lunedì 31 dicembre 2012





Pagine. Parole spiegate / di un senso sconosciuto.
Un anno come un'ora.
La fretta di somigliare all'altro.
Sul labbro tremano note - senza risonanza.

sulla pelle il gelo preme
sulle ciglia si poggia un volto - solo delineato.

Merletti e terracotta.
E poi ancora pagine. Spiegate e sconosciute.


Buon anno a voi.




giovedì 20 dicembre 2012

Adieu


9 Ottobre 2011
Ed in ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni angolo ed in qualunque volto, cercherò – stringerò disinfetterò - la mano tua. E asseconderò il tempo che toglie – che mangia divora scompone - certezze.
Sarai, quando non ci sarai, sarai ricordo inciso negli occhi, di teneri istinti. Sarai, sempre sarai tutte le volte che non ti ho chiesto scusa, o quando non t’ho tenuto la mano. Sarai la bambina che sei, che non è mai stata figlia, e mai grande. Dell’amore lasci traccia. Della Vita tu hai il nome. E dal buio dei tuoi anni – o forse nitidezza, non lo so - dai tuoi tormenti, dalle lacrime e dai sospiri, me l’hai insegnata - donata e indicata -, la Vita.
In ogni giorno che mi aspetta, in ogni gesto di speranza, in ogni strada e in ogni volto, cercherò – ritroverò, carezzerò, bacerò- la mano tua.

A nonna Vita,
a nonna mia.

20 Dicembre 2012

"Passan sul prato nonno e nipotino.
Il nonno è vecchio, il bimbo piccolino;
il bimbo è biondo, il nonno bianco;
il bimbo è dritto, il nonno curvo e stanco.
Passan sul prato, dandosi la mano...
il nonno dice: «Presto andrò lontano,
Molto lontano, e più non tornerò!»
E il bimbo: «Nonno mio, ti scriverò »."

Filastrocca di Lina Schwarz

D'ora in poi, ti scriverò.


mercoledì 19 dicembre 2012

Vita




[Strade e tremori. Sulla scia del tempo si va delineando un nuovo ricordo. Fumo blu. Fotografie anni '50. La bellezza interrotta. Strade e patchouli. La tua crema-il mio senso di te. Donna e solo un'ombra, bimba ed è già luce. Le corse per tenerti stretta a me ancora un'ora. Cartine geografiche come anni. Strade. Strade come Vita.]


(E un altro vetro rotto.)

domenica 16 dicembre 2012

Cos'era (da "Blizzard of one")



I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l'ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l'oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un'alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, essendo stato, era...

II
Era l'inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l'ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz'altro era quello.
Era anche l'evento mai avvenuto - un momento tanto pieno
che quando se ne ando', come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio' sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.


(da Mark Strand: "Blizzard of One" - 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in "West of your cities" - a cura di M. Strand e D. Abeni - Minimum fax - Roma 2003)

martedì 11 dicembre 2012

Il était une fois




E se si potesse rileggere tutto, e rileggerlo a ritroso, invertire l’ordine degli eventi, cominciar dalla fine:

allora tu avresti gli occhi gonfi e lucidi, ed io il mio sorriso che maschera bene il pensiero. Avremmo nulla da dirci – "dopo" ore a declinare parole -, e un congedo formale per evitare gli addii. Poi sarebbero idee, ognuna intrecciata all’altra, di progetti futuri e carezze poco frequenti. Sarebbero conti di stipendi mai ricevuti, e un’ipotesi goffa della nostra casa e del nostro giro del mondo: io col mio sogno di letture e sceneggiature di altri senza scopo di lucro, come una beneficenza estetica di quella bellezza che è in assoluto, e tu con l’auto che hai sempre sognato, a convincermi che i tuoi ragionamenti sui raggi solari siano inconfutabili e dimostrabili – ed io a ridere forte di quanto sei buffo-. Poi sarebbe il tempo dei giorni a Roma, i primi, e dell’entusiasmo di andare. Poi ancora i nostri abbracci, di notte, a scambiarci promesse nell’incoscienza del sonno. Le tenerezze che dimentico. Il caffè la mattina. Lo specchio imbrattato di schiuma da barba, in casa mia, che non era la nostra. Tu che mi chiedi di leggere per te l’ultima cosa che ho scritto. Il vino troppo buono per lasciarlo a domani. Poi ci sarebbero le giornate di primavera inoltrata, col sole, su tappeti verdi d’erba fresca e lo scroscio dell’acqua a farci da nenia. Cogli occhi rapimmo un pezzo di cielo-cogli occhi custodimmo un solo desiderio. E poi l’ebbrezza di quella sera, la canzone che scelsi per te, la mia e la tua insicurezza a fondersi in forza. Guardarsi e riconoscersi, improvvisarsi istintivi, pelle sulla pelle. Fu quello il momento.

Se si potesse rileggere tutto, e rileggerlo a ritroso, invertire l’ordine degli eventi, cominciar dalla fine e all’inizio approdare, ora saremmo io e te, in un Aprile piovoso, a ridere forte promettendoci l’un l’altro niente più che un inizio. Un C'era una volta e c'è ancora adesso, in un tempo cristallizzato e che per sempre sarà fermo, un bacio francese ed una vecchia promessa.


Così che il ricordo di noi si faccia bello, 
e le promesse di oggi facciano meno paura. 

domenica 9 dicembre 2012

Il dono migliore -delle (meravigliose) banalità-



Un foglio che forse cancellerò presto. Che è vita e, per questo, non può esser taciuta.




E allora ti davo la mano, mentre, piccola come non ricordo di esser stata mai, ti domandavo: “dove andiamo?”. Ti davo la mano e poco importava il giorno, l’ora, il tempo speso. Non era che un momento, quello che a me sembrava eterno. Poterti e dirti, sorriderti e domandarti, toccarti. Ogni Natale ha il suo bagaglio di emozioni: le luci per la strada, coriandoli di neve artificiali, intermittenze colorate, il freddo che non è che il sollievo di scaldarsi, la fretta di abbracciarsi.

E allora ti davo la mano, quel giorno di inverno, dicendoti: “è pronto in tavola, vieni”, e con gli occhi dicevi la gioia, e con gli occhi tenevi fede ad una promessa. Con la penna, stasera, tradisco la mia: non dire di te agli altri. Ma nel sangue ho la tua passione che scorre, che pure era di inchiostro. Cercare di non essere banale, e poi trovare l’amore l’unica banalità che è meravigliosa. E’ che ogni Natale ha il suo carico di ricordi: quel Babbo Natale che della parola Natale faceva una barba finta e un cappello rosso, per restare il Babbo migliore del mondo. La fiducia che avevi in me che pure m’è sempre sembrata un dono, senza carta e senza fiocco. Il tuo sapere vasto eppure così dimesso, il tuo sorriso che è tutto quel che resta. La tua moto, il mio aggrapparmi in curva, in salita, e ovunque andassi. E poi, ancora e non abbastanza, mano nella mano. 

E' che, accennando a te in un gioco di parole, ogni Natale ha il suo babbo: ad uno ho smesso di crederci allora, quando sentivo i tuoi passi -illudendomi fossero i suoi- mentre, silenziosamente, riempivi l'albero di pacchi e sorprese. L'altro, il mio babbo, l'ho avuto accanto e poi l'ho visto scomparire, e, come tutti gli spettacoli migliori -come la neve, il Natale, i sorrisi-, finire. Ed ora, qui, ad illudermi di sentire ancora quei passi, e di confonderli, e di svegliarmi, felice del primo fiocco di neve.

E poi ogni Natale ha il suo sacco e i suoi doni: gioie da scartare e sorrisi da comprare, e quello stare insieme che fa male, se la tua sedia resta vuota. E allora stasera, come ogni anno da dieci anni, non decorerò alberi e non vorrò luci. Ma ti do la mano, ancora, mentre mi sorprendo a sorridere -sommessamente, come si fa delle gioie vere- pensando che il dono migliore io l’ho avuto già. 


Si chiama papà.


A S. e a M., che sono il mio Natale.


giovedì 6 dicembre 2012

Il sole delle sei




Un tuo sospiro. Anni luce lontano quel sentiero che –tortuoso – legava le mie gambe alla tua terra. Quella sottintesa certezza di esser parte di un’esistenza naturale, tra la partenza e il non arrivo. Cemento o cera a dividermi dal traguardo – la consapevolezza di poter tutto e tutto non riuscire. Il margine del foglio chiede tregua per quella corsa che non so fermare. E, come d’inchiostro, ancora sanguinare. Poi il sollievo di saper ancora inventare: due schizzi di colore all’angolo del bianco, semmai finirà il giorno avremo colori artificiali  da guardare. E mano nella mano – dita tra le dita - inventeremo nuove maglie, e nuovi incastri e nuovi nodi. E occhi dentro gli occhi nuove strade. La mia camicia sporca di caffè, al 32 di quella via che ti portò da me. 

"Hai tempo? Passeggiamo?"

Sanpietrini come tappe da toccare, arrivo prima io o arrivi prima tu. Perché noi non facciamo squadra in questa lotta, in questo rincorrerci ostinato. Rivali e mai nemici, lontani e mai dimenticati.

"Il sole delle sei è quello che più mi somiglia".

Lo credo. Lo vedo. Questo sguardo universale che tutto vede e nulla lascia in ombra, le tue palpebre e le mie gambe nude, le rughe accennate sotto il mento, la mia cicatrice che è un segno sul cuore più che sulla pelle. E di noi due ciò che resta è un viale, panchine, odore d’erba e occhi grandi – giovani – che ci guarda(va)no sorpresi. E di noi due ciò che resta non è una vittoria. E’ il puntare un obiettivo e non lasciarselo scappare, è una catena di parole che non riuscirò mai a spezzare.

Il sole delle sei 

Sai

Ti somiglia

Ed è un quadro, un disegno, uno schizzo, nelle pupille e più in fondo. E' quello che resta e quello che avremo  di noi, è l’ennesima forma che, tra tutte, non so riconoscere, il sogno d’istinto che non so cancellare. Le dita incrociate a tener fede ad una promessa. Il mio profumo e la tua giacca. La foto che scattai quando te ne andasti, dopo aver bevuto con me l'ultimo caffè/la foto che scatterò quando te ne andrai, dopo aver bevuto  il nostro primo caffè.






Sotto quel sole delle sei che tanto ti somiglia. 
Sotto il sole delle sei che è già una promessa.


domenica 2 dicembre 2012

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Il tuo profilo migliore, le dita che somigliano a uncinetti –sempre agitate a riprendere il filo del discorso-, le scuse ripiegate come jeans e all’occorrenza indossate, i tuoi ritardi sulla vita, i ritagli di una fotografia mai buttata, i giri a vuoto in auto, l’aria fresca dal finestrino –dritta sulla faccia, a risvegliare la realtà-, l’ennesimo Dicembre in fila sull’autostrada, le mani onnipotenti di tua madre, quella maglia che è lì solo per esserci, il sapore delle parole, gli odori delle stagioni a susseguirsi senza farsi riconoscere, i tuoi progetti andati in fumo, quell’amore denso che pompa e rimbomba, nella gola e dentro al petto. Gli occhiali che non hai più comprato, i disegni ritrovati, quelli ancora da inventare. Lo smalto sulle mani di cui non puoi fare a meno. Il profumo che cercavi. Le parole che non sai dire. Gli anni da bambina, che raccontarli è un pugno in faccia. Gli anni che verranno, che raccontarli è una scommessa. Le poesie da quattro soldi che pure hai scritto, a dieci anni appena, come un tatuaggio oltre la pelle che non puoi lavare via. Le lacrime di fronte alla malattia, concime per il tuo coraggio. La consapevolezza davanti alla morte. Il tuo fingerti serena e sorridere alla vita. La vita che ti fa così paura. Il tuo modo vigliacco di affrontare i guai: son iniziati e passeranno. L’andare avanti e camminare a stento, senza però fermarti mai. Tua sorella che è un cielo terso. Gli occhi che da sempre ti conoscono, un invito a non aver mai più paura. Le cadute da ferirsi, le ferite da cadere e non rialzarsi più. Gli schiaffi dati e quelli ricevuti, le telefonate interminabili eppure terminate, i libri che ti hanno cresciuta e continuano a crescere in te. Quelle emozioni che non sai trattenere, che non sai gestire, che non sai nemmeno definire: 

veder le tue mani tremare mentre scrivi di te stessa come non fossi te.

Da me, a me. Un regalo. 
Per guardarmi allo specchio. Per non dirmi più “te”.
2.12.2012