Discorsi concentrici, volti al fulcro di ogni cosa, pasta molle per i miei incisivi, affilati quanto basta a tagliar di netto ogni pietanza. Che sian parole, cibi o circostanze. Il nucleo morbido e succoso, casa dell'essenza e del sapore. Vuoti d'aria che percepisco appena e percepisco all'altezza dello sterno, come ansia da prestazione o dolori da alienazione. Lo stesso meccanismo della fame. Riempire vuoti recidivi. E c'è una fame che non è mai vera fame. Bulimia di attenzioni - vedere l'amore dove amore non v'è -.

Avevo palpebre gonfie, quasi a toccar le sopracciglia: le lacrime avevano tentato una diversa via di fuga, per dirsi assenti. Non più rigando le gote, non più seguendo la linea del naso, per cadere più forti, per farsi sentire. Ora, pudiche, cercavano nascondigli. 
(Credetti in lui, come in una gara a fare il tifo. Sbagliai a puntare, soldi o dito). Io dissi - con questa bocca, la mia lingua, velo palatino e saliva - dissi ci sono. Non più un solo motivo per esserci (esistenza in quanto tradizione e mera testimonianza dei fatti), né graffi, né cure. Ipotesi di un complotto del tempo, che alle mie spalle i miei sensi gestiva. Tentai strade alternative ed escamotage di parole a perdere. Poi i sensi risvegliarono ogni percezione e di noi non rimase che un vuoto guadagnato. Scoprire, oggi, che altro non fosti che un nome, di quelli che a Natale tieni chiusi in un biglietto, legati a della carta con un solo nodo, sottile ma stretto. Fosti solo un nome e come tutti i nomi nella mia rubrica sei finito, accanto ad un numero ormai inesistente fatto di inchiostro sbiadito. Scoprire, come un'epifania di luce, che i tuoi anni a questo e null'altro son serviti: pietanza, parola o circostanza. Un ricordo confuso di un niente travestito da vita. Frasi di odio che ancora mi par di sentire, tu che insegnasti a non vivere e a vivere ancora. Dopo di te, che tentasti la mia resa e la mia sazietà, luci e scoperte. Dopo di te un palato ancora mai sazio. 

Perché c'è una fame che ha ogni dì un nuovo inizio. Perché c'è un coraggio che ha forma e manifestazione diversa, che combatte ed agisce cogli occhi, sugli occhi, negli occhi. E che parla sottovoce. C'è una forma di tenacia che ha altri imperativi, che pur somigliando alla resa non ne è che antitesi. C'è una forma d'amore sottile, che non ha mai bisogno di alzare la voce. C'è una forma di vita più forte, che non si sente mai sazia.

Ed io ho ancora fame. 
(Che sian pietanze, parole o circostanze).


(Un collage di post iniziati e mai conclusi. 
A spiegarmi, col senno di poi, gli eventi).

lunedì 19 gennaio 2015

Sipario chiuso (monologhi dentro)





Si allungavano le ombre sul pavimento, e chiari ne restavano i contorni. Lei mosse il posacenere sul tavolo, poi ricongiunse le mani, da ore ad intrecciarsi. Era quello il tempo dell'inverno - erano quelli i gesti del freddo. Il suo volto, pallido di un chiarore asettico, accennava espressioni di rassegnazione. Come poteva il tempo aver cancellato tutti i suoi rancori? Come poteva - si chiedeva - aver disintegrato ogni tipo di sensazione? Come un'ascia sul legno, aveva - questo tempo - sfilacciato le ore ad una ad una, e a lei - proprio a lei - le aveva sottratte.
Si irrigidivano i polpacci, coinvolti nella morsa del freddo. Occhi di ghiaccio, questo giorno orfano di madre e senza nome né cognome. Col dito teneva il ritmo dei secondi - e piano, molto piano, il suo indice li lasciava andare - cadere, battere - sul tavolo. Erano ore di cera che il gelo no, non avrebbe sciolto. E vi erano cicatrici sul piano del tavolo a ricordarle le sue. Era quello il tempo reale, finalmente svelato al suo cuore sognante. Era un caminetto, un ombrello, un rossetto. Era il suo divano, il suo odore, le sue sole mani.
Si toccava i capelli, annodati e ribelli. Finestre ormai chiuse le chiedevano attenzione. Era quello il tempo del sipario chiuso - mai più in scena - lo spettacolo vero è dietro le quinte. Erano momenti appesi alla finestra, ad asciugare al sole. Tutto, ora, aveva odore di pulito. Come poteva - il tempo - perdonare? Lei no, non l'avrebbe fatto. Ma avrebbe ancora riso. 
Ed avrebbe, finalmente, dimenticato.