giovedì 29 dicembre 2011






Poi accarezzava, testa bassa, il bordo merlettato della maglietta.
Pensava.

A quel Natale che non portò neve.
A quel Natale che fu una rinascita vuota, di sogni trattenuti ed ancora irrealizzati.
Alle gambe di lui in quell’inizio di inverno.
Al freddo.

( Come quelle gambe correre forte sulla strada di sempre.  
Come i suoi occhi di allora tornare a guardarle. )

Guardava il gelo sul prato, con uno sbuffo spostava i capelli dal viso, mentre nascondeva le mani in tasca. A cercar calore. A trovare casa. L’istinto si scopriva prudente, sorprendentemente. E i gesti si confondevano, sul finire della notte, con flashback di emozioni (che fummo. E che mai ci dicemmo. ) La notte indossava il suo abito migliore, addobbata di luci e parole. Lei, all’angolo del tavolo, giocava con i ricordi. ( Forse un  anello tra le dita, forse sguardi intessuti di sensi.)

E poi folate – improvvise e pure taglienti - di vento gelido, ad aprirci gli occhi.

( C o m e   q u e l l e   n o t t i  c h e  s o n   f a t t e   p e r   t r a d i r s i.  
C o m e   q u e l l e   n o t t i   c h e   s o n   f a t t e   p e r   t r a d i r c i. )

Pensava.
A quel Natale che lo portò da lei.
A quel sentimento scomposto, ancora inventato, mai completamente vissuto. Lo sentiva ogni volta sotto le ciglia, premere forte come ad impedirle la vista. Oltre, nebbia.
Pensava a quel Natale che non portò la neve.
Che, con la neve, restò aggrappato agli addobbi.
Che bruciò in un falò il giorno della vigilia.
Che disse bugie.

(Ma che ti portò da me.
Che mi portò da te.)



-Buon anno a lei, 
buon anno a me.-

martedì 20 dicembre 2011

Il trucco delle vesti



Drappi di stoffa a formare un’unica veste. Nel disordine agitato della notte ricostruimmo, pezzo per pezzo, la voglia di scoprirci.

Ci spogliammo.
Ci spogliammo come fa la luna all’invecchiare della notte, lentamente. Ci spogliammo ed era tarda l’ora, per rivestirci disordinati al sorger del sole. Ci mescolammo come carte in una mano di poker, quando dietro c’è il trucco. Col rischio, recondito e ancora sconosciuto, di perdere tutto. O di vincere. Ci mischiammo e non potemmo scorgerci, come carte ancora in mano ai giocatori, a guardare ognuna in una direzione differente.

Drappi di stoffa a formare un abito solo, pelle. 

Ma noi ci spogliammo piano, vesti come pezzi di vita da raccontare, da toccare uno alla volta. Avvertimmo la stoffa tra le mani, potemmo toccarne la trama, e della trama nostra conoscere meglio gli eventi. Ma non parlammo, quando fuori pioveva e l’aria era calda, non udimmo e non dicemmo parole, mentre la luna mostrava la sua angolazione migliore. Pudica, concedeva poca luce, aspettando, paziente, di potersi mostrare. Perché è come se svelasse un segreto, la luna, quando si affaccia piena sulla nostra vita, per addormentarsi pigra e risvegliarsi nuovamente intimorita. Come occhi timidi dalla finestra, come una finestra su mille occhi. C’è una timidezza sottile, nel darsi senza concedere mai.

Drappi di luce come frammenti di vita.

Ci spogliammo, e nel farlo ci rubammo qualcosa. Ci parlammo e rischiammo duro, in una di quelle mani in cui sei sicuro, c’è il trucco. Ma ci spogliammo piano, come la luna al principio della sera. Ed il trucco io lo capii, dietro chilometri di sensazioni taciute, dietro il senso delle parole ancora da capire.

Ci rubammo qualcosa. Ci spogliammo e ci incatenammo all’altro, rapinandolo. Drappi di vita come frammenti di stoffa. Drappi di stoffa come pezzi di vita.


Image by www.etimo.it
Da Bonomi, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana
                                                                              

martedì 13 dicembre 2011

La notte che non mente





"Guardami".
Milioni di sguardi in un momento.

Sceglievo la notte, per decifrare i messaggi della sua assenza. Sceglievo l’assenza, dietro volti e parole, per sfuggire alle promesse. Sceglievo ancora la notte, dietro i riflettori delle sue attenzioni, e scivolavo poi lentamente nel sonno, per dar pace ai pensieri. Figli di niente, fini a sé stessi. 
Srotolavo le attese, come gomitolo da riavvolgere poi. Nell’attendere, che pure era piacere, incanalavo le aspettative nella vena del niente, come flusso forte e arrabbiato che non ha sgorgo, né sorgente. Figlio di niente. Perché niente è al principio del darsi per necessità, che mi accompagnava prima, e che pure mi accompagna ora. 
Per paura nascondevo le mani, come se amare significasse necessariamente toccare. Ma con gli occhi, con gli occhi noi ci davamo di più. E bastava abbassare lo sguardo per incontrare il suo in un riflesso di luce, per ingannarsi di nuovo e avvicinare le mani. Perché amarsi è un inganno, e guardarsi diventa sempre una bugia. Ma la notte, lei non mente, ché a parlare son solo voce e pelle.

Mi dicevi "Guardami".
Ed io vedevo milioni di occhi in un solo sguardo.

Inciso negli occhi ora ho un graffio, e sotto le unghie vernice. Frammenti di pareti a cui mi aggrappai. Sotto le unghie la terra, della strada consumata nel tempo. Sulla bocca, sulla bocca ora ho un altro sapore. Nella mente, sforzi e desideri contratti. Di mani che non son le sue, ogni notte. Di occhi che non sono i suoi, ogni giorno.
Ma scelgo ancora la notte.

Per non raccontarmi più bugie.

martedì 6 dicembre 2011

Blu notte




Non più parole arricciate tra i capelli. Non più mani a districarle e ad impararle a memoria.
Ho curato ferite grandi e assecondato, con la smorfia afflitta del viso, la forma curva della mia cicatrice. E’ un processo naturale, quello che fa del sangue crosta e della ferita segno. Ma con la musica, mi disse qualcuno, con la musica si disinfetta, e con le parole –le proprie parole- si blocca il sangue in eccesso. Ho ascoltato, e stretto forte i polsi ogni sera, e ceduto all’inganno del raccontarmi. Scoperto presto, sfuggito poi. Ora taccio. Ché le parole, l’ho sempre pensato, storpiano i pensieri. Ancor di più, quando questi sono grovigli di sensazioni inespresse, intrecciate all’incertezza, saldate forte l’una all’altra in un ballo continuo, ed infinito. C’è musica anche lì.
Ma ha un suono nuovo, questa notte, ad ascoltarla dalla stessa finestra di sempre.

Ti è mai capitato? Che, per quanto poco possa valere, non ci fossero parole per spiegare un momento, e che tu le cercassi, ostinato, per trovarle poi, chiare, solo dentro un odore.

Non più parole da ascoltare, in questa notte svestita che non ne ha mai abbastanza. Non più mani sulla pelle, ché son quelle che dicono di più. Senza voce anche i pensieri, così muti e così semplici che diventa un processo naturale pure quello di non rompere il loro silenzio. Di viverlo.
Ma ha il tuo odore, questa notte, ad annusarla dalla stessa finestra di ieri.

E il tuo colore, a guardarla invecchiare, sapiente, sullo stesso cielo di sempre.

mercoledì 23 novembre 2011

Non in inverno



La chiamano ironia della sorte.
C’era motivo per andare via, mi dicevi in uno degli ultimi venerdì d’estate. E’ facile, pensavo tra me e me, lasciare andare tutto in Agosto. Trovar calore in altro modo, non sentir freddo mai, non nelle attese, neanche nelle mancanze. Trovare negli angoli di questa città una via d’uscita. Negli angoli. Nelle strade buie e senza uscita di Roma vecchia vedere un’uscita. Avanti, sempre dritto, una luce in fondo ci sarà. Pensavo, di nuovo pensavo tra me e me che è facile, d’estate, prendere altre rotte, puntare nuovi territori da esplorare, nuove voci da ascoltare, culture diverse a mescolarsi con la propria. Ma non in inverno. Ché col freddo gelano anche i sensi, e ci si scalda solo coi ricordi. Pensavo ai profumi: quelli no, non muoiono col freddo. Resistono, sulla linea sottile dell’olfatto, sotto il naso, sulla bocca. Diventano sapori. E reminiscenze sepolte eppure eterne, a risvegliare le dimenticanze.

Sarebbe stato difficile, pensavo, sarebbe stato difficile non sentire la tua assenza dietro un odore, dietro una voce, sotto una coperta, in inverno. Pensavo che sarà del mio Natale, delle carezze attese per giorni e sempre appese alla finestra, ad aspettare un tuo ritorno.

La chiamano ironia della sorte se, sul lungomare di Nizza, un venerdì di quasi sei anni fa, ci abbracciavamo per la prima volta. Se per anni ho atteso che tu tornassi, ogni venerdì. Se mi hai baciata sulla porta di casa, di venerdì. Se un venerdì qualunque sei andato via.

La chiamano ironia della sorte e mi vien da sorridere se, per un nuovo volto, un qualunque volto, ho atteso ancora che fosse venerdì. Ed attendo. Un nuovo mare, un odore, un nuovo abbraccio, un sapore, un nuovo bacio. Una luce.
Per le stesse strade. Lungo nuovi scenari.

In un Novembre che inverno - e freddo - non è.

mercoledì 9 novembre 2011

Alla distanza (delle banalità)










Lo senti? Il singhiozzare delle note, il loro poggiarsi, tra una pausa e l’altra, sul costato. Senti premere? Senti?
Mi regalasti una canzone in un giorno di pioggia. E si annodavano – lacci saldi ad incastrare le pelli nostre – i miei La alle gocce che, piano, toccavano la terra. Come a svelare improvvisamente un segreto, quel tlin che fa dell’acqua il suono della riscoperta. Scoperta era il tuo viso, primo piano della scena - perduta- , l’ultima, di un film. Il dettaglio poi, il dettaglio delle ciglia, inarcate dall’incertezza, precedeva l’immagine ancora nitida della pioggia sullo sfondo. L’incertezza. Di me che levigavo le note per farle rotolare bene sulla schiena, brivido buono, caldo. Di me che inventavo un movimento per le dita, che nell’aria si perdevano a cercar appiglio.
Per non toccarti ancora, per non sfiorarti mai.

Lentamente allungasti una mano, con l’intento di bagnare il palmo e di assorbire poi, sulla linea della vita, quel frammento che. Quel frammento che è altra vita. Così piccolo. Eppure litri di acqua riempivano le tasche del giorno, e la notte, curva su sé stessa, attendeva esausta una carezza.Da lontano, mi dicesti guardando la goccia sul palmo, da lontano tutto è così piccolo.Che non sia un invito alla curiosità, ad aver fame, sempre, delle cose che non ci appartengono. Che non sia un nuovo invito alla riscoperta, la prospettiva deformante che fa di un uomo, alla distanza, un puntino nero, immobile. Che non sia un invito a scoprire cosa c’è - sapendo che c’è – tra quel puntino e l’immagine di te, che invece è definita.
Lo senti? Il singhiozzare dei giorni che piangono, in questo Novembre che non splende mai? Lo sento io, e non lo piango. Lo sento e lo sfido, ché un sole buono ci sarà.

Mi regalasti una canzone in un giorno di pioggia, avevi tra le mani un po’ di vita –sulla linea della vita-, ti vedevo andare via a pugni chiusi. Ti vedevo, da lontano, mentre la pioggia smetteva di suonare.

Per non toccarti ancora, per sfiorarti poi.

giovedì 3 novembre 2011

Corrispondenze



Njòsnavélin, Sigur Ròs


16.30, solito bar. Il caffè al ginseng è una riscoperta, i tavoli blu una costante. Punti fissi per gli occhi, da qualche anno persi nell’andirivieni di una città che non ha riposo, che è in continuo movimento. E’ molto che aspetti?
Avevo dimenticato l’appuntamento. E’ che mi perdo dentro me stessa, e mi ritrovo, poco dopo, nell’incontrare uno sguardo che sa raccontare. In campagna, un caffè e le emozioni vecchie a ritrovarsi. In mezzo ad un prato un caffè. In un caffè sguardi rallentati e abbracci sospesi. Delle sensazioni di pelle taciute.
Ed avevo dimenticato come ci si sente quando, per un solo istante, il sangue trova lo sgorgo giusto, e riesce a scorrere fluidamente, senza ostacoli, senza bloccarsi nella gola, dando modo alle parole di farsi strada da sole.


Alle 16.30, a Novembre, il cielo ha ancora bei colori, tiepidi. E c’è un momento poi, quando la notte si veste e si fa bella prima di uscire, in cui i colori non sono distinguibili, in cui la luna velocemente si impone e il vento cambia lentamente. L’accennarsi del freddo della sera, il vapore della tazzina ad offuscare corrispondenze di sguardi. Nulla di definito, niente che avesse un nome, o una definizione, eccetto il mio caffè al ginseng.


Un caffè alle 16.30 è una riscoperta, per me che ne bevo solo la sera. I tavoli blu una costante, ed escamotage buoni nell’imbarazzo di dire. Ci sediamo?
Allora? E’ molto che mi aspetti?
Che si finge sempre, m’hai detto una volta. Che non c’è confine tra la verità e la menzogna.
No, sono appena arrivata. Ho visto solo l’imbrunire dentro uno sguardo ed un futuro da costruire, alle 16.30 di una domenica qualunque.




E’ che è molto che mi aspetto. E’ che mi sto ancora, dannatamente, aspettando.





giovedì 27 ottobre 2011

E poi gli occhi miei



►Dance on my skin, Mi and L'Au


Ti spiego un istante.

Mi chiedi stai bene.
Il tempo si arrotola piano, poi corre, sulle discese sassose degli istinti miei.
Gli istinti miei che risalgono, spinti da una nuova corrente. Vento tiepido, e discreto. 
Le gambe tue pure fredde. E immobili, ad aspettare nuovi orizzonti. Di un Sud immaginario, scenario di scene mai viste.
Mi chiedi stai bene.
La voce tua che pure vibra, tra note che di passione (si) cibano. E poi gli occhi miei.
Lentamente. Lega i miei capelli ai tuoi, di nodi inconsistenti. Districa le ore trascorse. E con le dita, con le dita disegna profili sulla mia schiena. Del tempo trascorso. Con le dita percorri il mio viso. E sotto gli occhi poi fermati. Ché sulle gote sembri, oppure diventi, goccia e riflesso di me. E le mie gote divengono, oppure appaiono solo, traccia di te.
E il disegno di te sulla pelle.
E il disegno di te sulla pelle.



Fallo lentamente. Annoda le parole alle mie dita, stringi i miei polsi e guarda le gambe. Son ferme a riposare, reduci da corse già concluse. E son fredde, ad aspettare cartine geografiche di un Nord sconosciuto.

Ti spiego un istante.

Lenzuola stese ad aspettare il sole, in un inizio di inverno che è ancora caldo.

Ti descrivo un odore. Mi dici che è buono. Mi tocchi le braccia. Guardi le mani. Scivoli piano. S’annoda il pensiero. Mi scopri le spalle. Un ritaglio di tempo. Lenzuola già asciutte. Un viaggio che dura una notte. Una notte in un viaggio. Le dita tue che somigliano a mille matite.

Ti spiego sto bene.
Mi chiedi un istante.

domenica 23 ottobre 2011

E la memoria cos'è


Dal sonno dei ricordi – di quando ci si batte, addormentati, nella guerra, pure assopita, della dimenticanza – mi risvegliai affrettata, a cercar tra le fotografie quello che avevo tralasciato spostando l’obiettivo verso bei profili, immortalando l’apparenza, allontanando il vero – anch’esso bello, nella sostanza e poi nella forma – dal flash.
Scivolava ogni corpo sulle pareti della pelle, diventata lastra impermeabile. Sostanza viscida era pure il sentimento, violentato nei principi suoi di libertà. I suoni assenti, nell’inesistenza di gesti. E mani aperte e tese verso il niente. E volto e sguardo persi ad inseguir costanze. Di quello che c’è per consuetudine, che non si lascia amare, e di cui si rifiuta, incoscienti, l’amore.

Nel sonno dei ricordi, avvinghiata all’immobilità nervosa dei rimpianti, sedussi altre parole. E queste, intrappolate tra ipotesi di tempi verbali, mi dissero in futuro semplice. Futuro semplice, ma incerto. La memoria allora cercò appiglio, si rotolò su sé stessa e si piegò, all’aggrottarsi delle mia fronte, su una sola frase tua, ricordo, passato remoto, movente di una sensazione che io provai – forte e violenta e fredda – all’alba dell’incontrarci: "io non vorrei avere ricordi."

Sì, scivolava ogni corpo sulle pareti della pelle. Nel momento esatto in cui le tue parole cadevano sentii i muscoli cedere al loro passaggio, sentii raggomitolarsi le fila di un discorso consumato da anni, e le fotografie, spezzoni di vita bruciata, valere niente. Sulle gambe scorrevano, le tue parole, cercando sosta tra i pori, succhiando vita da dentro. Sentii la vita, la vita e nient’altro, passare dalla pelle. E rientrare, ritmata da un respiro profondo, intromettersi, comandare i miei movimenti. Dimmi, come lo fotografi un istante così? E la memoria cos’è quando si agisce per sensazione, quando uno scatto è vile interruzione e quando la mente non registrerebbe che la eco – debole e già fredda – di un fuoco che riscalda al suo accendersi. E che poi non resiste. Che poi si spegne.

"Io, invece, non ne ho. I miei son presente che non sente il tempo e che non lascia il suo."

Nella veglia dei ricordi – di quando ci si batte, ostinati, nella guerra, pure testarda, della memoria – mi ritrovai esausta, a cercare, tra le parole, quello che ho tralasciato.

Forse

solo una fotografia.

Dal sonno dei ricordi – di quando ci si batte, addormentati, nella guerra, pure assopita, della dimenticanza – mi risvegliai affrettata, a cercar tra le fotografie quello che avevo tralasciato spostando l’obiettivo verso bei profili, immortalando l’apparenza, allontanando il vero – anch’esso bello, nella sostanza e poi nella forma – dal flash.
Scivolava ogni corpo sulle pareti della pelle, diventata lastra impermeabile. Sostanza viscida era pure il sentimento, violentato nei principi suoi di libertà. I suoni assenti, nell’inesistenza di gesti. E mani aperte e tese verso il niente. E volto e sguardo persi ad inseguir costanze. Di quello che c’è per consuetudine, che non si lascia amare, e di cui si rifiuta, incoscienti, l’amore.
Nel sonno dei ricordi, avvinghiata all’immobilità nervosa dei rimpianti, sedussi altre parole. E queste, intrappolate tra ipotesi di tempi verbali, mi dissero in futuro semplice. Futuro semplice, ma incerto. La memoria allora cercò appiglio, si rotolò su sé stessa e si piegò, all’aggrottarsi delle mie ciglia, su una sola frase tua, ricordo, passato remoto, movente di una sensazione che io provai – forte e violenta e fredda – all’alba dell’incontrarci: "io non vorrei avere ricordi."
Sì, scivolava ogni corpo sulle pareti della pelle. Nel momento esatto in cui le tue parole cadevano sentii i muscoli cedere al loro passaggio, sentii raggomitolarsi le fila di un discorso consumato da anni, e le fotografie, spezzoni di vita bruciata, valere niente. Sulle gambe scorrevano, le tue parole, cercando sosta tra i pori, succhiando vita da dentro. Sentii la vita, la vita e nient’altro, passare dalla pelle. E rientrare, ritmata da un respiro profondo, intromettersi, comandare i miei movimenti. Dimmi, come lo fotografi un istante così? E la memoria cos’è quando si agisce per sensazione, quando uno scatto è vile interruzione e quando la mente non registrerebbe che la eco – debole e già fredda – di un fuoco che riscalda al suo accendersi. E che poi non resiste. Che poi si spegne.
Nella veglia dei ricordi – di quando ci si batte, ostinati, nella guerra, pure testarda, della memoria – mi ritrovai esausta, a cercare, tra le parole, quello che ho tralasciato.
Forse solo una fotografia.
"Io, invece, non ne ho. I miei son presente che non sente il tempo e che non lascia il suo."

domenica 16 ottobre 2011

Come tela





Intermittenze colorate, stanotte, illuminavano il mio viso e non la mia mente. All’accendersi di uno sguardo, il mio fuggiva e si abbassava, a cercare tra i passi la direzione giusta. Intermittenze siamo noi, vuoti d’ombra e flash. Effimeri.


Intermittenze colorate, stanotte, tra la folla entusiasta ed il mio accendermi bianca. Bianca per un solo minuto, a ritrovare la certezza/carezza che non ho. Bianca perché non si cambi, perché ci si inventi. Imprimere un colore nuovo su una base che ne modificherebbe soltanto la tonalità. Bianca come le lenzuola stropicciate e consumate in questa notte che ha oltrepassato l’alba e che è restata sul collo, scivolata lungo le braccia e poi sulle gambe. Sapiente e bella, ma l’ennesima ripetizione del niente. Resta aggrappata alle pareti, e preme, senza raggiungere le stanze di me.

E invece, come tela bianca, io cerco il mio ritratto. Tratteggia i miei sorrisi. Disegnami Passione. Colora bene le mie labbra. Fammi parlare, a matita. Indovina i miei occhi. Capisci le mani. Inventami un colore. Dammi un perimetro massimo e un limite giusto.


Non voglio ancora dare.
Non voglio ancora amare.


Come tela, io cerco solo il mio ritratto.

lunedì 10 ottobre 2011

Sulla punta delle dita






►Boats and birds, Gregory and the Hawk


Era un graffio sul palato.
Quando ogni sapore diventa bruciore, ed ogni consistenza uguale all’altra. Era un graffio da curare. Erano sensazioni da dimenticare. Da lì, dalla curva della bocca, i sapori, la consistenza delle cose erano inevitabilmente deformati, contaminati, reinventati. Me lo dicevo, la realtà non è la verità. La verità non è necessariamente la realtà.

E’ così che ci si opponeva alle cose, al senso vero delle cose. Drogati di noi, filtravamo lo sguardo attraverso illusioni fantastiche che pure ci parevano realtà. E’ così che contavamo i giorni. Li vedevamo scorrere come in una sequenza automatica. S’attendeva, insieme s’attendevano i titoli di coda, i ringraziamenti, la scritta the end. Il gusto delle cose, quello per cui vale la pena mordere e graffiarsi, era sentore – flebile, dimenticato - di qualcosa che non si può più.



Ho un sapore nuovo sul palato, e odori freschi di una primavera in autunno.
Ho un volto nuovo da guardare, nello specchio, e al di là di me.
La punta delle dita, lì dove tutto passa e diventa emozione, ricomincia a vivere. Le sento, le dita, respirare di nuovo. Desiderare. Sento l’ossigeno attraversare la pelle e salire, lungo percorsi di sangue, nello stomaco e poi più in fondo. Di nuovo, io sento.



Ho un sapore nuovo sulla pelle, ed un ricordo. Di quando i tuoi occhi erano riscoperte e le tue mani desiderio. Ho un sapore nuovo ed un amore archiviato. Sei stato sapore, odore e volto. Sei stato poi graffio, ora ricordo e paradosso. Di quello che – in realtà - abbiamo perso definitivamente. E di quello che – in verità - ci apparterrà per sempre.

Lì, sulla punta delle dita.




domenica 9 ottobre 2011











Ed in ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni angolo ed in qualunque volto, cercherò – stringerò disinfetterò - la mano tua. E asseconderò il tempo che toglie – che mangia divora scompone - certezze.


Sarai, quando non ci sarai, sarai ricordo inciso negli occhi, di teneri istinti.
Sarai, sempre sarai tutte le volte che non ti ho chiesto scusa, o quando non t’ho tenuto la mano.
Sarai la bambina che sei, che non è mai stata figlia, e mai grande.
Dell’amore lasci traccia. Della Vita tu hai il nome. E dal buio dei tuoi anni – o forse nitidezza, non lo so - dai tuoi tormenti, dalle lacrime e dai sospiri, me l’hai insegnata - donata e indicata -, la Vita.


In ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni strada e in ogni volto, cercherò – ritroverò, carezzerò, bacerò- la mano tua.





A nonna Vita,
a nonna mia.







giovedì 29 settembre 2011

Ma tu fingi che sia giorno












- Dimmi come sono. -
- Sei un viaggio, e poi tu sei natura. -


Fingi che sia giorno mentre spoglio il tempo, corpo senza petali né vesti. Senza trucco. Fingi un nuovo nome per il mio volto, e rughe e cicatrici che non ho. Ché la prima volta che t’ho visto inventavo espressioni col mio viso per incontrarti a metà strada tra un sorriso e una domanda, per incontrarti quando è niente a governare i gesti ed indicarti, nell’assenza di ogni suono, la nota giusta, che è nel guardarsi muti. Ché le parole sono maschera e trucco del sentire, ed io non son capace di tenere incatenati i sensi. Voglio scoprire.


Perché sei terra di confine, incontaminata e ancora sconosciuta. Sei continente, terra emersa ma ancora da vedere. E sei linguaggio a mascherarsi dietro una canzone. Sei sostantivo, mai aggettivo, e sinonimo del domani, sia pure un giorno solo. Dimmi quanti significati hai. Dimmi come si scioglie il ghiaccio del dirsi per formalità, e come ci si racconta senza accartocciare le parole nella bocca.


Ma tu fingi che sia giorno, quando la luce è spenta e la città dorme, fingi che sia giorno e insegnami la luce, inventa un nuovo mare e nuove strade da esplorare. Insegnami la luce, ché io non so guardare.


Tu sei lo stesso viaggio, sei la natura. E poi sei musica.
Muta.


 


"I saw a face / It was a face I didn't know /
Her sadness told me everything about my own."
 

lunedì 26 settembre 2011

[...]






►Stormy Weather, Little Dragon

Timidamente si affacciava l’autunno, con il sole ancora tiepido e le foglie marce a dondolare. Ne guardammo i colori, un giorno. Sapevi distinguere, in quell’arcobaleno di toni, il colore che io amo.
"Quello è un sempreverde". Io, che do un colore ad ogni cosa, stentavo a credere che qualcosa non cambiasse, non morisse mai: "dici sempre ed è come se dicessi mai, io non credo al mai e non do fiducia al sempre". 

E' per questo che non t’ho mai detto sempre, sarebbe stato come dirti mai.

[ Di grigio si colorò il giorno, o forse era già notte senza che me ne rendessi conto. Si affiancava la mia ombra ad altre immagini distese, a fare corpo dipinto con la luce e a ritagliarsi, sull’asfalto, un suo posto esclusivo. Come se uno spazio ci fosse, a delimitare quella che sono. Come si potesse chiedere di non calpestare quell’ombra, o di camminare un centimetro più su.


Alzai gli occhi e mi sembrò di vederti aprire le mani, ed unirle, come a raccoglier neve. Ma io non ho niente da darti, e non sono che un’ombra, oggi, che cerca di cucirsi un vestito addosso. Ma i fili, le righe, i termini, son troppo corti per ricamare anni, e le mie forbici troppo molli per tagliare ciò che c’è da dimenticare. Era calda la terra ed odorava di incenso e d’ambra, e si mescolava al mio profumo quello dei ricordi, troppo vicini per esser raccontati e così intimi, così preziosi da essere allora, e ora, prigionieri del silenzio.


Poi mi sembrò di veder le tue mani chiudersi, e allontanarsi l’una dall’altra, ed indicare ognuna una traiettoria differente. Non è a destra né a sinistra il percorso che arriva a me. Poi indicasti, quella sei tu. Di nero ero vestita, su sfondo grigio, e mi guardavo. Mi toccasti il viso, questa sei tu. Di nero ero vestita, sullo sfondo la città, e mi guardavi. ]


Cadevano, le stesse foglie a cui parlammo di noi, in un altro inizio d’autunno. Non c’era neve da raccogliere, né sole a scaldarci, c’erano foglie ad ammantare un’estate da far addormentare. Eravamo, noi, solo ombre sbiadite. E i nostri giorni foglie secche, ormai cadute, sgretolate. Di un sempreverde vigliacco, ora arancio, che non ha mantenuto una promessa.

Per questo non t’ho mai detto mai, sarebbe stato come dirti sempre.
E sempre, ora lo sai, non lo diremo mai.





 



martedì 20 settembre 2011

In un Dicembre qualunque



►Forget about, Sibylle Baier


Mi stringevo le mani. Si stringevano, le mie mani, come a dir una preghiera.
In mezzo alle dita, negli angoli stretti del da farsi, viveva – mai stanca – una sola frase tua.


Era muta ieri, quando guardando una foto non vedevo che nero. Si risvegliava, stamattina, nell’umidità addolcente della fine del temporale. Pioveva, stanotte. Grondava il cielo sui miei luoghi, e martellava, a ritmo deciso, sui tetti – (in)stabili – delle mie certezze. Tremava, ancor più forte e per un solo istante, la parete dove scrissi – col corpo – di non cercare calore mai più.

Ed un’altra fotografia mi ha scattato il giorno, ad occhi chiusi, mentre carezzavo col pensiero la tua mano e ti invitavo in un Dicembre qualunque, a cogliere di me quello che non sai. Ché il freddo m’ha sempre dato un altro senso, come fossi in grado di scacciarlo in pochi istanti. Ché il freddo - non lo sai - ma l’ho cercato, quando troppo era il sudore sulla fronte, e troppa la fatica del fingere il sereno.

Pioveva, stanotte. E mentre ti chiedevo di guardarmi - piegare le coperte e assecondare il freddo e poi scacciarlo ed ingoiarlo – e di venire con me/provare con me un Dicembre nuovo e senza neve, un fulmine ha tagliato il cielo ed il mio sguardo. Provavo a cercarti. Per portarti/portarmi in un Dicembre qualunque. A guardare quel sole rigenerarsi, e sgranare gli occhi e arrotolarsi piano a cercar tepore sulla propria pelle. Ché il freddo m’ha sempre accarezzato piano e le coperte son state madri, in un Natale senza doni. Ché il freddo - non lo sai - ma l’ho cercato, per regalarmi un giorno quella sensazione di tepore.


Mi stringevo le mani.
In mezzo alle dita, negli angoli stretti del da farsi, viveva – mai stanca – una sola frase tua: dammi la mano.
Pioveva, stanotte, in un Dicembre qualunque.
E tu, tu mi stringevi le mani.

domenica 18 settembre 2011

Il mio nome


Quando t’ho conosciuto suonavano note stanche nelle tue e poi nelle mie stanze.
Ci scoprivamo. Faceva freddo. Ed era stanco anche il tempo, fermo da anni a raccogliere i resti di un vetro – forse uno specchio - in frantumi.

"Ti faccio una confidenza, ti dico il mio nome."

Ma quando t’ho conosciuto l’aria era leggera, e il vento raccontava piano. Era niente più di un fruscio che coccolava le notti. Al buio, ché la luce, lo sai, non fa dormire le mie paure. Poi a scoprirsi son state le gambe, ed insieme alla pelle viveva meglio anche il sangue. Scorreva, quieto e vivo, senza aspettarsi un arrivo, senza perdersi negli anfratti delle vene, senza pausa, senza ritorno. Senza nemmeno aver freddo.

Tra tutte le parole avvinghiate all’incertezza di saperti, tra tutte le parole di circostanza, quelle nutrite dalla carne e nutrimento per la carne, quelle ferme nella gola, c’era il tuo invito al silenzio e il mio coraggio di sentire.

"Shhh"

Quando t’ho conosciuto raccontavo di essere un’altra per dirti chi ero davvero. Ma il mio nome tu l’hai sempre saputo. E le mie tracce, per nulla fredde dicevi, erano risposte d’istinto alle tue, più calde e più vere.

E quando non t’ho riconosciuto, dietro un suono greve e nessun nome, la musica è svanita in un istante.
Ed ora, ora che non sento niente, ora che la pelle è muta e la carne non trema, ora che il sangue s’è fermato e non c’è più musica a soddisfare il mio udito, ora che non sento niente, ora dimmelo tu qual è il confine tra una bugia e una verità, quando persino il mio nome, la certezza d’esser io e nessun altro, l’avevi dimenticato. Ed avevo dimenticato io d’esser chi sono.

Quando t’ho conosciuto, suonavano note bugiarde nelle mie e poi nelle tue stanze.

Ma, quel silenzio, io l'ho sempre ascoltato.
Ma, il mio nome, tu l’hai sempre saputo.





 "Ali a riposo, è stato intenso, quel volo."
 


Antonella

lunedì 12 settembre 2011

Non so darti che l'inferno






►Twice, Little dragon


Non so darti che l’inferno.

Mi abbandonavo alle parole e le parole si abbandonavano all’aria, per poi aggrapparsi alle mie gambe. Stringevano, bloccando il sangue e costringendolo alla resa. Come non ne avessi più. Era facile rassegnarsi, quando guardarmi allo specchio voleva dire vedere un’altra. Ancora una volta combattente vinta.


Cominciò a piovere. Le parole, quei macigni, resistevano alle intemperie. Erano salde, immobilizzate sulla pelle, vipere a succhiare sangue immaginario. Il contorno dello specchio era cornice e salvezza di un’immagine già storpiata nei colori e nella forma. Ero io, erano serpi, era la fatica, era l’ansia di non essere abbastanza.


Io non so darti che l’inferno.


E le ammissioni, la rassegnazione, coloravano di nero l’aria intorno. E le lacrime, mischiandosi alla pioggia, erano piccole verità a formarne una sola, e più grande. Ma la pioggia non lava le colpe, mi ripetevo, non pulisce coscienze, non è remissione, non è colpa, né peccato.
E il contorno dello specchio di ricami e vortici brillava, placcato d’oro finto. La finzione, di nuovo, mi si presentava agli occhi. Se non la conoscessi, mi dicevo pure, sarebbe uno di quegli incontri da dimenticare.



E poi i tuoi occhi smisero la pioggia.
Vai via, io non so darti che l’inferno, ti ripetevo.



E ora che sei andato via, ora che le parole son acqua scivolosa ed i ricordi pure, ora che la stanza è vuota e dentro lo specchio ci siamo io e te a guardarci da angolazioni nuove e punti di vista luminosi, ora che il buio è luce, ora che le nostre mani non si toccano più, ora torna da me,

io
non so
vivere
all’inferno.


domenica 4 settembre 2011

Il mio coraggio







►Forgett, Sibylle Baier


Il fiocco perfetto, blu elettrico, i regali da scartare e i dolci da mangiare per festeggiare i tuoi anni e poi i nostri. Migliaia di giorni da scartare prima, migliaia di giorni da scordare poi, in un secondo.

Ho moltiplicato le parole per numeri infiniti e ingoiato, col fumo sulla lingua, coniugazioni e iperboli di termini, descrizioni tormentate di un noi che svanisce oggi col fumo, tra il palato e la lingua. Senza più sapore, né odore, né consistenza. Senza cadenza. Senza cadenza e senza suono gli addii, stretti nel torace, a spingere forte sul cuore in senso contrario e ostinato. Il battito, la prova che si vive per dare - per dare forte - , ora rallenta.


Non so amare se non a velocità illimitata, io non so dare a ritmo di un battito lento.

Ho diviso le mie cose dalle tue e sommato il senso di ogni nostro acquisto e di ogni sorriso, di quando con le mani legate all’altro sceglievamo e arredavamo i giorni, e dipingevamo pareti e ore. Mi toccavi il viso e ci scrivevi sopra frasi e sguardi, disegnati forse, incisi. E scivolavi piano tra i miei dubbi e le mie necessità, levigavi e arrotondavi gli spigoli duri dei miei errori, curavi e disinfettavi le ferite in superficie, quelle nel profondo.


Non so vivere senza avere paura. Sei stato il mio coraggio.

Ho sottratto i tuoi dai miei errori e valutato lucidamente quello che non ci siamo mai detti. Ho calcolato matematicamente che ogni pensiero, ora, è figlio delle lacrime e dello sgomento, che serve a poco contare. Ho immaginato una linea lunga del tempo e sbavature d’inchiostro rosso intorno.
Eri, del mio tempo, la linea stessa e l’inchiostro.
Eri, dei miei sensi, motivo primo e passione.
Eri, dei miei giorni, prigione calda e libertà.


Sei, oggi, sulla lingua, fumo da ingoiare senza soffocare.
 Non so stare senza te.

venerdì 2 settembre 2011

Niente

Quell’attimo che aspettavo, e che lentamente evitavo, quell’attimo pensato e mai vissuto. Eri tu.


Ed erano gocce, a scivolare lungo la cornice di un ricordo. Erano lacrime, o forse solo pioggia, l’acqua che affogava il sentimento. E lo annegava con una lentezza trascinata e angosciata e disarmante.
Ma erano lacrime vere, o era solo pioggia?



Erano giorni sazi di noi stessi, ancora una volta gli stessi. Era facile, guardarsi e non sentire che il fragore di un ricordo, era semplice perdersi e non ritrovarsi più. Ma tu non sei mai stato dato di fatto, né, del mio viaggio, l’arrivo. Tu eri punto di partenza.


Erano fredde le braccia. Era caldo il tuo sguardo. E le parole si perdevano tra le mani. A che serve stare ancora a parlare, mi ripetevo, quando gli occhi non dicono altro che addio? A che serve piangersi addosso se dopo la fine c’è solo la fine e, magari, la speranza di un domani mai stanco?


Non ci sei più. Tu. Ed io. Noi. Non ci siamo più. Niente corse e abbracci, niente baci appena svegli, niente più mani grandi a tenermi, niente. Niente.
Ma tu sei sulla pelle, nella bocca, dentro gli occhi. Sei ricordo che non passa e presente che rifiuta ogni giorno l’idea di esser passato. E un futuro da inventare, e giorni in sospeso da riempire e immaginare. Ché tu sei intorno, dentro e poi più in fondo. Che sei passione incorrotta e emozione mai spenta. Di un perché che conoscevamo solo noi.


Dimmi, è pioggia, quella che bagna il viso e ne cancella i segni – del viverci nostro graffiato – o son lacrime, a cancellare, a sbiadire e a consumare, quello che è stato in inchiostro, e poi in sangue e respiri affannati?


Perché quell’attimo che aspettavo, e che lentamente evitavo, quell’attimo pensato e vissuto e gustato e poi amato,


sei tu.








sabato 27 agosto 2011

In un profumo





►Gregory and the Hawk, Sets


Son state carezze, per me, aggrappate alle dita e mai scese.
Son stati baci anche i graffi e abbracci le ferite.
Vedessi ancora coi tuoi occhi, parlassi ora con la tua bocca, sentissi poi con la tua pelle, sarebbe giorno anche stanotte. Sarebbe luce. Sarebbe chiaro. Sarebbe vero.



Anelli stretti tra le dita, a ricordarmi che io ho.
E un fiore nei capelli per farmi bella per un’ora. E poi le scarpe adatte all’occasione.
Era buio, quando a piedi scalzi sono scappata via. Cercavo un altro fiore, e di un altro colore e di un altro giardino. Cercavo il suo odore.
Come filo d’erba ostinato nel cemento, s’è imposto all’olfatto e ancora al tatto.



Son state botte, quei baci nella carne.
Son stati schiaffi, gli inviti e le promesse.
Avessi visto coi tuoi occhi, annusato col tuo olfatto, abbracciato col tuo tatto, tutto avrebbe forma definita e odore fresco. Sarebbe limpido. Sarebbe chiaro. Sarebbe vero.


E’ stato bello, per un momento, mischiare i miei e i tuoi sensi in un profumo.
E’ stato bello, per un momento, sentire mille giorni dentro un gesto solo.

lunedì 22 agosto 2011

Grigioricordo






►Wild is the wind, Cat Power



Era cenere, quella sera, e fuoco spento e terra arsa, di desideri passati già a nuovo approdo.


Era bello, anni fa, immaginare un domani che non fosse tra le lenzuola, e che odorasse di pulito. Che fosse leggero, quando nella pesantezza dei pensieri avremmo cercato sollievo. Teli bianchi per stendersi e abiti morbidi per fasciare fianchi e ginocchia, per cercare di non farsi mai male. Tende per coprire la luce, e coperte calde per l’inverno. Non ebbi mai freddo, allora.


Macchiasti di vino l’angolo del letto, chiedendomi scusa più volte. Il bicchiere, ancora sporco ma vuoto, l’avrei ritrovato il giorno dopo accanto al comodino, sul pavimento. Aspettava, forse si aspettava anche lui qualcosa da noi. Noi che non volevamo lenzuola. Noi che, poi, ci siam persino scordati di noi.


C’era qualcosa stanotte nell’aria, un profumo nuovo, un retrogusto buono, che mi faceva scordare gli intenti di una volta e invitava il palato a gustarne fino all’ultima parte. Un respiro profondo, poi la carne avrebbe parlato da sé. C’era qualcosa negli occhi e sulla pelle, passione marchiata, che non passa e non muore. Ed era cenere, quella che hai spostato con uno sbuffo dal mio vestito, invitandomi a guardarti negli occhi. Fingitori di promesse che io non voglio.


Il mio vestito del verde dei tuoi occhi, morbido come gli incastri dei miei sguardi e dei tuoi. La tua cenere grigia, dello stesso colore di un evento diventato già ricordo. E qualcun altro chiederà, e qualcun altro vorrà, e qualcun altro io vorrò, pensavo.


E invece stanotte, per un attimo, è stata cenere e fuoco vivo e terra rossa, di desideri tornati agli approdi di sempre. O di mai.
Ed era cenere, nel sonno, il ricordo delle mani tue. Da soffiare via.

venerdì 12 agosto 2011

Flashback







►The end, Sibylle Baier


Non ricordo più qual è il tuo profumo.

Mentre lo dicevi, i tuoi occhi confessavano la menzogna della bocca. Si abbassavano, ammaccati dalla finzione che non riesce. Lì, tra il disegno delle ciglia e l’abbozzo disordinato dei capelli, la mente cercava riposo, affaticata da quei ricordi che si svegliano all’improvviso, dopo anni di letargo.


Sarà facile, vedrai. Sarà facile come guardarsi in faccia, ti dissi.
E ti salutai, quel giorno, con la freschezza della mia età, dicendo addio come fosse a domani. Dentro, invece, quell’addio durava anni. Giorni accumulati nelle vene, e sangue da smaltire, in eccesso. Ti salutai e me ne andai, voltando lo sguardo e le spalle a te, a me, a noi. T’ho sentito respirare forte. Ho continuato a camminare.
Ma, in questo tempo che oggi mi è parso eterno, t’ho sentito circolare dentro, flusso costante e insistente. T’ho visto trattenere quel sangue che forse è ancora in eccesso.
Aspetto che sfoci nel mare giusto.



Io non ricordo il tuo, t’ho risposto ridendo.
Molto meglio l’ironia, quando si vuol mascherare la debolezza. Ho lasciato parlare gli occhi, ché la voce mancava. T’ho parlato. In silenzio. Che spero starai bene, in questo tempo che verrà ancora e non ci toccherà più, t’ho detto. Che spero tu sappia darti ancora, e come prima, o anche di più. Che i tuoi gesti son gli stessi e il tuo profumo invece no. Che sei come allora, che sei sempre te. Che conosco ancora i tuoi occhi, quando tacciono e non si posano sui miei, ma vorrebbero dire e poi urlare. Che spero per te un bel domani, e d’amore.



Sarà facile, vedrai. Sarà facile come guardarsi in faccia.
E’ stato difficile, credimi, anche per me. E' stato difficile come guardarsi negli occhi.


martedì 9 agosto 2011

-


Si poggiava – lieve –
come polline disfatto, e
sulla pelle
– odorosa di mare –
la promessa mia di
cercar nutrimento.


Mi avvolgevo
- occhi chiusi –

come venere di bellezza altra, e
tra le lenzuola
-
pulite di affanni –
ero desiderosa di dar respiri.


Si poggia
- forte e superfluo –

il fiato tuo sulle mie braccia, e
tra le stanze vuote,
per ritrovar quel senso
che pensavo ormai corrotto.


Mi avvolgo ora
– occhi aperti –
in coperte calde di sabbia,
per ritrovar
di quel mare la sua – tua –
bellezza primitiva.

 

venerdì 29 luglio 2011

Sei fiore





►I lost something in the hills, Sibylle Baier


Direzioni opposte ad incontrarsi, poi, nella deviazione di un momento.

Eri un fiore.
No, era un fiore il mio silenzio. Era un fiore, era un fiore il tuo silenzio. Di quando con gli occhi rispondevi e non domandavi mai, di quando con gli occhi domandavo e non rispondevo mai. Poi le pelli s’incontravano a metà, mai lungo il percorso, ma nella deviazione di un momento. Unico e spontaneo. Più che il fiore, era il coglierlo. Di quel desiderio che non s’annulla mai.


Sei fiore, dicevi.

Ricordo -passi lenti e lunghi- il corpo tuo che, piano, andava via. Ricordo il giorno e poi la sera, li ricordo come fermo-immagine che non riparte mai. Se indietro non si va, se il domani s’attende e basta, tu sei bloccato lì, reminiscenza che non si accontenta di stare, che vuole camminare. Ma i passi, progressi di intenzioni e non di fatti, son movimento che non cambia il senso. L’azione, il mutamento vero, lo si ha da fermi. E t’ho bloccato lì, gamba destra davanti alla sinistra. Braccia a dondolarsi alternate, come giostra per il corpo mio, e ora immobilizzate.

A voce alta oggi dici, sottovoce un tempo raccontavi sei fiore.

Dicevi, sottovoce un tempo dicevi lo sai da te.
Dubbiosa, io camminavo invece lungo il filo dell’errore. E la direzione, unica e obbligata, era limite e mai orizzonte. Se sapessi, se veramente io sapessi, non tenterei invano di raggiungerne la fine. Se potessi saperne di più, di questo gioco che ormai pesa e non mi giova, starei ferma, soddisfatta del tuo mutamento. Perché ciò che cambia le cose, quello che realmente accade, succede se sei fermo. Sei tu a render mutamento l’immobilità.


Direzioni opposte si incontravano, allora, in un solo momento.
Sei fiore
, dicevi.
Sei fiore, t’ho detto.





 

martedì 26 luglio 2011

Ancora, per la prima volta



►Stars, Warpaint

La notte - quella notte - è andata via chiedendosi perché.

Ha voltato le spalle piano, ferma per qualche minuto sul binario del buio, per poi correre e tuffarsi nel nuovo giorno. Frettolosa come quei viaggi che son fughe e scorciatoie, ha salutato i miei passi stentati, in una notte - quella notte - che s’era ubriacata di sé. Coperta da una nebbia che non era di atmosfera. Velo di maya striato sull’occhio.

Moriva presto il desiderio, veicolato da curve a gomito difficili da seguire senza inclinare la testa, e indirizzato verso altri luoghi, lontani la distanza di un aspetta. Dirlo di nuovo, o lasciarlo sospeso tra la mia bocca e il tuo orecchio, o dire una sola volta resta, per dar un senso ad una forma che io credevo sostanza. Carne. Sotto pelli diverse che ne fanno una, dondolandosi bene e respirando forte sulle parole taciute. O dette piano tra le labbra, prigioniere di giochi di fiato.

La notte - quella notte - avrebbe raccontato di intrecci veri, piuttosto che di grovigli di imbarazzi, se solo avesse avuto un fine, se solo avesse avuto fine.

Moriva giovane l’aspettativa, moriva tra le voglie e i dubbi, si accasciava a terra incerta, prima di riprendere il via sulla strada di ferro. All’arrivo, oltre le gambe di cento passanti, c’erano auto. E le auto correvano. E le luci sembravano frecce e poi schegge e poi stelle. C’era la luna, a ricordarmi la lontananza da casa, c’era vento, a ricordarmi che il viaggio che avevo appena fatto era avversario vinto di quella stessa brezza. La velocità ne aumentava la forza. La velocità ne spegneva, a tratti, l’intensità.

Alla partenza, tre gradini erano salita immobile e infinita. Alla partenza, tre gradini son diventati discesa ripida e veloce, da percorrere in un attimo. Per sentirla di nuovo, la tua mano sulla schiena. Per sentirla ancora e per la prima volta.

Poi pensavo che la notte avrebbe raccontato di intrecci veri, piuttosto che di grovigli di imbarazzi, se solo fosse stata davvero quella notte.

La fine del giorno, ubriaca di sé stessa e non di te, s’è spiegata il perché.

lunedì 18 luglio 2011

Dentro gli occhi



►Driving, Sibylle Baier



La strada era deserta. Procedeva a rilento il paesaggio, imprimendosi bene nelle pupille, prima di fuggire per chilometri.
Non amo guidare, guida tu. No, non amo guidare quando c’è da guardare. Quando quello che è fuori è dentro e la mente sente bussare la curiosità. Avessi avuto una macchina fotografica, in questo e in altri cento viaggi, avrei dimenticato ogni luogo. Perché niente serve a ricordare un'immagine quanto l'idea di non poterla guardare mai più. E’ la mente, prostituta senza affari, a voler essere sempre soddisfatta. Gli occhi, invece, l’altra notte, avevano soddisfatto ogni ricordo che, sapevo bene, non ci sarebbe stato. Spazzato via dalla marea, firma di inchiostro delebile su fogli di sabbia. Le conchiglie ed i sassi, invece, approdavano a riva. Lo sceglie lei, la marea, cosa portare via. Il resto, quello che rimane, è ciò che ha voluto lei che rimanesse.

Sulla curva della costa si intersecavano piano linee di luce e d’ombra. E, piano, con stesso ritmo e stessa cadenza, i pensieri cambiavano forma. Non più figure evanescenti e astratte. Quella notte, con le braccia a tenersi strette tra di loro, i pensieri son diventati immagini e certezze. Ferme come quelle mani che mi stringevano forte la schiena e che chiudevano le porte in faccia al resto. Da fotografare. E fotografate. Senza flash. Dentro gli occhi.



Avessi avuto una macchina fotografica, in questo e non negli altri viaggi, avrei scattato centinaia di fotografie. Per dimenticare.
Ché poi un ricordo cos’è, se non un’orma lasciata lì, in attesa di esser spazzata via. Ché poi un’orma cos’è, se non un ricordo impresso forte negli occhi, in attesa di esser inabissato.
E un ricordo io l'ho portato. E un ricordo, lì, l'ho lasciato.







Marea, prima che tutto si fermi in un'istantanea da niente, portalo via.
Marea, prima che la mia orma sia dimenticata restando, spazzala, soffiala via. 

giovedì 14 luglio 2011

Ehecatl






►Tonight, Sybille Baier




Da un momento all’altro il vento è cambiato. Soffiava verso nord stamattina, una brezza leggera e calda. Ha portato via con sé foglie e voglie. Ha spazzato via i resti, gli scarti, i brandelli di un pezzo di carta scritto e trascritto e riscritto. Apografo impreciso del tuo originale.


Ho respirato forte, prima di vederti scendere le scale. La porta si è aperta, il vento aveva portato via anche te. E, mentre cercavo di chiuderla, la curva del braccio era tornante che non ritorna. Il gomito, spigolo duro per la testa. Le gambe restavano percorsi morbidi per le mani. Le tue.


E da un momento all’altro il vento ha taciuto. Il rumore di un soffio è durato il tempo di un battito, sentivo nel polso un frastuono, sentivo nel petto la fatica della corsa del tempo. Il mio, il mio tempo, s’era fermato a riprender fiato più a lungo. Erano le tue ore che si dissolvevano, erano i tuoi giorni che, come passi, scandivano i gradini.
Passo dopo passo, angolo retto dopo angolo retto, piano dopo piano, occhi dopo occhi, il vento è tornato più forte.



Mi dicesti una volta che il vento porta con sé le vite degli altri, mi dicesti che a chiuder gli occhi, ci si ritroverebbe sulla pelle la sensazione di un altro. E’ triste, pensai. Lo leggesti nei miei occhi, poi mi dicesti e se si posa sulla pelle entra dentro, più in fondo, costringendo la carne ad assorbirne una parte.


Da un momento all’altro il vento è cambiato. E, più in fondo, al di là della pelle, nella carne, tra le vene, qualcosa s’è mosso, nell’attimo stesso in cui il mio sguardo non arrivava più a te. Ho sentito i muscoli irrigidirsi e le gambe tremare.


Chissà se ciò che provavo proveniva da te.
Chissà se ciò che ho provato, il vento l’ha portato da te.