mercoledì 23 novembre 2011

Non in inverno



La chiamano ironia della sorte.
C’era motivo per andare via, mi dicevi in uno degli ultimi venerdì d’estate. E’ facile, pensavo tra me e me, lasciare andare tutto in Agosto. Trovar calore in altro modo, non sentir freddo mai, non nelle attese, neanche nelle mancanze. Trovare negli angoli di questa città una via d’uscita. Negli angoli. Nelle strade buie e senza uscita di Roma vecchia vedere un’uscita. Avanti, sempre dritto, una luce in fondo ci sarà. Pensavo, di nuovo pensavo tra me e me che è facile, d’estate, prendere altre rotte, puntare nuovi territori da esplorare, nuove voci da ascoltare, culture diverse a mescolarsi con la propria. Ma non in inverno. Ché col freddo gelano anche i sensi, e ci si scalda solo coi ricordi. Pensavo ai profumi: quelli no, non muoiono col freddo. Resistono, sulla linea sottile dell’olfatto, sotto il naso, sulla bocca. Diventano sapori. E reminiscenze sepolte eppure eterne, a risvegliare le dimenticanze.

Sarebbe stato difficile, pensavo, sarebbe stato difficile non sentire la tua assenza dietro un odore, dietro una voce, sotto una coperta, in inverno. Pensavo che sarà del mio Natale, delle carezze attese per giorni e sempre appese alla finestra, ad aspettare un tuo ritorno.

La chiamano ironia della sorte se, sul lungomare di Nizza, un venerdì di quasi sei anni fa, ci abbracciavamo per la prima volta. Se per anni ho atteso che tu tornassi, ogni venerdì. Se mi hai baciata sulla porta di casa, di venerdì. Se un venerdì qualunque sei andato via.

La chiamano ironia della sorte e mi vien da sorridere se, per un nuovo volto, un qualunque volto, ho atteso ancora che fosse venerdì. Ed attendo. Un nuovo mare, un odore, un nuovo abbraccio, un sapore, un nuovo bacio. Una luce.
Per le stesse strade. Lungo nuovi scenari.

In un Novembre che inverno - e freddo - non è.

mercoledì 9 novembre 2011

Alla distanza (delle banalità)










Lo senti? Il singhiozzare delle note, il loro poggiarsi, tra una pausa e l’altra, sul costato. Senti premere? Senti?
Mi regalasti una canzone in un giorno di pioggia. E si annodavano – lacci saldi ad incastrare le pelli nostre – i miei La alle gocce che, piano, toccavano la terra. Come a svelare improvvisamente un segreto, quel tlin che fa dell’acqua il suono della riscoperta. Scoperta era il tuo viso, primo piano della scena - perduta- , l’ultima, di un film. Il dettaglio poi, il dettaglio delle ciglia, inarcate dall’incertezza, precedeva l’immagine ancora nitida della pioggia sullo sfondo. L’incertezza. Di me che levigavo le note per farle rotolare bene sulla schiena, brivido buono, caldo. Di me che inventavo un movimento per le dita, che nell’aria si perdevano a cercar appiglio.
Per non toccarti ancora, per non sfiorarti mai.

Lentamente allungasti una mano, con l’intento di bagnare il palmo e di assorbire poi, sulla linea della vita, quel frammento che. Quel frammento che è altra vita. Così piccolo. Eppure litri di acqua riempivano le tasche del giorno, e la notte, curva su sé stessa, attendeva esausta una carezza.Da lontano, mi dicesti guardando la goccia sul palmo, da lontano tutto è così piccolo.Che non sia un invito alla curiosità, ad aver fame, sempre, delle cose che non ci appartengono. Che non sia un nuovo invito alla riscoperta, la prospettiva deformante che fa di un uomo, alla distanza, un puntino nero, immobile. Che non sia un invito a scoprire cosa c’è - sapendo che c’è – tra quel puntino e l’immagine di te, che invece è definita.
Lo senti? Il singhiozzare dei giorni che piangono, in questo Novembre che non splende mai? Lo sento io, e non lo piango. Lo sento e lo sfido, ché un sole buono ci sarà.

Mi regalasti una canzone in un giorno di pioggia, avevi tra le mani un po’ di vita –sulla linea della vita-, ti vedevo andare via a pugni chiusi. Ti vedevo, da lontano, mentre la pioggia smetteva di suonare.

Per non toccarti ancora, per sfiorarti poi.

giovedì 3 novembre 2011

Corrispondenze



Njòsnavélin, Sigur Ròs


16.30, solito bar. Il caffè al ginseng è una riscoperta, i tavoli blu una costante. Punti fissi per gli occhi, da qualche anno persi nell’andirivieni di una città che non ha riposo, che è in continuo movimento. E’ molto che aspetti?
Avevo dimenticato l’appuntamento. E’ che mi perdo dentro me stessa, e mi ritrovo, poco dopo, nell’incontrare uno sguardo che sa raccontare. In campagna, un caffè e le emozioni vecchie a ritrovarsi. In mezzo ad un prato un caffè. In un caffè sguardi rallentati e abbracci sospesi. Delle sensazioni di pelle taciute.
Ed avevo dimenticato come ci si sente quando, per un solo istante, il sangue trova lo sgorgo giusto, e riesce a scorrere fluidamente, senza ostacoli, senza bloccarsi nella gola, dando modo alle parole di farsi strada da sole.


Alle 16.30, a Novembre, il cielo ha ancora bei colori, tiepidi. E c’è un momento poi, quando la notte si veste e si fa bella prima di uscire, in cui i colori non sono distinguibili, in cui la luna velocemente si impone e il vento cambia lentamente. L’accennarsi del freddo della sera, il vapore della tazzina ad offuscare corrispondenze di sguardi. Nulla di definito, niente che avesse un nome, o una definizione, eccetto il mio caffè al ginseng.


Un caffè alle 16.30 è una riscoperta, per me che ne bevo solo la sera. I tavoli blu una costante, ed escamotage buoni nell’imbarazzo di dire. Ci sediamo?
Allora? E’ molto che mi aspetti?
Che si finge sempre, m’hai detto una volta. Che non c’è confine tra la verità e la menzogna.
No, sono appena arrivata. Ho visto solo l’imbrunire dentro uno sguardo ed un futuro da costruire, alle 16.30 di una domenica qualunque.




E’ che è molto che mi aspetto. E’ che mi sto ancora, dannatamente, aspettando.