lunedì 26 marzo 2012

Col senno di poi



Scrollarti di dosso ogni rancore/correre ancora tra gli ostacoli sempre fermi dei tuoi guai/seguire la rotta giusta, tra altre cento che non sai dove ti porteranno/avere poco fiato nella gola, ancor meno nei polmoni. 


E’ arrivata la primavera in un istante, mentre il cielo ancora cospargeva il suo presepe di bianco. E’ arrivata, sorda come poche, donna severa che non vuol sentir ragioni. Le tue, poi, a che servon più. Tu che sei donna per il solo senso che ha far la differenza, tu che sei madre senza aver figli, tu che sei figlia a metà.

Che suono abbia la mia voce, in questo giorno che non somiglia per nulla a quelli già vissuti, in questo giorno storpio, che guarda alle cose col senno di poi. Ad occhi nudi, senza teli color amaranto a proteggerli dal pianto. Ad occhi nudi e brillanti, senza alba né tramonto. Che volto abbia ora il mio corpo, quali sono i motivi per i quali ad ogni risveglio, chiudo nuovamente gli occhi e mi condanno. Sotto questo cielo, da una prospettiva deformante (che non sia così la realtà, mi domando) un giorno claudicante chiede una mano da tenere, che accompagni al sonno, che tenga sveglia questa luce. Che conduca ad aver senno di poi.

E allora tu, tu che sei donna e non lo riconosci, tu che hai tra le mani un sogno comune a tutti quanti, tu che ti tormenti spremendo un’emozione che a poco servirà, tu che rimandi a poi la razionalità del dire e fare. Tu che stanca non sei mai, se sulla pelle qualcosa ancora trema. Tu che vivi per vivere la vita alla pari con quello che senti dentro. E, dentro, ancora calma, la tua voce si fa viva tra i tuoi guai – che pure curi, attenta – finendo per addormentarsi sul letto caldo della noia. Ti culli, sola. Poi rimbocchi le coperte e ti dai la buonanotte. Tu sei donna. Sei figlia a metà di una solitudine che non se ne andrà, lei no, non se ne andrà.

Che suono abbia la mia voce, oggi che è rauca di un malore simile ad un pianto. Che suono avrà domani questo giorno fatto eco, ricordo assopito ma mai morto. E che suono avranno tutti i miei errori, nel farsi sunto col senno di poi. Mentre, ancora sorda, la primavera, mi sbatterà in faccia la realtà. Lei, donna severa che non vuol sentir ragioni. Tu, figlia a metà di una solitudine che ti sei scelta, lo sai, molto tempo fa.



"Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. 
Ma questa è la condizione stessa dell'esistenza. 
Farsi primavera, significa accettare il rischio dell'inverno. 
Farsi presenza significa accettare il rischio dell'assenza".
Antoine de Saint-Exupéry

venerdì 23 marzo 2012

L'istantanea del tempo (delle banalità)






-"Dimmi qual è l’attimo in cui, all’improvviso, sole e terra si incontrano e, col cielo, diventano colore unico. Dimmi se c’è un attimo solo, in mezzo a questa sequenza sconfinata di istanti, in cui qualcosa – d’improvviso – cambia.

Era il tempo a non aver peso, in quei giorni che, tra le pareti di una stanza, restavano appesi. Corpi esanimi nell’ambiente sordo di una sola camera, forme circolari che sempre chiudevano il cerchio delle sensazioni, che dal dodici partivano e al dodici tornavano. Senza deviazioni, lancette costanti e di una noia confusa spesso con la compiutezza. (Sembrava tutto circolare ordinatamente, e tutto somigliare alla forma circolare del mio anello –segno di grazia e d’appartenenza, sottile ma immortale -. Sembrava. Fu forse un inganno, una lama a doppio taglio, il sentore di avere tra le dita oro vero. D’altra parte, quel sentore, altro non era che l’inconsapevolezza di indossare una fede di cartapesta. Una fede – un anello, un gioiello - che cedeva lentamente alla malleabilità. Tra le mani tue lo stringevi, facendo forza. Tutto, disordinatamente, tornava ad avere la propria  forma reale. Non più circolare). Il tempo, evaporato nel caldo di una notte di passione, tornava a battere forte per finire ancora una volta sul dodici. Cercavo punti di raccordo tra la partenza e l’arrivo, un punto saldo, qualcosa – un istante, un attimo, un solo momento – a cui aggrapparmi per ricominciare ancora.

A fatica distinguevamo il giorno dalla notte, a nervi tesi ci arrampicavamo sulle ore, che veloci scorrevano sullo schermo luminoso di un nuovo orologio. (Ma io la notte la possiedo, dentro, in fondo. Ho buio nelle vene, buio pesto, e del sangue che, alla cieca, vaga da ogni parte. Velocemente, non si arrende. E lotta, maledizione, lotta ogni dì coi mutamenti). Perdevo l’orientamento, non riuscendo più a scindere il piacere dall’errore. L’errore di vivere il tempo dell’altro e di non farne mai parte. Perché in due correvamo sulla stessa linea del tempo, a distanza, ognuno perseguendo una meta diversa.

E allora cercavo un istante, un secondo, il momento in cui buio e luce si incontrano, l'istante preciso in cui i colori si fondono, così come i nostri corpi avevano fatto, così come le anime nostre si fondevano ora:
- “Dimmi qual è l’attimo in cui, all’improvviso, ci si incontra e si diventa colore unico. Dimmi se c’è un attimo solo, in mezzo a questa sequenza sconfinata di istanti, in cui qualcosa – d’improvviso – cambia.”


- "Questo. Tra poco sarà notte, sai?"







[...]

lunedì 19 marzo 2012

Dama Primavera (delle banalità)





Sulla tua spalla la testa mia si crogiolava, in attesa di un nuovo vento. Che portasse a me un nuovo profumo. La primavera, col suo sorriso di luce, illuminava tutto ciò per cui io vivo. Nel cielo, una scia mi ricordava della possibilità di percorrere tratti interminabili in poche ore. Mi ricordava quanta strada avessi dietro le spalle e quanta ancora da percorrere. A braccia conserte, accanto a un corpo che non ha malizia d’essere, gli occhi miei si perdevano, ancora una volta, ad osservare il cielo. 

Ma non è quello il mezzo per raggiungerti, non si tratta più di velocizzare i passi. In questo giorno che è una festa ma che sembra un dispetto, io ti sento respirare in ogni colore nuovo, nella corsa del tempo, al passaggio di testimone di ogni stagione, nella lotta continua tra la pioggia e il sole. Ti sento vivere nei miei passi, quando la strada si fa più dura e le gambe cedono alla stanchezza. 

E poi, in questo giorno che pare un dispetto, la primavera, con la sua eleganza, raffinata come una dama, arriva a prendermi la mano. Mi indica ciò che vale la pena cogliere, come un fiore appena sbocciato che pare offrirsi a me incondizionatamente, bello di quella bellezza che non solo è visibile, ma che è tale da manifestarsi anche all’olfatto. Ma, nell’indicarmi il fiore, la primavera mi ha sfidata. Ché è troppo distante il suo stelo, ora. Ché il suo odore non arriva a me se non grazie al vento. Quel fiore, una volta già mio, mi guarda ora da lontano. 

Che tu sia dentro il vento che mi carezza i capelli, o nella luce che fa di questo giorno un tempo buono per sentirmi libera, che tu sia questa dama gentile che da pochi giorni è arrivata, percorrendo un tratto lungo un anno intero. Che tu sia tornato, in questo giorno di primavera, in forma di emozione inosservata. Che sia stato tu, oggi, a passare su questo cielo, e a ricordarmi che c’è la possibilità di cogliere quel fiore. A ricordarmi che c’è, sì, c’è la possibilità di percorrere tratti interminabili in poche ore. 



(Per un amore che mi ha donato la vita. Auguri, papà.
Per la vita che, forse, mi sta donando un nuovo amore.)



giovedì 15 marzo 2012

Amaryllis



Faccio il danzatore per l’emozione che è danzare. 
Faccio l'acrobata per l’emozione che è l’equilibrio:





"Sono in una sala affollatissima, c’è gente che balla. Un tango o un valzer, con la giusta andatura ed i vestiti adatti. Gonne lunghe e spacchi audaci, è un nuovo carnevale. Hanno pure la maschera sul volto, i ballerini. Hanno una maschera che copre la forma degli occhi e camuffa le espressioni. 
Si danza, sul finire della notte, come nell’ultimo ballo di mezzanotte. Volti cupi, l’assenza totale di ogni emozione. Ma il tango è passione, sul filo dell’equilibrio diventa quasi un canto, è il corpo a prender la nota giusta. Qui, dove c’è musica, tutto è cristallizzato. Sebbene tutti, in ordine e simmetricamente, si muovano.

All’angolo della sala da ballo – accanto un amaryllis – ci sono io. Pare che gli altri non mi vedano e che io possa invece guardare loro. Ci trovo del ridicolo nei loro passi certi e così – di sensi – acerbi. Come se dietro ogni passo non ci fosse che un muscolo, e dietro il muscolo un input qualunque, dietro quell’input il cervello. E no, mi dico, no. Se possiamo danzare –se possiamo provare-, se possiamo esprimere attraverso il volto ciò che sentiamo – se davvero ci riusciamo – val la pena, dentro la musica, esserci. Esserci. Diventarne parte, suonarla.

D’improvviso, tra mille volti e abiti di scena, un viso familiare fa capolino. Era ora, pensavo, che anche tu ballassi. Era ora che ti presentassi così come sei, contornato di ornamenti, un tutt’uno con l’artificio d’essere. Sulla nota più lunga – vibrata, potente – i tuoi giri si perdono. Segui il tuo ballo come in un circo, sei l’acrobata monco di un numero già visto. Il pavimento – liscio e lucente –, come un filo, sa per te di insicurezza. Ma non c’è paura di cadere, non c’è timore di perdersi tra i passi. Dietro la maschera, anche il tuo volto è cristallizzato. Io, accanto ad un amaryllis, sogno di essere una musica – che piano arrivi al suo udito, che scenda poi nel costato, che tracci sul suo volto nudo l’espressione di un sorriso-. Come fossi ad occhi chiusi, come ti arrendessi al fatto che, in quella sala da ballo, la danza è un susseguirsi di passi, un mero conto, un processo meccanico in cui decidi che sarà il tuo corpo a comandare. E no, mi dico, no. Dietro il ritmo, nell’ondeggiare dei corpi, dietro la maschera, sulla fronte, possibile tu non senta uno straccio di emozione?

Tutto è cristallizzato. Accanto, un amaryllis. Dell’eleganza, esibita su di un palco come il più palese dei trucchi. Della fierezza, che in me si nasconde e in voi si offre, nient’altro che la maschera vigliacca di un volto che non ha niente da dire. Della timidezza, che avrei dovuto – mi dico- avrei dovuto raccontarvi."


Sono un danzatore per l'emozione che è la danza.
Sono un acrobata per l'emozione che è l'equilibrio.
Io sono un amaryllis, in scena non so stare.  
Sono un fiore, per l’emozione (rac)chiusa nel mio odore.
Io, io sono solo una donna. 
Una donna che ama per l’emozione che è amare. 



[...]


mercoledì 7 marzo 2012

L'alfabeto delle note




Freme, tra le corde vocali, freme e canta - suo malgrado nel silenzio -, quello che avrei voluto dire.

Un pianoforte darà armonia al tempo, ed il tempo troverà lancette lente. Un pianoforte asseconderà i tuoi passi, e sulla scia del tempo i miei inseguiranno il domani. Che non sia mai stanco, mi dico e spero, e che questo giorno non appassisca mai, mi auguro. Auguro a me che questa sensazione – simile a quella di un singhiozzo, o al suono della corda di violino che si spezza, che stride forte e arranca, che s’abbandona all’alfabeto delle note – sia per me presagio. Ché un’interruzione serve a poco, se non a ricominciare.

E mai avrei voluto dirti che c’è altro, ora, con me. Mai avrei voluto dirti che vivo bene, che le ferite si rimarginano, e che i loro margini non erano poi così ampi. Spazi nuovi, pelle a sufficienza da ferire ancora. Da carezzare ancora. Spartiti nuovi a dare un sottofondo ai giorni, a ricordarmi che la mia voce ha cantato altro, ha avuto altro, darà e canterà ancora altro. Che la mia pelle è stata pentagramma bianco per qualcuno, stoffa da carezzare per qualcun altro. Che contavo i giorni che mi separavano da te, prima di ora.

Questo silenzio, che potrei vestire di quello che ancora ho da dire – di quello che ancora ho da dirti –, questo maledetto silenzio - vigliacco, vigliacco -, s’arrende, nudo, alla mancanza di fiato.

Fu – allora - come sentire una corda di violino che si spezza. E il suono accelerare per poi frenare bruscamente. Un respiro che arrancava ad ogni nota e la paura, la paura del silenzio. E il ritornello dei pensieri come un nastro seguire la sua logica, e accorgermi che non è cambiata mai; ascolto spezzoni, frasi spezzate, mi pare di intravedere le tue braccia aprirsi verso me. Il tempo di una nota, poi la quiete. Ancora.

E ancora freme, tra le corde vocali, freme e canta - suo malgrado nel silenzio -, quello che avrei voluto dirti:


“Ti odio perché non ti amo più,
perché non posso perdonarti
di non riuscire più ad amarti”
Patrizia Cavalli


[sette anni (fa)]

domenica 4 marzo 2012

Journal (II) - Del sapore dell'arancia





Dalle pagine scritte per raccontarmi me stessa un domani.
La voce narrante è la mia. La protagonista, anche stavolta, ha il nome mio:


"Mi lascio alle spalle un volto, il suo nome, le sue espressioni, il suo modo discreto di dire attraverso gli occhi. E’ che lì, sul suo volto, vedevo scorrere la mia vita. Intera. Si alternavano notte e giorno, come pedali di una bicicletta che ha davanti a sé una strada infinita, curve a gomito e pericolose, salite dure il tempo di guardarle. La fatica, il sudore, il lamento, nulla sarebbero valse contro la voglia di andare ancora.

Quello che mi lascio alle spalle è un abbraccio, il giorno in cui la morte s’è presentata. Con fare distaccato, come sapesse che non avrebbe trovato accettazione, dentro me. Perché non importa quanto sia naturale, quanto sia umana e così dannatamente dovuta. Ciò che importa è che si presenta per privarci di qualcosa. Mi privò di carezze, le ritrovai, assopite, su quel volto. Le risvegliai, mi risvegliarono, dal sonno del dolore.

Mi lascio alle spalle il pianto di una madre, le corse folli in una notte di disperazione, gli affanni dell’amarsi incondizionatamente, gli abbracci restituiti al tempo, oggi che è poi. Oggi che amarsi è istinto senza freni e il suo sorriso un merito alla vita.

Ciò che mi lascio alle spalle ha il sapore ancora forte dell’arancia, che da quel giorno non mangio più. Profumi sospesi nell’aria, suoni remoti che echeggiano dentro. Mi lascio alle spalle il sospetto, velato sebbene ormai svelato, che tutto questo sia destino, nella concezione già descritta che vede l’uomo e il suo domani un rito replicabile e replicato, mai stanco, eternamente nuovo.

Mi lascio alle spalle una voce matura, ché sentirla m’ha fatto capire ciò che io non voglio. Quello che mi lascio alle spalle è il pericolo dell’attesa, di quanto sia rischioso fermarsi e lasciar passare i giorni, i volti, le parole, i profumi, le passioni, i sentimenti. Mi lascio alle spalle la paura.

Sulle spalle - invece sulle spalle - il peso grave dell’assenza. Il peso prepotente e sfibrante dell’esigenza di dire. Lascio lì le carezze negate, gli sbagli recidivi, le attese snervanti.

Davanti, l’ennesima salita.
Davanti, strade tortuose e fiato a sufficienza per ripartire.
Da qui."




"Non ho mai scritto credendo di farlo,
non ho mai amato credendo di amare,
ho solo aspettato davanti a quella porta chiusa"
Marguerite Duras, L'amante