lunedì 9 dicembre 2013

Freddo bianco






Le mani si poggiavano sul costato, a cercar di guarire il dolore che le parole appena udite avevano provocato. Le mani, le stesse, tremavano di un freddo bianco. Figlio di un amore ancora troppo giovane e non più neonato. Sentivo, al di là delle tue grida, un sottofondo, sempre lo stesso - solo più basso -. Tra gli spazi vuoti di parole una lama andava a ferire l'amore che provo e le prove d'amore, così come un assassino fa con la vita: non più un solo respiro e tutto ciò che è stato farsi in un secondo sequenza di immagini, farsi in un secondo solo passato. Le mani intanto tremavano ancora e lo sguardo si perdeva nella scia della tua ira: tu, uomo cresciuto e ancora bambino, davanti a me, donna da un pezzo e ancora bambina. Le mani - che fredde, le mani - imploravano attenzione. E non riuscivano a curare la ferita più grande: scoprire d'aver creduto da sola nel nostro domani.
Ti dissi, una volta: se uscissi di qui, dimenticherei la strada del ritorno. Che freddo, qui fuori.  E dei gatti ho solo i capricci. Le mani. Le mani ancora sul costato, arrabbiato e affranto in egual misura.

Mi guardo intorno per l'ultima volta, in attesa - di nuovo - che passi l'inverno. E questo freddo bianco.

venerdì 22 novembre 2013

(Con) l'ago e il filo delle attese






Notte. Notte di quelle notti che stringono la gola, assassine di quella libertà che da poco ho conquistato. Notte puttana, di quelle che se ne andranno presto e pure a caro prezzo.

Ho rattoppato strappi larghi, e con l’ago e il filo delle attese ho tessuto abiti adatti ad ogni stagione, ad ogni umore, ad ogni occasione. Ripiegato il volto verso il basso, a sentir tutta la pesantezza dei pensieri. Ordinato i libri in ordine di lettura e rilettura, seguendo la linea temporale della mia vita come una cucitura. (Tener uniti i pezzi non è mai stato il mio mestiere, saltimbanco del disordine e della disavventura, io, come un’artista di strada ad esibire fallimenti, e travestiti da ornamenti: che il dolore ci fa belle è una bugia, di quelle che si dice quando gli occhi, la bellezza, non sanno nemmeno vederla più).  In dosso drappi di altri anni, quando il mondo si credeva lì ad un passo e del mondo, invece, non si conosceva che quel passo. Andatura svelta e breve, con quei piedi da bambina. E così, anni dopo, ho rattoppato strappi larghi, e con l’ago e il filo delle attese ho creato i miei momenti, e con l’ago e il filo delle attese ho intessuto mille trame. Di stoffa e di parole (quotidiane).





Tema
Vi parlo di me stessa
"Io mi chiamo Antonella, questo nome me lo hanno dato appena sono nata. Mi hanno chiamata così perché è un nome che piace molto a mio padre e perché, anche se lo hanno un po' cambiato, mia nonna si chiama Antoniella. Adesso io ho otto anni e frequento la terza elementare. Io ho gli occhi verdi-marroni e i capelli biondi e lunghi. Non ho segni particolari, ma un hobby io lo ho: è quello di inventare e cantare canzoni e inventare poesie e saperle recitare. Infatti passo molto tempo a scrivere su vecchi quaderni poesie e canzoni che poi canto e recito [...] "


Notte. Notte di quelle notti assassine, che con una mano stringono la gola, con l'altra il tempo. Notte puttana, di quelle che tutto danno e tutto portano via: è questo il loro prezzo.



venerdì 25 ottobre 2013

(Non è che il mondo sia più sicuro)






Non è che il mondo sia più sicuro, vincolato a realtà inevitabili, preso com’è a sorreggere il giorno, affranto com’è dal peso dei guai. Non è che il mondo sia più sicuro, è che scopro – stupita – la voglia di fare. 

No, non è un posto tranquillo, e visto allo specchio non si crede migliore. Vigliacchi e sedicenti salvatori del mondo a metter le mani nelle tasche degli altri. Dicevano – tra i banchi, ricordo – questo mondo è qui affinché tu lo cambi. Ma bruciano gli occhi – non voglion vedere – e mani a coprire lo sguardo, per mascherar non il volto ma lo scempio del mondo. Coprirlo, questo corpo stuprato, dipinto dai fumi e nei fumi ancora violato. E questa omertà chiusa a chiave nelle cas(s)e somiglia alla resa del nemico incapace, quando l’arma non è uno strumento, ma la sola (libertà di) parola. Promesse di morte fin dentro la terra. La natura domanda pietà, ché tanto c’ha dato e tanto le è stato negato. Dicevano – ricordo – questo mondo è qui affinché tu lo cambi. E appunto, non è che ‘sto mondo ora sia più sicuro, è solo che amarti mi fa riscoprire migliore, è solo che amarti mi rende padrona. Di un piccolo, pulito, onesto pezzetto di mondo. 





"Non è che il mondo
 sia più sicuro –
eppure, nell’oscurità, ti
 addormenti al mio fianco, e quando
 ti desti, la giornata inizia con
 te; stupita e irrequieta,
 come un primo mattino.
 Fare colazione o l’amore.
 Pronta al riso,
 alla discussione e alla sorpresa.
 Non è che il mondo
 sia più sicuro. Solo questo –
c’è che amo il tuo sorriso."

 Mary Dorcey

venerdì 18 ottobre 2013

Inchiostro blu (II)


 


 
 
(E poi chissà che vuol dire scrivere. Aggrovigliarsi come un gomitolo e sciogliersi, poi, attraverso un canto, una liberazione che è gabbia e insieme libertà, un dimostrarsi finiti e infiniti allo stesso tempo, uno scorgersi astratti, nonostante la carne. Un'emozione. La peggiore, e la più bella di tutte. E chissà cosa vuol dire non riuscire più a farlo, e volerlo, e non riuscire più a farlo).
 
E con la tua musica sì che si scrive. Come una tana, un posto caldo dove raccogliere le idee e filtrarle, attraverso note e vibrazioni. Ecco, io lì mi rifugio, quando il tempo reale non basta e il tempo scandito dei tuoi battiti - che percepisco ancora, malgrado le distanze - è lì, deciso, in attesa di un cammino che ne segua il ritmo. Ed io ci cado, ogni volta, come fosse la prima volta. Ché la magia non sta nella sorpresa in sé stessa, ma nella ripetizione dello stupore, ogni volta come fosse la prima volta.
 
E' lì. E' lì che ritrovo chilometri di lettere - gettate a caso in un percorso astruso, sì, ma intenso - da combinare, mischiare, amalgamare. Nude come solo le lettere sanno essere, amanti come solo le parole sanno amare. Desiderose di unirsi, in qualche modo, e di precipitare - come pioggia -  sul foglio bianco. Così che la musica diventi tangibile, senza spartiti e senza strumenti. Così che i sensi possano ancora parlare. Ancora.
 
E sento, ogni volta come la prima volta, nello stomaco, premere e filtrare, entrare, fino a governare i miei pensieri e i miei movimenti, migliaia di parole che fanno confusione, e rimbombano e sbattono contro le pareti della ragione. Un percorso, un filo logico, quello no, non è detto lo si trovi. Ma trovo, ogni volta come la prima volta, un nuovo motivo per scrivere.



(Non un punto esclamativo ma un punto e basta.)


giovedì 12 settembre 2013

Quel fiore rubato al giardino del mondo






Seguire, col dito, il tuo profilo su una fotografia. Aver abbastanza ore per scrivere, dopo tanto tempo. Non sentirmi in colpa se resto in silenzio, io che son figlia della quiete e troppo spesso la tradisco. Aver voglia di essere donna, ancora. Percepirti ricordo ora che sei qui.

Mi dicesti c’è distanza. Poi gli sguardi incanalati al cono d’ombra lì davanti, un po’ di luce a render chiaro ogni sospetto. Fu breve il passo dall'ipotesi al concetto. Residui di progetti e attenzione massima ai dettagli, intenzioni contrastanti ma vincenti, l'idea di far dell'altro quell'eterno irrinunciabile. Ma il tempo, quel ladro, rubò a noi l'innocenza. Premette sul costato. Fece forza sul cuore. Ancora malato. Ancora.

E di nuovo seguire, col dito, il tuo profilo su una fotografia.
Sentire, d’un tratto e per un momento appena, il diritto di strapparla. All'altezza delle labbra, per non essere interrotta. Percepire lo scacco del tempo, il suo muoversi tra le pieghe dei giorni, di soppiatto, come solo i veri ladri san fare. Scoprirmi più forte, malgrado le lacrime spese. Smetterla con le ipotesi e iniziare con le pretese. Amarti ancora e mai abbastanza, in questa stagione appesa insieme ai panni ad asciugare, ma che stenta a tornare.

E di notte seguire, col dito, il tuo profilo su una fotografia: carezze sugli occhi, la curva del naso, la tua bocca rosata, quel fiore rubato al giardino del mondo. Mi feci ladra come il tempo, e come il tempo fui cauta, e come il tempo, in un lampo, rubai ogni cosa di te. 

Poi ti dissi c'è distanza. E fu breve, molto breve, il passo tra l'ipotesi e il concetto: il dubbio ad insinuarsi nella ferita ancora aperta che ho sul cuore, poi la certezza dell'inganno a violentarlo ancora, 


questo cuore.

(E il battito che accelera, se solo penso a noi)

giovedì 1 agosto 2013

Un volto, talvolta






E allora rideremo ancora, come si ride delle favole belle.
Sorrideremo e a nulla basterà questo temporale estivo che da lungo tempo cerca di minare il nostro campo. Di fiori. Fiori ormai secchi ma ancora odorosi. Essenze di rosa e speranza, copiose. Dov’è quell’istinto – ormai perso, suppongo – di non farmi bastare un solo silenzio, una sola voce, un solo volto? Dov’è l’esigenza – che ancora chiamarla così è un paradosso – di aver altro da altro e ancora da ancora, un di più mai soddisfatto? Svanita, col tuo solo arrivare. Ché dentro un volto talvolta vi sono milioni di vuoti, e tutti colmati. Ché un volto talvolta può insegnarti a colmarli, i tuoi vuoti, con una sola mossa vincente. Come in un gioco. Il gioco più audace, l’amore. E rideremo ancora, come si ride delle favole belle, come si vive – sciocchi -  nell’illusione di credersi eroi. Per un giorno soltanto, davanti agli occhi dell’altro. 
E a nulla basteranno le grida, sul nostro incedere incauto. 
A nulla basteranno le lacrime, o i miei sbalzi di umore. 
I tuoi modi arroganti.
Le mie espressioni parlanti.
I miei punti neri. 
O, nel lavandino, i piatti di ieri. 
Il tram che non prendo.
Le attenzioni che, invece, pretendo. 
Il plum-cake riuscito male.
Il tuo tempo perso a giocare.
Il caffè troppo caldo.
Il tuo disinteresse per la letteratura, la mia ignoranza nel tuo campo.
Le discussioni su cosa mangiare. Su cosa guardare. Su cosa comprare. Su cosa guardare.
La luce nella doccia, quando a farla siamo in due.
Le ciabatte bagnate.
Le opinioni contrarie. 
Il tuo nomignolo improponibile.
Lo stress, quello pure inevitabile.
L'incertezza del domani che verrà.

A nulla, tutto questo, basterà.
E allora rideremo ancora. Proprio come si ride delle favole belle.

(Sproloqui. Per dirsi ancora qui).


sabato 20 luglio 2013

Le pagine che ho scritto, nascoste da un nome finto e un colore - l'arancione - mai come in questo momento si sentono libere. Di approdare in altri luoghi, conosciuti o meno. Di manifestarsi attraverso la mia voce o la mia penna, firmandosi con il mio nome vero.
Tre anni, oggi, da quel giorno in cui, sul mio divano bordeaux, decidevo di condividere ciò che scrivo con qualcuno - senza, questa volta, "metterci la faccia" - (ché poi, col tempo, ho scoperto che in questo modo ci "metti più faccia" di quanto si possa immaginare. In questa pagina che diventa immagine di te - per gli altri - e specchio - per te stessa -). Tre anni e molte cose da scrivere. Cambiamenti che solo a pensarci mi sembra di non vivere la stessa vita di allora. Eteronima, invece, è sempre la stessa: patetica e nostalgica al limite del ridicolo, e chi più ne ha più ne metta. Ma è una parte di me. Forse- e paradossalmente - la più intima. L'ho affidata, in questi anni, ai vostri occhi. E quegli sguardi hanno permesso ad Eteronima di vivere, esprimersi, liberarsi.
 
Un grazie a voi.
 
 
Antonella
 
 

martedì 18 giugno 2013

Dov'eri? (imperfetti ma assonanti)





E tu dov'eri, eh?
 
Nelle ore appese alla cornetta, ad attendere uno squillo che non sapevo neanche se sarebbe mai arrivato. Nei pomeriggi in autostrada a raggiungere una qualsiasi meta, purché altra meta fosse. Nelle corse per non perdere ancora un altro treno - e nelle attese, quelle pure, di un nuovo viaggio, "magari un po' più in là" -. Nei vicoli arancioni che Roma ti regala, di notte, chiedendo in cambio niente più che uno sguardo attento, avendo in cambio niente più che occhi. In ogni auto che di mattina vedevo passare, assonnata, ed in tutte le volte che ho guardato l'ora, presa dalla paura del tempo. Nelle mattinate passate nel verde, a cercar di cogliere il meglio ed il meglio vederlo solo passare. Tu eri nei miei pensieri ed io solo pensiero ti credevo, fatto di niente, mai visto o toccato, un'idea razionale ma astratta, l'ipotesi nuova di ciò che non hai. Nella schiena, sotto il naso - il tuo odore come primavera si rivela -, negli occhi - ché la tua è immagine conosciuta eppure così nuova e vera - oltre la pelle, nella testa - un pensiero fatto di carne e di carne una realtà - , tra le mani - come allucinazione -, nei polmoni - com'è il respiro, involontario e necessario, eppure impercettibile -, eri là.
 
- E tu dov'eri, eh?
- Io, sai, son sempre stato qua.
 
Sì, eri nell'aria, ti sentivo già.
 
 
(Assonanze imperfette e ridondanti,
la congruenza, la coincidenza,
l'essere due, imperfetti ma assonanti).

giovedì 30 maggio 2013

Quanto lo volemmo, quando null'altro cercammo





E allora nuotare dentro quegli occhi stanchi e sazi, e allora andare, dentro quegli occhi che sembravano amare. E ancora incespicare, e non trovare l’equilibrio - e percepir lo scacco, la feritoia degli ingenui, la marcia folle del combattente leggendario -. Ma continuare per la stessa strada, e non veder più i passi suoi seguire i miei – stesso il ritmo e stesso il movimento -, e non avere alcuna garanzia, e sentire ancora addosso l’odore delle fogne – degli attimi in attesa, degli attimi imputriditi dall’attesa -, e non saper dove volgere lo sguardo, e muovere ancora il volto – come a cercar un diverso appiglio – velocemente e sospettosamente. E riuscire a intravedere a stento un domani, se quel domani è solo Ieri, ma travestito. Non saper cosa indossare per rivedere quello sguardo compiaciuto, e fingere che nulla sia cambiato ed imparare a memoria tutto quello che gli piace, e passare poi altre notti, e ancora mille, a regalargli e a regalarmi un noi. Quanto lo cercammo, quando null’altro volemmo. Quanto lo inseguimmo – quanto lo inseguiamo – quel treno che sembrò esser l’unico - il più rapido, il più accogliente, il miglior viaggio immaginato -, e quante volte ancora lo scegliemmo, in quelle notti in cui i megafoni annunciavano sordi e le pupille non avevano altra meta che il corpo dell’altro.

E allora amarlo – ogni cellula, ogni respiro -, ostinatamente amarlo e immaginarlo – ancora immaginarlo – essere la certezza che mancava. Convincermi che è tutto qua, e nuotare in quegli occhi che (non) sanno di menzogna, ed allontanarmi solo per riprender fiato, e poi tornare a trattenerlo. Concepire le mezze verità. Respirare per metà. Trattenere le parole, nascosta in un mutismo che non sa di libertà. Ma continuare a nuotare in quegli occhi, e dentro quegli occhi ritrovare casa, e dentro quegli occhi credermi felice. Quanto lo volemmo, quando null’altro cercammo. 

Quanto lo cerco, ora che null’altro voglio.


(Le parole sono e devono esser lame, 
la verità la lama più tagliente e la corrispettiva 
- più efficace - cura.)

mercoledì 22 maggio 2013

Acqua color pelle (e un clunk, l'onomatopea al mirtillo)




Sorseggiò l'ultimo goccio di tè al mirtillo, poi prese a contar le sigarette rimaste nel pacchetto con la precisione di un chirurgo, toccandole con l'indice una alla volta, portandone infine una alla bocca. E' chiaro - sussurrò, lasciando che la fiamma bruciasse da sé il tabacco - che lei scrive per capire, Amandine. Per dare un senso alle cose, o per perderlo, a seconda dei casi. E' chiaro, mia bella Amandine, che non sempre le cose ne hanno uno, e che è da cocciuti ostinarsi a trovarlo.
 
- E scrivo, talvolta, per domandar perdono.
- Di cosa, Amandine, di cosa ha da scusarsi?
 
Mosse appena la gonna portandola al ginocchio. Accavallò le gambe, poi chiese il permesso di accendere una sigaretta. Non la lasciò bruciare da sé, Amandine, ma la fumò, la aspirò come fosse l'unica, l'ultima, e in assoluto la più buona della sua vita. Era impaurito, il suo sguardo, e languido, quando si spostava al di là della finestra.
 
- Lei ama il mondo, vero, Amandine?
- Amo - rispose senza indugi.
 
Spense cautamente la sigaretta, cercando di evitare che il fumo la dividesse da quell'uomo.
 
- E di cosa, Amandine? Insomma, di cosa ha da scusarsi? -  si sentì ancora domandare, ma non con impazienza, né con invadenza. Era la curiosità degli uomini a parlare, quella del mondo.
 
E allora Amandine pensò: Chiedo scusa di amarlo troppo e troppo poco, quel mondo. Di essere grata alla vita ma non abbastanza, di non saper scrivere di altro all'infuori del dolore. Chiedo scusa al foglio bianco, che aspetta una carezza ed io non faccio che usurparlo, violarlo, e renderlo ogni volta peggiore. Chiedo scusa alle carezze, talvolta raccontate come fossero ceffoni. Chiedo scusa al giorno di non viverlo abbastanza, di non viverlo come fosse l'unico, l'ultimo, e in assoluto il più bello. Chiedo scusa al cielo e al sole, e all'incapacità mia di ritrarli ed esaltarli. E chiedo scusa poi all'amore di non rendergli giustizia, di descriverlo ancora come una ferita aperta, e non come ciò che è. Ed è la mia salvezza.

Ma non lo disse. Guardò gli occhi curiosi che aveva davanti e che attendevano risposta, sorrise, poi si voltò. Prese a lavare le tazze, ancora intrise dell'odore di mirtillo. Le pareva ora un oltraggio eliminare quell'odore. Le pareva uno spreco l'acqua corrente. Ma la lasciava scivolare sulle dita, ancora, ancora e ancora, e la osservava colorarsi del colore della sua pelle. E quel mondo, al di là della finestra, d'improvviso, aveva un altro senso. Da scrivere.
 
- Poco zucchero nel tè, signore, di questo le chiedo scusa -
L'uomo scosse il capo, poi si congedò senza troppi convenevoli e chiuse la porta dietro di sé. Quel rumore, il rumore della porta che fa clunk, fu per Amandine l'inizio del silenzio. Quanto amava la pace. Sul tavolo, accanto ai fiori che ogni giorno dissetava e curava come fossero suoi figli, un biglietto: chi scrive, è altrove. Lei ama, Amandine, glielo si legge negli occhi. Ami e scriva, mia bella Amandine, ché scrivere, in fondo, è gratitudine. Ed è sempre - dico sempre - una dichiarazione d'amore.

E Amandine scrisse, allora.
E amò, Amandine amò ancora.

 
 "E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so."
 
Mariangela Gualtieri 
 
 
(Ad Amandine, la mia scrittrice immaginaria.
Ad A., la mia salvezza finora inimmaginata.
Ad Eteronima, la me da sempre solo immaginata.)

giovedì 16 maggio 2013

Senza corpo




La città sbadiglia, sul letto della terra. È stanca, mi dico, di essere sfruttata, calpestata, tradita. È stanca, non ancora abbastanza, dell’incedere svelto di gambe e di sguardi ai crocevia dei tram, sotto i tabelloni delle fermate degli autobus, sui marciapiedi, nei parchi, e dove altro chissà. Ed io incedo, cauta, avvertendo il suo sbuffare come un soffio. A spingermi più in là. Di tutta la notte – ora ricordo – un solo ricordo minacciò il presente: una bugia. Ma camminai, e camminai ancora, mentendo agli occhi e al desiderio, credendomi felice di un "ti amo" all’orecchio, percependo un incanto dove non v’era che un inganno. Puttane ai semafori – a vendere ciò che non hanno, a vendere l’unica cosa che hanno -, scooter impazziti che sbandano – di chi cerca la via dentro un bicchiere e di chi vuol perderla, in quello stesso bicchiere -, l’odore di smog che pian piano evapora, e sparisce – io dentro il mondo, il mondo solo dentro me -. Un fantasma – dunque senza corpo – ciò che di me cammina. Dividere sé stessi in due parti, lasciare il corpo in quel letto – ad abbracciarti e ad abbracciarmi, riuscendo a concepire le distanze – e svegliarsi in una metropoli deserta e buia, così come mai s’era veduta.

E camminare, mentre i tuoi occhi per guardare si chiudono e il tuo inconscio disegna circostanze paradossali – io nel tuo sogno e nella tua realtà, ad un palmo di mano da te, a stringere quel palmo, a stringerti la mano -. E camminare, andare, allontanarmi, e ancora camminare. Guardarmi, dall’angolo della strada, nel tuo letto. Ad occhi chiusi. Percepire il tuo respiro come un soffio – a dirmi c’è tepore, resta ancora qua -, e comunque andare, e andare e andare. Scoprirmi due dentro una sola, avvertire l’amore premere il costato e la paura portarmi altrove. Avvertire il battito del cuore accelerare – me lo dicevano, i libri, che talvolta accade, ed io scettica, a pensarlo ridicolo – e il tuo viso in un attimo rappresentare tutto, e tutto il male escludere. Chiudermi tra le tue braccia raccontandoti il mio inconscio, e sentire tutto il mondo dentro il nostro letto.

Mentre la città davvero sbadiglia, sul letto della terra.


(L'istinto di due minuti a guardar dalla finestra)

martedì 7 maggio 2013

Inchiostro su carta (e dagli occhi)



(Sproloqui. Senza capo né coda. Aver voglia di scrivere e non scrivere che questo.)



Poi, come in tutte le storie, arrivò lui. E, fervida, l’immaginazione si concepì savia: tutto ciò che aveva pensato, sperato, intravisto dalla serratura del futuro, era ora materia, sostanza, realtà. Come in tutte le favole c’era un affare intricato, e come in tutte le favole ora la trama era sciolta: avrebbe seguito i suoi occhi per tutto il tempo a venire, l’avrebbe fatto con fiducia cieca – ma mai muta -, con quel sorriso strappato dal vissero per sempre felici e contenti. Che strane, le storie. Quelle lette, quelle ascoltate per caso o per volere, quelle inventate, quelle solo intraviste, quelle che scrivi, a volte, mettendoti in quei panni fatti di carta e inchiostro, sporcandotene le mani, diventandone parte, creatore, lettore, attore. Che strane, le storie. Che da qualunque punto di vista le osservi son altre storie, con altre facce, altri pensieri, altre emozioni. Che pensi di averle intuite, comprese, e invece leggendole con gli occhi di un altro potresti svelare a te stesso ancora un dettaglio, un indizio, una minuzia che dà un altro senso all’accaduto. E all’accadrà. 

Poi, come in tutte le storie - come in tutti i romanzi -, la parte centrale è quella che conta: sfuggire alla noia, saper bilanciare la voglia di andare avanti e quella di godersi la pagina che si ha davanti. Saper intuire, ma non troppo, e saper cogliere il particolare: un’intonazione, un respiro più forte, una virgola – una pausa – che vale più delle altre. Non inciampare nella paura di non aver compreso il personaggio, e lasciarsi trasportare da questi fino all’ultimo rigo. Son strane, le storie. Che pensi sia finita e invece è proprio dal finale che tutto ha inizio. Che pensi di aver perso il filo e invece è il filo stesso a guidarti altrove. Oltre il voler capire ad ogni costo. Oltre la smania di aver tutto sotto controllo.

Poi, come in tutte le storie - come in ogni poesia -, c’è l’emozione: quel sentire in fondo che è tutto lì, dietro un endecasillabo o una parola, la sillaba tronca che ti lascia col fiato a metà, quel punto inatteso dove l’inchiostro poi muore. Suoni e rumori di un’anima – o mille -, che a raccontarla a voce avrebbe un senso diverso. Son le storie, dietro quei ritagli di carta, a far la differenza. E son strane, dio se son strane. Quella loro persuasione che è inganno il più delle volte e illusione nel migliore dei casi. Quel loro incastrarsi perfettamente l’una all’altra senza alcuna linea di confine, e modellarsi, come pezzi di un puzzle, per dar vita ad un’immagine unica. 

Poi c’è la paura. C’è il punto di vista. La voglia di andare avanti e la possibilità di godere dell’oggi. La difficoltà nel capire con chi si ha a che fare. Il timore di lasciarsi guidare. Il confondere l’inizio e la fine, e poi ancora la fine con l’inizio. Annoiarsi nel mezzo del racconto, perdere il filo di ciò che provi e cercarlo, ostinatamente, senza nessuna garanzia di ritrovarlo. Il timore di riaprire ferite già rimarginate. Il fiato a metà. Inchiostro, su carta e dagli occhi. Sorrisi. La persuasione. Pezzi diversi di unico puzzle. Confondere altre storie con la propria, provare continuamente a guardarsi con gli occhi dell'altro, strappare pagine e pagine e poi domandarsi il perché. La paura. La  p a u r a


Ma questa è un'altra storia.
Ed è la mia storia.



«Forse dovresti scrivere.» 
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?» 
«Immergerti nella vita vera.» 
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.»
Philip Roth, Il professore di desiderio.


martedì 30 aprile 2013

Manhattan di pietra (una volta sola, e per tre volte almeno)







(Dell'illusione che, talvolta, 
forse solo per illusione, è realtà)

La notte scendeva celere, coi suoi intagli di rame e d’oro. Occhi sospesi nel buio a cercar nuovi colori, nuove voci, nuovi baci da illuminare. Se fosse un solo giorno, pensavo, se fosse anche solo per un giorno, questo cercarsi con le mani e trovarsi in uno sguardo, questo camminare insieme e a passi unisonanti – e respirare, di notte, con stesso ritmo e stessa intensità -, questo non capirsi solo perché ancora non ci si è detti tutto, lo rifarei comunque: perdermi - cercarmi, non trovarmi, ostinarmi – dentro l’ira facile della paura di perdere, e perdere te; cercarti, cercarti in ogni dove e in ogni momento, quasi senza accorgermene – negli anni in cui non c’eri e in quelli in cui sembrava solo non ci fossi -, come un riflesso incondizionato, e, in un momento, accorgermi di averti sempre avuto.

Stemmi e retaggi di civiltà passate, sullo sfondo una Manhattan di pietra. Un colpo d’occhio attento su quello che è stato e a quello che è. Poi le mani. Ho fame, ti porto a mangiare. Hai freddo? Eri completamente scoperta stanotte, ti ho rimboccato le coperte e carezzato fino a riaddormentarmi. Prendersi in giro. Tornare a baciarsi. Avere come la sensazione, però, di non aver detto tutto.

La notte scendeva celere, un telo cobalto sui tuoi occhi cerulei. Fu un lampo improvviso – guardarti e non saper dirti altro, spiegarti sapendo di non riuscire a spiegarmi, convincerti a capirmi e capirti – e furono ritorni di eco passate: la storia ci insegna, pensavo, a non dimenticare mai chi siamo. Della mia origine tu sei specchio. Del mio domani spettro. Scoprire il freddo quando non ci sei, e rivestire i sogni di maglie di speranza, e tenerli al caldo per te.

Poi la chiarezza necessaria per dirti – di notte – che ancora non ci siamo detti tutto. 

E quel tutto dirselo d’un fiato – col fiato spezzato -, tremando – e il cuore mio ancora trema – e urlandolo -  tenendo a bada la voce – e strappando fuori dal petto un “non sai da quanto ti aspetto”. Registrare le tue parole come un nastro nella mente e non saper fingere – e non voler fingere – di non provar lo stesso. E quel tutto sentirlo premere sotto gli occhi, e poi scorrere, lento, prima sul viso, poi, veloce – come un brivido caldo- lungo tutta la schiena. E dirselo una volta sola – e per tre volte almeno -, e non saperlo raccontare, e non saperlo spiegare, e non volerlo dimenticare. Quella melodia di istinti vinti e libertà godute, quel sapersi riconoscere - oltre le circostanze della vita e le coincidenze del passato, alle quali io dico addio -, quel dirsi in due parole che si è qui per l’altro.

Quel dirsi strenuo, strozzato e liberato che sei amore, a m o r e  m i o.

"Amor, s'io posso uscir de' tuoi artigli, appena creder 
posso che alcun altro uncin più mai mi pigli."
Boccaccio 





lunedì 22 aprile 2013

Maggio (carezza di madre)





Maggio e i suoi odori si intravedono dallo spioncino, facce assonnate e dai lineamenti eleganti, appena svegliate dal letargo d’inverno. Maggio e i suoi colori mi ricordano l’infanzia, il rossetto di mia madre ad imbrattare il mio volto, i passatempi che bastava una corda – fatta solo di corda – ed il gioco era fatto. Ed il sorriso era esatto. La taglia giusta, l’espressione calzante, il riso eloquente di quando il danno, invece, non è ancora fatto. Maggio e calze velate, l’invito a spogliarsi del sole, la mattina che accarezza le gote come una mamma prima di scuola. E sì, sembra suonare il campanello, Maggio, e chiedere il permesso di entrare. A risvegliare i ricordi. A risvegliare le speranze, ancora intatte, di un domani inimmaginato. Prego, che entri e mi invada, Maggio, con le sue carezze di madre. Che faccia del mio corpo quel che vuole, e dei miei sensi cavie sulle quali sperimentare.

Maggio e la sua luce mi ricordano l’odore dei fiori in giardino, appena sbocciati, affamati di vita. Mi ricordano i viaggi e le passioni, ancora lievi, di qualche anno fa. Le mete non ancora raggiunte, le ossessioni alle quali ancora non so dare nome, le mancanze – quelle pure – che si riempiono di presenze. Ed è tardi, Maggio, per farne un resoconto, una chiusura di bilancio che non quadra, ché qualcosa è annegato nei temporali d’Aprile. Ma è a Maggio, solo a Maggio, che l’essenza di me si risveglia. E si ritrova, intatta, al di qua della porta. A scegliere cosa far entrare e cosa lasciar fuori. A combattere contro i miei stessi errori. Di distrazione. O di valutazione. 

È Maggio, con le sue carezze di madre, a raccontarmi quello che c’è.
E c’è un volto, al di là della porta – una faccia assonnata ma dai lineamenti eleganti – che odora di vita. 

(Ed io un fiore, appena (ri)sbocciato, affamato, ostinatamente affamato di vita).






«Io vedo ciò che ho di fronte, -disse Jinny. - Questa sciarpa a pallini colore del vino. Il bicchiere. Il vasetto della mostarda. Il fiore. Mi piace quel che si tocca, si assaggia. Mi piace la pioggia quando diventa neve e si fa palpabile. Ed essendo impulsiva e più coraggiosa di voi, non tempero, perché non mi scotti, la bellezza con la grettezza. La ingoio tutta intera». 
Virginia Woolf, “Le onde”

lunedì 15 aprile 2013

Il senso del grigio




Ricominciammo ad intuire i pensieri. C’è inconsapevole telepatia – un sentire l’altro e nell’altro più forte -, quando ai silenzi non si dà ancora voce. Iniziammo a saperci completi, senza soffrire dell’altro alcun senso e dissenso, patimmo a metà i crucci dell’altro, scoprendo che è bello soffrire se in due. La voce si ruppe sull’unica frase che non avremmo mai detto, il bicchiere sul tavolo come sudato, quasi a mostrar lo stesso imbarazzo che noi due, al contrario, celammo. E' bello, pensai, scoprirti realtà. 

Il grigio ti dona, a te piace, il grigio?

Pensai alla cenere, alla polvere, al cielo d’autunno, allo smog della città. Pensai ai capelli di mia madre tra qualche anno, a quelli di mio padre, quelli che avrebbe avuto tra qualche anno. Pensai al fatto che il grigio non è che un nero a metà.

No, non è un colore che amo. Forse lo amo a metà.

Di nero ero vestita, di nero mi spogliasti. Vesti come foglie in autunno, colori scuri a modellare i fianchi. Il nero, pensai, sì che lo amo, nella sua totalità. E permisi alle tue mani di privarmene, come l’età fa con il primo amore, senza indugi e con l’esatta consapevolezza che è giusto – maledettamente giusto – che sia così. Per darmi a te completa, senza riserve e indugi. 

Fu allora che ricominciammo a – o forse coi miei occhi ti chiesi soltanto (di) - intuire i pensieri. Il crepuscolo come un sipario calò su noi due, ché di luce non avemmo bisogno, né di voci, né di suoni. Le mani tremanti ed il cuore che implose, due secondi per piangere di un sorriso, per ridere dell’ennesimo pianto, per guardarti e lacrimare e ridere insieme: un arcobaleno che non vide nessuno all’infuori di noi, che provai nelle vene – le mie sole piene vene -: quando alla goccia il sorriso del sole fa scudo, e a rovescio, come a schernirla, s’esprime. È il cielo che vive, completo. È il corpo che prova, senza riserve e indugi.

E' bello, pensavo, saperci completi.

È  bello, pensavo, scoprirti realtà.

E' bello non sentirmi più a metà.


lunedì 8 aprile 2013

Re-stare davvero (creatura senza passato)



Cos'è stato?

Cosa è stato, – disperato chiese in quel solo minuto che aveva per capire, per sapere, per toccare di nuovo con mano quella sensazione taciuta (ormai da anni e forse mai confessata) – cos’è stato quell’inganno se a carte scoperte il risultato non cambia(?): senza vittoria e senza sconfitta. Solo una resa. Divisa e condivisa. Cosa è stato se non che per un istante le carte erano scoperte e il baro dichiarava il suo inganno? Cos’è stato quel lampo – fulmineo, avvertimento o minaccia, che vuoi che ne sappia – che vide fuggire – come un cane randagio – il nostro cuore intero e unico, in brandelli e ricucito e poi di nuovo in pezzi? Cos’è stato di due fiati affannati nella corsa dei giorni, due fiati per voce sola, quattro quarti di suoni - il traguardo fu forse l’epilogo(?) - ?

Ci sono per caso altri modi per raccontare il non detto, se non nelle movenze, nei respiri, nelle parole spezzate e che a stento ricordo? C’è forse un modo, un tecnicismo diverso da quest’anafora – ridondante, maldestra, carnale - per dirti tante volte che fu uno sbaglio, tante quante volte sbagliammo?

Cos’è stato mentire, ritagliare volti soli nella folla delle fotografie, smorzare le luci, rinvigorire i colori, poi prenderle e gettarle al fuoco come carne viva? E carne viva fu. Della passione arroventata dentro un letto, e voci calde che di nuovo mi scaldano. Cos’è stato aversi se il risultato fu perdersi? Perdemmo, consapevoli dell’errore, come in una mano di poker. E la fortuna ti rese eroe per un giorno, a braccetto con l’illusione di non perderla più. (Ma perdesti il coraggio, mille volte, mille volte perdesti il coraggio).

Cosa è stato, se due minuti soltanto avevamo, e divennero ore incatenate alla spalliera del letto, e non per fingerci scienziati del sesso, ma per raccontarcelo ancora quel nostro mondo a rovescio – e perfetto -, visto come in fotografia, ognuno dalla sua parte del letto. (Non fu che un soffitto a renderci reali, e queste mura macchiate di giorni e di odori. Non fu che un miraggio l’idea di restare, e re-stare davvero).

Fu solo che i polmoni smisero il respiro, fu patire più forte e in sordina, e partire – valigie pronte – lontano da noi. Fu un gesto inconsueto, riempire il tuo bicchiere - e non più dopo il mio -, a farmi guardare alla goccia – alla minuzia - che avrebbe fatto traboccare il cristallo – che per anni raggirammo -. Fu solo un destino, ancorato ad ipotesi mistiche e realistiche di quanto il tempo cambi le emozioni, e quanto ci modelli, in relazione a nuovi venti e nuove idee. Fosti solo un viaggio, l’itinerario vario e avventuroso che mi ha portata qui. Fosti ali e sudore, e immaginazione. Fu il gioco più giusto, la cornice perfetta, l’emozione provata, la scia del mio viaggio fin qui - creatura senza passato -, a stringere la mano - e forte - a chi davvero è restato.

Così è stato.

venerdì 22 marzo 2013

Eclittica (traiettorie in disuso)




Prima v’era il ghiaccio, e coperte di lana a vestirci di tepore quel tanto che bastava a non dirci freddi, il gelo che senza bussare entrava dalla porta, dalle fessure, dalle serrature. Quel sentimento del pudore che non perdemmo ma acquisimmo, col tempo, guardando cornici senza foto: come se a non mostrare il volto si potesse celare quell’afflato, quel coraggio, quell’affanno. 

Prima v’era un inverno, un inverno lungo cinque interminabili stagioni, e la fretta di correre più veloce della memoria: guardarmi alle spalle e non veder neanche l’ombra tua sfocata, non saperti e non veder più di te la sagoma, trovarmi intatta nelle mie sole mani, non aver traccia di te e del calore che mi davi.

E sì, v’erano colori e schizzi di inchiostro come di vernice e un buio dei sensi che veicolava la ragione: cercai la luce con la fame di un cieco, ambii al coperto come in inverno un clochard. Faceva freddo, solo poco fa. C’era la neve, ce n’è stata per mesi. Interi giorni a cercar quel calore, la passione posseduta e perduta, pensata e riavuta. Quel chiarore rimandato e così ostinatamente cercato, smarrito. Svanito. Oscurato.

Prima v'era la paura del buio al tramonto e le mani tremanti, ché fingevano solo la presa.
Prima v’erano brividi, lungo la schiena e più in fondo, del tuo tatto e del freddo che, nonostante te e le coperte, avvertivo. 
Prima v’era un dolore, nascosto e pure composto, di abbandoni e carezze private. 
Prima v’era un silenzio a rimbombare nella stanza, acqua salata e sorgenti inesauribili di parole da vomitare.

Ora c’è il sole. E caldo, e calore. E luce. E chiarore.
E non fanno più paura, il freddo e la sera.

Ora
che è
prima-v-era.

sabato 16 marzo 2013

Il sospiro concreto (climax arbitrario)



Cosa vuoi che sia un solo foglio bianco?

Che vuoi che siano le differenze, quando a contare son le similitudini? Che vuoi che sia un'ora di ritardo, quando ciò che arriva è ciò che per anni hai cercato? E cosa vuoi che importi se il mio foglio resta bianco, appeso alle incertezze che ancora logorano, a sventolare come una bandiera di resa: depongo le armi – poggio la mia penna e il mio inchiostro – non scrivo perché sento, sento senza il bisogno di scriverne.

E poi che vuoi che sia la distanza, questo rincorrerci e fuggirci oltre ogni logica sequenza. Cosa vuoi che importi se al mattino la mia pelle è più ruvida e i miei occhi nell'indugio sono persi. Cosa vuoi che sia questo languore – figlio di un contrasto, un insieme incoerente di pensieri – e questa sete di sorrisi che ogni dì io avverto. E che vuoi che sia il tempo – questo spazio temporale che è carnale, e vorace, e carnivoro. Cosa vuoi che possano le voci e i rumori acerbi della città – povera illusa, che crede di conoscere tutto lei, e invece di noi non seppe che un accenno. E invece di noi non udì che l'ouverture -

(Respiro. Accenno una canzone: lento incedere degli anni come diapositive, sapere di esserci e non riuscire a specchiarsi.) 

Cosa vuoi che sia questo cielo, questo amalgama di fumi e di pressioni, i miei occhi assorbiti in una nube malevola, il sole, lì nascosto, ad illuminare in sordina. Cosa vuoi che conti un re-spiro più lieve, uno di quelli che a determinarli è una sillaba sola, particella so-stitutiva e verbale che muta una nota in un soffio e un desiderio in realtà: che fa di un RE-spiro un so-spiro. Ancora a metà.

E allora, davvero, cosa vuoi che importi se il mio foglio resta bianco, quando al mio respiro si è sostituito nuovo fiato? Della passione ascritta dentro un solo verso: concepirti e concepirmi in un sospiro lieve, celato dietro coltri di parole. Descriverti un momento, definire ciò che vedo, determinare un'emozione. Come a volerla rendere più vera, fruibile e concreta. Di concreto, tra i miei occhi e i tuoi, proprio non v'è nulla. Solo il mio foglio. Che, sì, resta ancora bianco. (Ciò che v'è scritto non è che un sospiro)

(Sospiro. Ascolto una canzone: il veloce scorrere di un'emozione che non ha parole, che vive di sospiri, che sa di esserci e non pretende di specchiarsi.)

mercoledì 6 marzo 2013

Vedemmo Amore scritto su di un foglio


(Non saperlo scrivere. Perdere il filo e non ritrovarlo. Tutto è scritto. Non nel destino, ma sui miei fogli.)



La linea della mano da intuire – quale sia la traccia che lascia, da dove nasca, dove poi giunga. I destini come corde ad intrecciarsi -  sguardi che prendono la forma delle mani, si legano, sovente, alle intenzioni dell’altro. Era Maggio: germogliavano i ricordi di un futuro anni prima ipotizzato. La nascita di un futuro nel passato, l’ossimoro che è antitesi sincronica, logica, coerente. Nuova treccia di iridi, colori complementari a fondersi in miraggio: vedemmo Amore scritto su di un foglio, scoprimmo di saper leggere insieme – nello stesso istante – un termine universale e polisemico, del quale mai conoscemmo un solo senso. Era Marzo: incastri oltre la pelle di carne e indugi vari, la scoperta che è l’illusione a fare da croupier, la certezza che se la fortuna non ti guarda è perché non l’hai guardata tu. 

- Sei stanca? Sei più bella quando ridi. -
- E’ stata una giornata dura. -
- Ti faccio un caffè. -
- Meglio del tè, hai del tè? -

E allora tra i vapori, in quello stesso istante, la vista era annebbiata e la razionalità pure. Disegnavo su di un foglio volti buffi, api e fiori, cani e gatti, e ogni tratto di matita pareva una nuova linea della vita. Il sudore della notte sfidava i sensi, non sentivo altro che caldo. Alla luce fioca dell’abat-jour guardavo la mia mano come fosse una cartina: quale strada prendere era solo una scommessa, vi sarà comunque quella deviazione, pensavo, quello scombussolamento inevitabile, quel dover decidere se andare o rimanere. E ricordavo ancora una notte di Novembre, quando altri occhi promettevano così come Giuda baciava. Perché guardarsi le mani è volgere lo sguardo a tutto ciò che è stato fatto e detto, il dimenticatoio che dimenticatoio non è mai, il cassetto dei segreti che da piccola serravi con la chiave e da grande vorresti non aver aperto mai.

- Perché ti guardi le mani? -
- Qui c'è scritto ciò che sono, ciò che ho avuto, ciò che per sempre è perduto. -
- ...e ciò che ancora non hai avuto. -

La linea della mano da intuire. La guardai, ancora confusa a ritrovar la strada persa, voltare a destra e incrociarne - proprio come fa il destino - un’altra, incisa sullo stesso palmo – che corre sulla stessa linea del (mio) tempo -. Un nuovo sguardo da fondere col mio, una nuova illusione, una nuova mappa e una nuova passione. Nuovi incastri di iridi.

E allora risi. E risi forte. E risi tanto.

- Sì, sei bellissima quando ridi -

E vedemmo Amore, come un miraggio, comparire proprio lì sul mio palmo.

lunedì 18 febbraio 2013

Ciglia (la tua carne d'oro e seta)




E cambieranno le stagioni, sì, cambieranno. Cambierà pure questo vento, che da est soffia come fa al mattino la luce. Si modificheranno i giorni, le carezze, e questo fluttuare nell'aria - come sospesi, ad un metro da terra -. Cambieranno i punti di vista, le certezze, le espressioni del tuo viso. Il sonno si farà più leggero, le risate in sordina, il mio fare e disfare sempre più incerto. Ci saranno piogge e giorni guasti, e la fretta di rimediare al danno prima che i tuoi occhi vedano lo scempio. Echeggeranno grida, graffieranno queste unghie la tua carne d'oro e seta, per poi spezzarsi, stremate dalla mia saliva e dai miei nervi. Ci saranno nuovi odori, e nuove facce da mostrare, toni più crudi, lacrime amare. Cambierà questo cielo che oggi pare dipinto - e le sue nubi, quest'ovatta a disinfettare i cattivi pensieri -, il suo apparire terso e il mio volto incredulo nell'ammirarlo. Muteranno pure i baci, l'impazienza di toccare, anche solo di sfiorare, quel germoglio muto e di velluto. Saranno ore di parole, e lunghe lettere in cui chiederò scusa, e abbracci di rabbia a vestirci di pelle, a curare quei graffi, a saperci qui intatti. Cambieranno i film da guardare, il mio piatto migliore, il sapore del caffè la mattina. Sarà diverso anche il respiro. Diversa sarò, diverso sarai.

Ma i tuoi occhi - quel modo unico e umido che hanno di riempirmi, quel vestito di sguardi che ogni giorno indosso, quel dirmi atono che è dietro le ciglia -, il tuo sguardo quando nel mio si imbatte e si riflette, quello no, non cambiarlo mai.


(Domani, o quando sarà, 
uno sconosciuto leggerà)

sabato 9 febbraio 2013

La meta


Di ogni strada percorsa negli anni e poi dimenticata, percorsa e ricordata e per questo temuta, percorsa o solo intravista, di ogni strada che avrei potuto evitare, di ogni strada sbagliata, rischiosa e rischiata, di ogni strada 

tu 

sei la meta.




Music by Radiohead - Fake plastic trees




(l'ipotesi sognata)

martedì 5 febbraio 2013

En plein air (l'equazione)







Non piove. Non piove nonostante da giorni le previsioni meteo predicano acqua e laghi di posa. Non piove neanche oggi, mentre voglio il buio, lo pretendo, ordinando alle imposte di essere per me come lenti solari, di non svelarmi al mondo, di non svelarmi il mondo. Eppure il cielo c’è, lo stesso, e filtra inarrestabile da quelle piccole fessure. E inevitabili. L’aria necessaria, il giusto ricambio, sapere che un’alternativa c’è, e non riuscire a gestirla. Muovere le mani su una tastiera che pare camminare – il premere dei tasti come passi verso una meta, quale sia, poi, chi lo sa -, sapere già quale sarà la cadenza delle mie parole, quale il suono, quale il senso, quale il vuoto. 

Accorgermi, aprendo gli occhi all’alba, di avere il sole lì nel letto, intatto, lucente, come non credevo di poterlo più vedere. Scoprire, d’un tratto, come un flash che fa sbattere le palpebre improvvisamente, che il cielo non piange. No, non piove. Non piove e su questo proprio non c’è dubbio. Ci sono, però, dubbi sull’incedere dei giorni, sulla piega che prendono, sull’equazione matematica che mi impongono e non spiegano, lasciando a me l’interrogativo dell’incognita. Il futuro. E la matematica non l’ho mai amata, mai: come ad un quesito ci sia una sola risposta possibile, l’assolutezza della soluzione, il determinato, come a dire che sull’esito delle cose, sulla loro esattezza, proprio non c'è dubbio. Nessuna traccia di pioggia sul terreno, mentre piove su ogni più piccola certezza. 

Riuscire a scrivere solo se nelle cuffie ho la tua musica, come una ninna nanna che stimola i sensi piuttosto che addormentarli. Non trovare il tuo ombrello e vedere al suo posto il mio, nuovo, colore dell’ambra. Pensare che a nulla servirà, e lasciarlo qui, a sgocciolare residui di acqua piovana che son solo passato. No, non piove: il sole asseconda il color mattone della capitale e le lascia fare, en plein air, quello che io faccio davanti al foglio bianco, in queste quattro mura: lasciarmi essere me. Nessuna assolutezza, solo il coraggio di ammettere le infinite possibilità che il tempo darà, le diverse soluzioni, l’ordine degli addendi che paradossalmente può, dico può, cambiare il risultato. Sento. Avverto. Un sospiro a ricordarmi i baci. La finestra a ricordarmi del domani. I miei passi sull’asfalto asciutto, in questa corsa verso ciò che voglio: questo andare e andarti incontro come non avevo fatto mai.

E su questo proprio non ci piove, sai?


(Immaginarmi un domani 
nell'incognita delle tue braccia.)