giovedì 30 giugno 2011

Darsi pelle e sapori



►Say, Cat Power


Poi se oggi dovessi dirti, se oggi potessi raccontarti, forse resterei in silenzio.
Ho poggiato i dadi sul tavolo, spostandoli con la mano verso di te. T’ho detto gioca, t’ho detto vinci anche per me. Io non gioco più. Se il confine tra ciò che sono e ciò che desidero è così labile, se le mani non bastano ad esprimere il mio assenso, applaudendo. Se la voce è rauca da tempo e non ho motivi per continuare a parlare. Se mi spingo ogni volta oltre il limite del possibile, se le strade da percorrere son altre e io invece corro dritto. Svolta a destra pericolosa, strada a sinistra noiosa.

E se oggi dovessi parlarti, se oggi potessi raccontarti, ti direi che forse c’è davvero un tempo giusto per giocare una partita, 0-0, dadi al centro. Non sempre i tempi sono quelli giusti, non sempre i muscoli rispondono con immediatezza agli input della mente. E non sempre la mente manda gli input al muscolo giusto. Quello che importa è che Lui continui a battere forte, indipendentemente dagli stimoli. Forse, semplicemente, gli eventi si succedono con una velocità ingovernabile, frammenti, digressioni, spezzoni, fotogrammi di vuoti d’aria e pesantezze. Ché a volte il tempo davvero non lo sento, passa come vento nella scollatura della maglia, un soffio tiepido, che niente porta via. Altre volte corrode il cerchio dei miei doveri, scritti e circoscritti in un’ambizione. Vortice nauseante, ma passione incorrotta.

Ma se oggi potessi dirti, se oggi dovessi parlarti, ti direi di non giocare, di non farlo più, di gettare i dadi e non sperar di vincere, di godersi, io e te, nei giorni che non valgono niente, di darsi agli eventi, di darsi ad una musica qualunque e ballare, ballare, ballare. Ballare. Di muoversi al ritmo di vecchie promesse che hanno lo stesso suono di un tuono, quando rompe il silenzio e non porta la pioggia, quando promette freschezza e poi non mantiene. Viversi per un giorno per il senso che ha un solo giorno. Darsi pelle e sapori. E non guardare l’orologio per ore, che poi se son giorni che fa.

Ma ti lascerò giocare, lanciare i dadi in aria, guardarli cadere giù. La somma più alta - la fortuna - sai, fa la vittoria, non il vincitore. Ed io non parlerò, e tu continuerai. Io non racconterò, tu lancerai. Magari è la volta buona, magari stavolta vincerai.

domenica 26 giugno 2011

L'orchestra naturale



►Plus d'hiver, Y.Tiersen e J.Birkin

La voglia di fare era andata perdendosi dietro rimorsi e rimpianti, soliti ignobili sentimenti di fallimento. Così diversi e così fermi. La notte durava troppo poco, il giorno sembrava interminabile.
Avrei volentieri fatto una passeggiata di notte, per non sentir le voci e i rumori assordanti della città in movimento, per non veder altra luce che la luna. Avrei ritrovato la mia casa in campagna proprio lì, in uno scorcio assonnato di città. E’ che le stelle da qui non si vedono, come fossi più lontana dal cielo. Nel giardino di casa mia, oltre ai fiori e qualche trifoglio, avrei creduto di cogliere anche una stella. Così vicina e così grande, mi ha visto vivere con gli occhi gonfi di speranza. E andare via e ritornare e andare ancora via. Per poi tornare. Roma invece ha le gote rosse di caldo e sudore, sbavature di trucco su un volto troppo bello per esser così vecchio. Ascolta gli stornelli stonati di gente che vive di passione e risate. E’ bella, è brulicante, ribolle. Ma io vivo di alberi e montagne e fiumi e mare e canti che sono orchestre naturali e tintinnii dell’acqua che si trascina via. Io vivo di respiri profondi a polmoni bene aperti, di corse a piedi scalzi sull’erba, come fosse un tappeto esposto in salone. Roma è in apnea. Io voglio aria.



Si avvicina il tempo del ritorno, quello in cui basta un soffio di vento a coccolarmi, quello in cui il caldo non fa soffrire, gli alberi fanno ombra. Il mattino mi accarezza, non bussa forte sulla spalla, mi accarezza. Mi chiama con la sua voce calda di mamma, mi chiede se preferisco un cappuccino o un caffè, o se l’estate comincia a farmi sentire la voglia di un frutto. La freschezza sotto il palato. Succo di frutta, per cominciare la giornata. La possibilità di leggere nel verde, accoccolata in un sogno che è piccola realtà. E’ lì che l’ho ritrovata, la voglia di fare. [...]


Ho scelto di non vivere lì, ho scelto altre strade, altri sogni, altre realtà.
Ma so, io so cosa vuol dire l’odore di terra, l’odore di verde. So cosa vuol dire essere svegliati da un odore che è senso di ogni cosa.

martedì 21 giugno 2011

Vuoto e vento









►Ways to make you see,
Y.Tiersen e S.Wright



Una scala mi conduce giù, al buio, dove non c’è spazio, non c’è tempo, ma ci son due braccia. Due occhi. Due spalle forti.
"Dammi il tempo di guardarti"
Al buio i contorni si definiscono piano, creando quell’attesa che è tipica delle emozioni più forti, che fa venir voglia di muovere le gambe, come se ciò che si aspetta o la fine del tempo si potesse raggiungere fisicamente. Braccia e gambe, fiato. Qui, dove il tempo non esiste, non c’è fretta, mai.
E qui, al buio, tu lo fai, disegni. I tuoi occhi sono coperti da una patina sottile e trasparente, lente di ingrandimento per guardare e riprodurre quello che io non sono in grado neanche di vedere. Io, che se guardo oltre me vedo un vuoto enorme e tanto vento. Alla luce o al buio, vedo e sento solo tanto vento. Tu nella cecità delinei forme e volti e labbra e carne. Seni rotondi sotto vesti di seta. Lucida e morbida, sembra di poterla toccare. Nella cecità del buio pesto, tu disegni, disegni con le ciglia, pennelli umidi di vernice salata. Acqua, tu dipingi con l’acqua. Trasparenze incrociate, sensazioni vissute in apnea.
Io mi limito ad indicare, "vedi, quello lì ha i colori giusti e le sembianze audaci, sfumate da un chiaroscuro freddo". Chiaro-scuro è la condizione perfetta, considerando il significato dei due termini presi singolarmente. Metà strada, la non scelta. Stasi e equilibrio, in qualche modo. L’equilibrio che io perdo, se non c’è luce.
"Accendi la candela"
Solo per vederci meglio, ché tanto il fuoco lo sa che non c’è niente da bruciare. Flebile fiamma dietro le tue spalle, la luce ti dà un aspetto nuovo, più serio, quasi scontroso. E’ che tu, tu dipingi solo al buio.
Lo spiraglio di luce, al di là del mio sguardo, concede riposo ai miei occhi. Sarà la penombra, quella condizione di serenità che cercavo così affannosamente. O saranno due braccia, saranno i tuoi occhi ad annientare il rumore che fa una sconfitta nella cassa toracica e dentro la testa. Rimbomba e non molla, rimbomba e poi stanca.
Mi giro.
Poi vedo la tela, chiara e lucida, segnata da tratti trasparenti che dicono e danno. Mi legano le mani, poi le braccia, poi i sensi. Legata, son legata. Lo stomaco grida, i perché che si svelano, l’equilibrio si assenta, il buio ora è luce. Improvvisi soffi di vento, la voglia di aprir le braccia, la sensazione che si prova dopo una corsa, sotto il cartello traguardo.
"Ora, dammi il tempo di guardarmi".



 Aveva dipinto il vento, aveva dipinto il vuoto. Aveva dipinto esattamente quello che io sento. 

venerdì 17 giugno 2011

Metanarrar






►Nude, Radiohead

Grovigli di idee.
Da battere a macchina per far sì che un progetto prenda forma. Quanto amo la parola forma. Ché non è più un’idea, è una forma. E quanto amo veder cambiare le cose, sotto gli occhi, dentro la pelle, sul viso. Quanto amo le palpebre. Nude. L’ombretto maschera e imbratta ciò che, nudo, è sensuale. Solo una riga di nero, sulla linea dell’occhio. Un ventaglio bianco è il pezzo forte, sulla scena. Un fiore argento opaco tra i capelli, perché brillante è artificio.


Grovigli di idee per riempire una storia. Che sarebbe tale se fosse già piena.
Uno sfondo di cartone sul palcoscenico è impressione ed espressione di un sentimento che nasce. In uno spazio che è terra lontana, tra vegetazione che ride e fumo di legna calde. Da avere davanti, come realtà da inventare ancora. Se potessi, sai, se potessi, ci butterei dentro la vita. Farei parlare i personaggi con la tua bocca, disegnerei il tuo sorriso tra virgolette. Citazione di.



Grovigli di idee che son consonanti. E allegorie scomode di un significante esanime. Da battere a macchina, da battere forte, prima che sfuggano ai polpastrelli, attirate da un sogno più grande, un’invenzione degna di esser definita tale. Imprimerle bene, saperle pronunciare, saperle scrivere, saperle ascoltare.


Grovigli di idee da sciogliere piano, carezzare la penna, stimolarla. Che cammini da sola, mi auguro. Che tracci sceneggiature di un tempo contemporaneo, invisibile per molti, materializzato in maschere e parole che altro non sono che vite vissute. Da rivivere in massa, da vestire in estate, stoffe pregiate travestite da stracci. Inventare una trama, riuscirci davvero, trovarla negli angoli stanchi di una fantasia che cede pian piano.


Ma me l’hai insegnato tu che si può avere dalle mani, che si può dare coi pensieri, che si può essere mille e uno, che ci si può concedere totalmente all’altro, senza restrizioni e imbarazzi. Che si può inventare una vita intera. O far finta che una vita sia solo un’invenzione.
O una citazione di.



(Se potessi, sai, se potessi, non ci sarebbe trama né finzione, non ci sarebbe monologo, né sonetto.
Se potessi, sai, se potessi, saresti tu quel progetto.)

 





A Manuel
 

 A ManuelA

mercoledì 15 giugno 2011

Tra la fine e l'inizio






►The waves, Elisa

01.30 La notte è scesa in un istante, un minuto prima sembrava mattina presto. Indossava una maglia a maniche lunghe, verde smeraldo su pelle nera.
"Fa troppo freddo per essere estate. Effettivamente, estate ancora non è."
Verde smeraldo su pelle scura, sarebbe stato il mio abbinamento, in una di quelle estati che sono buone per rigenerarsi, per dar modo al sole di coprire cicatrici e percorsi tracciati dalle vene.
"Un cocktail alla menta. Fredda. Mi riscalderà."
Ma un cocktail dice poco, quando le voci e i volti che hai intorno sono così familiari che ogni fantasia su di loro è vana. E non renderebbe giustizia ai pensieri veri. Mani a stringersi, occhi a perdersi, saluti formali, incontri casuali. E il rumore felice dei bicchieri che si toccano, in un brindisi che sa di riscoperta. E di menta.


02.15 "E’ arrivato anche Giugno, sembra ieri Natale"
Cambia la forma, mai la sostanza. Il rosso di Dicembre si è scomposto in sfumature di giallo, tratti di verde, tocchi di blu. Cambia l’apparenza, non la consistenza. Morbida e gustosa, pastosa.
"Le stagioni cambiano, i tuoi occhi son gli stessi". Con un battito di ciglia ho troncato la tua frase, l’imbarazzo ha spostato il mio sguardo oltre te, dove l’orizzonte si annulla su pareti di terra che non hanno un nome. Da scalare la mattina presto, dopo una notte serena. Hai rivissuto flashback di umori e intenzioni contrastanti, legati da un filo ben saldo, che invece un nome ce l’ha. Hai scelto quest’ora e lo stato d’animo di questo momento per dirmi che lo fai, per dirmi che ci pensi: "abbiamo avuto un inizio e una fine, il motivo lo sto ancora cercando".



03.45 "Sono quasi le quattro, è meglio che vada", t'ho detto.
La prima volta che vidi la tua città, arrivammo alle 4. Di voglia di dormire, dopo un viaggio che sembrava interminabile, neanche l’ombra. Mi facesti la stessa domanda, con occhi meno attenti. "Hai sonno?" Silenzio. "Allora? Hai sonno?", mi hai chiesto di nuovo, ad occhi spenti. "Neanche l'ombra", ho ammesso.



05.50 Il mattino poi è sopraggiunto in un istante, un minuto prima sembrava notte fonda.




 



►Foto: nuovo inizio, Eteronima





E l'alba, quell'alba che abbiamo visto da lassù, non è che il confine,
l'intervallo surreale, tra la fine e un nuovo inizio.

venerdì 10 giugno 2011

Einmalig








►Nicest thing, Kate Nash


Un soffio di vento contrario. Hai presente il rumore che fa?

Torno a casa ed è il volante a guidarmi, questa strada la conosce a memoria.
Non più strisce a dividere le corsie, ma pezzi di fotografie. I lampioni tentennano, ogni angolo, dannazione, ogni angolo è un pezzo di te. E un soffio di vento contrario cos’è se il limite massimo l’ho superato da un pezzo, un soffio di vento cos’è se abbiamo avuto un cielo intero e folate improvvise e panorami allucinati. Di noi.

Sai, hanno asfaltato la strada, dal ponte sul fiume al bivio che porta alla fabbrica. Quante volte l’hai dipinta come un aeroporto, o come un porto, vista dalla vetta più alta. Perché, contornata da luci, era immersa nel buio. Al buio le mani, al buio i pensieri, al buio la bocca. Accolti nell’abbraccio arancio di questi monti, quante istantanee abbiamo scattato, di mani legate e urli e corse a perdifiato. E le foglie, le foglie, quante parole hanno assorbito. Come ossigeno. Cadranno, mi son detta, in autunno. Di stagioni, sai, ne son passate, le foglie però son rimaste aggrappate.



La strada sembra scorrere sotto le ruote ferme, mentre la radio trasmette quella canzone, proprio quella lì. Apro il finestrino per respirare di nuovo quest’aria. Sandali e bracciale, come quella sera, sono dello stesso colore della maglia, sono dello stesso colore della terra. La frangia è lunga, mi fa presente che il tempo passa.


E sono gli anni, quelli che vedo correre e scorrere sull’altra corsia. Sono gli sbagli, sono i rimpianti. Quel vento è ricordo, quel vento non è altro che un pianto.
E quelle montagne parlano ancora dei nostri viaggi immaginati e di quelli fatti, raccontano dei nostri occhi sbarrati in attesa del prossimo volo. Aeroporto immaginario, andata e ritorno a basso costo e in poco tempo. Su strade di un cielo mai esplorato, terra nuova in mare aperto. Combinazione di opposti, di einmalig, di forme astratte e passioni. Passioni.


Un soffio di vento contrario. E’ questo il "rumore" che fa.

martedì 7 giugno 2011

La vita tra le mani

(La nuca piegata da giorni sullo stesso libro e la sensazione di non aver fatto abbastanza corrodono i sensi e la percezione, come fossi fatta di pietra e la penna non fosse che uno strumento. E invece no. Che riesca o meno nel suo intento, la penna è vita tra le mani.)

Ci sono attimi che, in qualche modo, ti appartengono da sempre.
Ci sono attimi che restano aggrappati alle pareti della stanza come quadri senza chiodo, che non hanno nessun appiglio se non lo sguardo di qualcuno. E fuggono le intemperie, dannatamente fermi, al chiuso. Che mi scrutino, che siano loro a guardarmi, temo. La prospettiva deforma le immagini, le frantuma. Le uccide, a volte.



Ma sorrido mentre vedo gocce di vernice scivolare lungo la cornice. Tendo la mano, le raccolgo. Gelosamente le custodisco. C’è vita, qui tra le mie mani, c’è grinta, c’è una tela vuota e una tavolozza a pois ancora intatti. E l’inganno dei colori è da scacciare, l’inganno degli sguardi da dimenticare.

Un arrivederci ha attraversato i muri come un fantasma alla ricerca di anime da toccare, di corpi da stringere, da perdere e ritrovare. Un arrivederci che ha il sapore aspro del limone e la franchezza di chi non prova. Un arrivederci che non ha bisogno di parole, ché tutto è già in un attimo, in un quadro in cui le tinte sembrano riassumersi in pochi tratti, in cui il pennello diventa un martello pronto a fissare il chiodo sulla parete. Ché gli occhi non bastano, ché senza appiglio non si riesce.



Ci sono attimi che, in qualche modo, ti appartengono da sempre.
E ci sono quadri che invece non rappresentano niente.




(Che riesca o meno, la penna è vita tra le mani.)
 

giovedì 2 giugno 2011

Un Si bemolle e un movimento lento



►I found a reason, Cat Power

 Scegliesti la chiave giusta, da disegnare accanto alla mia melodia.

Scegliesti le note e le pause giuste, i modi e le tonalità.
Restasti impigliato alle linee vuote del pentagramma, imprigionato tra i fili del mio equilibrio. Instabile, precario, in bilico perenne.

Suonasti con le dita quei fili, come con uno strumento a corde.

Spostasti l’aria e i miei capelli, dando alla luce onde sonore e battiti più forti, di quelli che spezzano il respiro e congiungono gli sguardi. Pieni di corsi d’acqua salata, ancora vuoti di te.
Guardasti il mio petto, mosso dal ritmo del respiro. Suonasti nel mio stomaco, forte e piano, poi più forte, ora piano. Avvicinai la mia mano a te. Guardai i tuoi occhi per quelle ore che son solo pochi secondi, e tu continuasti a toccare le corde del pentagramma. E le mie.


Mi avvicinai a te. Tu, sospeso a mezz’aria su scale di Do e oscillazioni dense. Io, sospesa a mezz’aria su un Si bemolle e un movimento lento. A rintracciarti in un suono. A catturarti negli spostamenti d’aria. A scrivere una sinfonia, se necessario.

Vissi dentro una melodia per pochi minuti, o ore. Nel torace, tra il pulsare e il respirare, c’ero anch’io. Come se il mio corpo si fosse improvvisamente chiuso in sé stesso ed il sangue, quello sciocco, si fosse fermato ad ascoltare, per poi riprendere il suo flusso. Più forte.

Scegliesti la chiave giusta. E lo strumento, anche.
Scegliesti la tonalità perfetta.
Scegliesti il tuo pubblico.
Ma non rispettasti mai il tempo. Violato da interferenze elettriche, prodotte e riprodotte da uno stereo qualunque. Ma tu suonasti con le mani, ma tu suonasti coi tuoi occhi e con la voce. Suonasti le mie corde, intonasti le mie voglie.

Ma non rispettasti mai i miei tempi, mai.