martedì 13 dicembre 2016

La tua camicia blu (il mondo da quaggiù)






A cinque anni, sulla porta di casa, un signore altissimo mi prese in braccio e mi fece guardare il mondo da lassù. Che sorpresa - pensai - il mondo da quassù. Mi misi comoda, con quei piccoli glutei di latte sul colletto della sua camicia a quadretti blu. Mi misi comoda e sospirai come nel finale della mia personale fiaba d'autore. Che sole, pensavo, il solito sole. Quanto vento quassù, quanto vento. Che piccoli, quei fiori che ho spezzato con fatica ieri per mia madre. Lontana la porta di casa, e le chiavi, piccoli giocattoli a disposizione di chiunque, io che di giorno le guardo dal basso verso l'alto come miraggi. Ho desiderato, da quel momento in poi, braccia così grandi, aste di legno che mi accompagnassero, sostenessero, spingessero lungo il mio cammino. Ho desiderato quella mano sollevarmi da terra, aprirmi la porta, aiutarmi davvero a camminare, a non farmi perdere l'ultimo treno, ad aiutarmi con le mille valigie che negli anni ho riempito. L'ho desiderata tenermi la mano, giocarmi affronti a casaccio, puntare sui miei anni venturi. L'ho desiderata esserci, senz'altro, quando il mio corpo, per la prima volta, ha ceduto. 
Ma a dieci anni, sulla porta di casa, mio padre mi ha tirato un ceffone. Ho pianto, quel giorno, non per il dolore di un ceffone mal recitato, ho pianto per averlo deluso. Ma ho desiderato per anni lo stesso ceffone: sentirmi autorizzata a sbagliare, per poi farmi punire; togliermi i vizi sbagliati, per imparare quelli giusti. Dibattere per ore sulle fotografie migliori, il libro più bello di sempre, la moto che avrei acquistato per lui. Ho desiderato, senza confessarmelo mai, gli occhi grandi di mio padre indicarmi la strada. Sei sicuro, papà, che è così che ce la farò? Cosa ne pensi, papà, della mia scelta? Cosa faresti, papà, se fossi qui vicino a me? E cosa faresti, soprattutto, se tu fossi me? 
A quindici anni, sulla porta di casa, ho udito urla e pianti strozzati, la vita che inganna, deturpa, abbandona. I sogni farsi minuscoli come i fiori che da piccola regalavo a mia madre. La porta aperta, spalancata, ad indicare ancora la strada sbagliata. Ho visto cosa sarebbe stato di me, l'ho intuito, quando ho compreso che da quel giorno avrei deciso da me. Ci avrei almeno provato, papà, a non deluderti più. Ci ho provato, a non sbagliare, a mettermi nelle condizioni di diventare quello che volevo diventare. Ci ho provato, ci provo, papà. 


Ma tu almeno provaci, dimmi, con il tuo garbo e la tua camicia blu, com'è questo mio mondo, da lassù?



(Scrivo senza sapere di cosa scriverò, oggi dal mio inchiostro sei rinato tu, 
come epifania di luce dopo il buio pesto. Mi scuso anche, e già mi perdono.)

giovedì 1 dicembre 2016

Verticale (deliri dell'inconscio)







Verticalizzare l'onda del tuo mare, come fune improvvisata tra il cielo e la terra. Verticalizzarne l'andatura, il movimento, persino il suono. Avere la costanza di attraversare onde magnetiche e non. Variazioni diatopiche che mi sconcertano, mi mettono alla prova, esaltano il mio linguaggio. Potessi codificarlo, quello della distanza, e farne alfabeto basilare e milioni di declinazioni possibili. Potesse la mia attitudine essere il coraggio, piuttosto che grafie monche di letture. Potessero le mie mani svelarti questo cuore, potesse questo vento arrivare fino a lì. Potessi scriverti lettere lunghe un giorno intero, ed abbracciarti al ritorno a casa dopo ore di rincorse. Potessero i miei occhi raccontarti che non c'è posto dove andare, diverso da questa sedia, queste strade, questa città. Potesse la mia mente bambina spiegarti quanto è dura da mandare giù l'impossibilità di fare. Potessi davvero concedermi ad ogni tipo di espressione, potessi dirti, del mio sentire, la ragione. 

Verticalizzare il timore, farne nutrimento per questo cuore esausto, deglutirlo, ingoiarlo, farne risorsa e bagaglio. Sbalzi di temperatura che il mio corpo non tollera, estati capovolte che hanno il sapore della lontananza. Confondo la mancanza col capriccio, confondo l'amore col desiderio inappagato. E allora devo verticalizzare l'idea di te, ché astrarla, sai, non m'è riuscito mai.

Verticalizzare il nostro sentimento, come a dire che non c'è distanza da attraversare, oceani da percorrere, sguardi da evitare. Verticalizzare questo tremore del cuore - sentirlo intatto, nella carne, rimbalzare come una molla matta tra il cuore e la pancia e poi ancora tra il cuore e la pancia - . Ruotare di novanta gradi questa linea della vita, modificarne il percorso, accorciarne i tempi. E intanto andare sempre dritto, sempre dritto, ché in fondo, spero, c'è una notte d'amore da gustare. Fosse anche solo quella, fosse anche solo un bacio, fosse una carezza, uno sguardo, un gesto inconscio. Fossi tu qui con la tua pelle, fosse la tua voce senza nessun filtro. 

Fossero davvero giorni di cura, 

fosse davvero un viaggio senza nessuna paura.



(di tutte le cose che avrei da dire,
 e di tutte le paure che serbo dentro di me)

martedì 20 settembre 2016

Soffi di ostro (oltre l'inchiostro)






Venti del sud ripropongono eco lontane. Il mio corpo tace - le mie mani, ahimé, vorrebbero urlare, impazzire di tatto, goderne le forme, ricadere poi esauste nel sonno -. La mia mente sottovoce balbetta - la paura è silenzio, l'ardore è un urlo strozzato - di storie da dirci e sguardi ammiccanti da regalarci. (Caddi in uno sguardo, mi rialzai nel suo sorriso. Ebbi la costanza di esserci, ovunque e comunque, e di esserci forte). Cartine geografiche e valigie piene, poi il retaggio di una frase:

"Tornerò." - "Ei - diceva, sollevandomi il mento e lo sguardo da terra - io tornerò".
Il giorno si componeva come un puzzle: incastri perfetti, altri mai indovinati, facevano di uno mille piccoli giorni. Ci avrebbero separato, da quel momento in poi, milioni di attimi. Piccoli infinitesimali frammenti di giorno, a comporre il puzzle del suo ritorno. Piccoli soffi di ostro, ponente, levante, bussole storpie di strade sconosciute. 

La mia voce trema - potesse scoprirsi, in questo vuoto di suono cosmico, potesse non celarsi -, e il mio petto, sai, non si rivela. Venti del sud bruciano le distanze - l'illusione che in un solo alito vi sia un po' del suo odore, la parvenza di un suo respiro, la sensazione monca di una carezza sul viso -. Che un bacio valga più di un tuffo oltreoceano, che la vera lezione di vita non sia il viaggio ma il ritorno? Mastico parole e me ne vergogno, poggio la penna sul foglio e mi intimidisco. (Sei oltre l'inchiostro, una porzione di cuore che non si spiega, che non si dispiega, che non si indaga e che non è mai paga). Biglietti aerei e fusorari improbabili, poi la tua voce a dare un senso alle attese:

"Se tu mi chiedessi di tornare - diceva, schiarendosi la voce -, io, sai, tornerei"
Il giorno si sgretolava come un puzzle: incastri distrutti, altri mai indovinati, facevano di mille un solo giorno. Ho smesso di attendere, improvvisamente, nel pieno della mia impazienza peggiore. Ho smesso di attendere, sai, e di tremare. 
"No, io non te lo chiederei. Parti, ricerca, assaggia, sperimenta, tocca ogni sponda, godi di luce, ridi forte, piangi di gusto e poi, da me, ritorna".



"Bene, vediamo un po' come fiorisci,
come ti apri, di che colore hai i petali,
quanti pistilli hai, che trucchi usi,
per spargere il tuo polline e ripeterti,
se hai fioritura languida o violenta,
che portamento prendi, dove inclini,
se nel morire infradici o insecchisci,
avanti su, io guardo, tu fiorisci."
Patrizia Cavalli

venerdì 12 agosto 2016

Errata corrige (dei tuoi occhi ritrovati solo per dirti addio)





Perdonarmi gli istinti, vittima o carnefice non importa. Perdonarmi gli eccessi, le voglie, i possessi. Perdonarmi te. Perdonarmi gli occhi tuoi.

Scendevano gocce di pioggia come stelle cadenti - era quella la notte, quella delle stelle a zolle -, non potemmo guardare, al di là di ogni nube, i nostri desideri farci da tetto. Vidi i tuoi occhi dallo specchietto. Passai per le tue strade, a cercarti mentre correvi negli angoli di questa immensa città. Roma ci ha visti, pensavo, stanotte e stamattina, e ci vedrà ancora, in una notte settembrina, scambiarci i sapori, annusarci le nuche, rubarci gli occhi, e ancora, ancora le mani. Roma ci ha visti, quando un anno fa mi scrutavi le labbra, in attesa di un mio sì. Roma c'era e c'è ancora, Roma mi teneva la mano e ancora la tiene. Ma le tue parole, quelle no, son volate via come il tempo.
Pioveva, l'ho detto, in quella notte di metà Agosto: piovevano i miei occhi subito dopo, non li vedesti, non te lo concessi. (Ti dissi addio, lo dissi sottovoce, dissi addio e guardai, dal balconcino, la mia Roma arrendersi al momento). Prima però volli toccarti, volli saperti lì con me, volli baciarti, volli tutte le cose possibili nello stesso momento. Volli amarti, amarti come non è stato possibile mai. Me lo concessi, un'ultima volta,

per donarmi gli istinti, vittima o carnefice che vuoi che importi. Per donarmi gli eccessi, le voglie, i possessi. Per donarmi te. Per donarmi gli occhi tuoi.

mercoledì 20 luglio 2016

Alle mie pagine, al loro compiersi e discioglersi come nodi complicati. Ai vuoti d'aria che ancora sento, ai sorrisi da ritrovare, alle parole mancate, alle chiacchiere a vuoto. Agli occhi che mi hanno letta, a quelli che non lo fanno. Oggi che le mie labiali scempie compiono sei anni,

GRAZIE, pagine mie.

martedì 12 luglio 2016

Labiali scempie





Erano nenie, e ricorsi improbabili ai ritornelli di sempre. Era l'iterazione di un momento, sempre lo stesso, a dilatare il presente come preterito: sordo, ridondante e monco, in attesa di un pronome possessivo cui dover rendere conto. Non vi erano pagine che l'occhio potessero destare dal sonno dei giorni, non v'era lettera alcuna - busta, francobollo, indirizzi da entrambe le parti - che potesse rifare la strada a ritroso. 

- Dici il mio nome - 

I fogli sulla scrivania, nel frattempo, si lasciavano scivolare sul precipizio, coinvolti nel soffio della finestra: saranno voli pindarici di significati e significanti audaci, saranno cadute vertiginose verso la strada più breve, pensavo. Spiranti, vibranti, labiali scempie e geminate, a condurre la danza di questi grafemi muti. Muti, ora che un punto e virgola tra me e la vita s'era posto. Muti, ora che non c'era sedia, né volto.

- Basta solo il mio nome, dillo, dici il mio nome.

Ma le stanze, lì dentro, sembravano fatte di cartapesta, le mura non reggere la forza del suono, la porta non contenere il di chiunque passaggio. Le cose, lì dentro, avevano/hanno un altro colore. E le parole, sai, erano solo momenti. Svaniti come il fumo della mia ultima sigaretta, inutili come quello della prima.

Ma il nome mio, il nome mio mi rammenta la vita, il mio nome è tutto ciò che mi ritorna alla vita.

Me lo dissi sottovoce, tra me e me, mentre qualcuno, con un camice bianco, entrò dalla porta e gridò la vittoria. Mi dissi Antonella, dissi piano Antonella, di nuovo Antonella, mentre la bocca sorrideva e gli occhi piangevano tutte le parole che non erano riusciti a scrivere. Mentre quel sogno storpio di bambina tornava a brillare nei miei occhi e le mani di mia madre mi indicavano di nuovo, e come sempre, la strada. 



(Di 1080 ore chiusa in una stanza, 
della solitudine e il dolore provati,
 del mio nuovo sguardo sulla vita)

martedì 17 maggio 2016

Ciliegie e margherite (portami a ballare)



E mi porterai a ballare una notte d'estate, mentre questi mostri, quelli di oggi, saranno finalmente assopiti. Balleremo uno di quei balli di altri tempi, la musica, sai, sarà quella che non ami. Ma balleremo sorridenti, e saranno notti al profumo di ciliegie e margherite. Saranno risate forti e lunghi passi verso il sogno di domani. Sarà tutto quello che ora posso solo immaginare, prigioniera di una febbre potenzialmente mortale. Ma tu domani mi porterai a ballare, a guardare i ramoscelli in fiore e a cantare di quanto è bella - dio, quanto è bella - questa vita che ora no, non può danzare.

sabato 13 febbraio 2016

Caffellatte e croissant (la similitudine)




Vai via - disse, e prese a camminare verso casa.

A te somigliano le onde di questo mare che, lento, quasi si volesse fermare, improvvisa una corsa verso terra. Un orizzonte stagliato in lontananza, una barca che costeggia l'invisibile. 
A te somiglia questa luce assopita delle sei, e questo suono, e questo vento odor dell'ambra. A te somiglia questo verso monco, endecasillabo o sola circostanza, che ha bisogno di altri fogli ed altro inchiostro, che ha bisogno di un modello da ritrarre e nuova luce ad illuminare le sue curve. Clorofilla e astrazione tra le dita, una penna che non scrive e sangue a schizzare le pareti. 
A te somiglia questo delirio acrobatico, di enjambement e metafore storpie. A te somiglia questa danza di parole atone e grafemi inconsistenti, a te somiglia la mia inadempienza, la mia assenza, la mia eterna malattia. 

A te somiglio e da te io fuggo via.

Divani a pois e vernici sbagliate per queste mura, un posto a sedere vacante e la sola idea di te che riempie tutta la stanza. A te somiglia questo inverno frettoloso, impaziente, in continuo movimento. A te somiglia questo non avere tempo. A te somiglia questo enorme ritardo. La pioggia di queste mattine, i malanni di questa stagione, le gioie che mi regalo, queste mie nuove letture, la mia curiosità mai paga. A te somigliano questi giorni di riordino e programmi ambiziosi, di te profumano queste ore di caffellatte e croissant, di te sorrido oggi, e per te, sai, attenderò domani. 

Perché tu mi somigli, vieni da me

non lasciarmi mai.