mercoledì 2 maggio 2012

Io(,) volto -il giorno verticale-





Girai la chiave nella serratura più volte. Ad ogni mandata, un brivido attraversava il mio stomaco vuoto. Ritornerò, pensavo in fretta, avrò tempo per ripercorrere ogni cosa e ritrovare le mie tracce. La chiave – smaltata di vernice color oro – sembrava chiudere per sempre una di quelle porte oltre le quali si apre una strada, una già percorsa, che custodisce un tesoro. O che nasconde, allontana, seppellisce un dolore appena messo a tacere. Decisi di partire. Partii.
La ricchezza si esibiva in ogni movimento. La chiave – d’oro -, sembrava incastonata – come diamante – nella serratura di una porta dalle decorazioni barocche, imponente, scura e pesante. Dietro, il passato era una nube che lentamente svaniva. Oltre, i miei passi si alternavano lungo una strada, una nuova, che non sapevo dove mi avrebbe portato. Con una matita disegnai mappe sulla mia moleskine, che ancora oggi conservo intatta. Così come intatto è il ricordo del mio viaggio, che finì con uno zaino in spalla e una canzone in tasca. Che finì per gestire la mia vita ad un passo dai vent’anni.

Poi le mani dei passanti – incontri e scontri per le vie del mondo – sembravano indicare sempre -a terra- un punto definito. Come a dire questo è il tuo luogo, come a dire ora fermati qui. Gli occhi dei passanti si alternavano lungo i vialoni, tra boutique e coiffeur,  folate di vento e meraviglie di sole. Pure nel buio pesto, sentii in ogni via odore di vita. Parigi non ha mai sonno, d’estate: il giorno si allunga sulla linea dell’orizzonte, si stende per ritornare solo più tardi verticale, a coprire con un estremo la luce del sole. E invece la notte sembra un soffio, per le vie di Parigi. Una carezza le sue luci all’alba, il frusciare della Senna, i lampioni arancio davanti all’Opera, i cappellini naif delle signore di una certa età, i bateaux che ogni dì sembrava mi aspettassero. Il tuo sorriso appeso all’Arco di Trionfo, le braccia tue ancora custodi di un addio. Il mio. [...]

Tornare non è mai facile. Sbattersi in faccia di nuovo la realtà, ritornare al buio pesto di un giorno che vive e muore verticale. Al ritorno, girai la chiave nella serratura più volte. Ad ogni mandata, un brivido attraversava la schiena gelida. Ritornerò, pensavo, avrò tempo per tornare a Parigi e ritrovare le mie tracce. La chiave, ancora placcata d’oro finto, sembrava aprire e chiudere per sempre una di quelle porte oltre le quali sai che un giorno tornerai. Lo sai.
Come con una matita – su di una moleskine - svelai ai miei occhi il volto vero dei passanti. Scrissi pagine intere, che presero la forma -esatta- di ciò che vedevo. Le parole, dietro le parole c'è un mondo fatto di immagini e suoni, e profumi e freddo e poi il sole, il gelo, il mare, l'acqua, ogni suo sguardo, la luce tiepida del mattino, il sorriso di un bambino. Dietro le parole c'è la Vita. Come avessero un corpo. E, come con una matita, scoprii il profilo del tuo e di altri mille sguardi. Riassunto striminzito di una vita – di un diario, un blocco note – che è volto – e volto – all’ultima pagina.
Nuova moleskine, rosso vermiglio. Nuove labbra, rosso porpora. Una nuova porta da aprire, stavolta senza chiavi. [...] E tu -tu- tornerai a bussare?





4 commenti:

Flyinlife ha detto...

Ogni volta che rileggo mi sembra d'aver perso qualcosa
e mi vien voglia di rileggere
Ma ogni volta che ricomincio mi sembra d'afferrare il filo
un orizzonte verticale che riesci a dare alle tue parole in fila.
Fa che non sia un rimpianto ad accompagnare la tua vita
ma il ricordo di un'esperienza che è andata esattamente come doveva.
E che oggi ti ha resa bellissima...

Anonimo ha detto...

Il biglietto

Prima Parte

Leggera la frase all'interno di un biglietto che lei ha spedito a lui, scoperto appena ieri tra la copertina di un libro e l'altro,mi ha spaccato il cuore. In questa storia sono solo uno spettatore. Tutt'al più posso apprendere il dolore, il bene, il male, l'amore.


Ho sentito gli occhi che si arrossavano e lacrime di fuoco riempirli per poi travasarli sul mio viso ignaro. Il dolore di un amore finito tra il bene che fu e il male, il male terribile di una frase.

Mi hai spaccato il cuore. Un dolore come nessun altro. Inspiegabile e allo stesso tempo comprensibile e razionale. L'amore tra il dolore, il bene e il male. E l'amore per essere tale alla sua radice all'ennesima potenza non dovrebbe mai trasformarsi in dolore e poi male; male nel dirsi Basta è finita.

E quel ricordo continua a torturare lei. Eh, a volte soffre l'uno e a volte l'latra, come in uno scambio osmotico di bene e male.

E niente meno mi ha fatto piangere. Lei, Cecilia, con quel suo bigliettino che tra poco vado a riprendere stretto tra due libri per bambini dalle copertine grandi e rigide. Alice nel paese delle meraviglie, Le avventure di Tom Sawyer e Il giornalino di Gian Burrasca. Una frase semplice, semmai scritta e detta milioni di volte, mi ha spaccato il cuore.

Probabilmente adesso ripiangerò. Davvero uno stupido. Non lui, mio figli Giulio, ma io, Germano Assottigliati che mi commuovo nella desolazione disperata di quella frase.

E ieri non stavo leggendo un bellissimo romanzo o un magnifico racconto e tanto meno una splendida poesia che mi hanno rapito e rinchiuso all'interno del mio petto che non sapeva esprimere ciò che percepiva.

Ora il sole splende, qualche nuvola di passaggio l'oscura. Tra poco finirò ciò che dalle mie mani passa sui tasti e segna una sorta di racconto con frasi che si concatenano. Eppure c'è solo il filo di una frase, fragile e sottile, ormai nella polvere di tutto, che si materializza su un foglio che a comando la stampante emette.

Eteronima ha detto...

Fly, al post effettivamente manca qualcosa. Ma anche in quell'assenza, in quell'incompiutezza c'è il senso più o meno chiaro di ciò che volevo esprimere. Ti abbraccio.

Transit caro, attendo impaziente la Seconda Parte.

Anonimo ha detto...

Il biglietto

Seconda Parte




E la frase, poiché siamo esseri curiosi e amanti estatici e maligni, qual è la frase che ti ha confuso il cuore e bagnati gli occhi, mentre ancora ti mettevi in macchina per andare a lavoro? Non credi sia giusto disseppellire da quel carcere di ovvia discrezionalità di tuo figlio che la tiene ancora tra quei libri e forse lui stesso dimenticata per pudore, oblio e inspiegabile spegnimento dei sentimenti?

Forse non solo noi, o tu che scrivi, dunque io medesimo, e la frase e stessa e chi l'ha scritta e darne visibilità nell'anonimato dell'amore che ogni giorno e ora lotta tra il dolore, il bene e il male. Quel bene e male, cioè amore a tutto tondo, che diventa agghiacciante indifferenza di acqua che scorre. Ecco, adesso qualcosa mi si sta conficcando nell'anima e perciò dispormi alle macine del dolore. Ma adesso, qui e ora, scrivi, si proprio tu, scrivi la frase che lei, a monte di miliardi di stelle e lacrime e forse a valle di pensieri distruttivi, scrisse per lui e che Giulio ha tra i suoi segreti intimi.

Abbiate un po' di pazienza.
Mia figlia sta lavando il pavimento perché Lello, il nostro cane, un volpino che viene dall'Ungheria o forse da un altro paese dell'Est, girando per casa, trascina le sue gocce di pipì, sporca. E abbaia.

Ho rifatto il letto matrimoniale, adesso devo sistemare quello di Giulio e approfitterò per prendere il biglietto e darvene finalmente conto. In questi giorni ho ripreso a leggere Io uccido di G. Faletti e dentro come segnalibro c'è una foto della statua che ritrae il poeta ungherese Josif Attila che un collega, saputo il mio interesse per quel poeta, mi regalò, poiché sposò una ragazza di quel paese da cui ebbe un figlio a cui una volta all’anno va a far visita.

Yosif Attila è morto da tempo, ma ho un suo libriccino di poesie. Ho saputo che la moglie del mio amico è morta di un male incurabile.

Il mio amico Carlo si è risposato con una collega di lavoro. Con la seconda moglie non ha figli, l'unico è quello che vive in Ungheria avuto dalla prima moglie che lui mi presentò e di cui non ricordo il nome. Nelle storie altrui dimentichiamo inevitabilmente qualcosa, forse per difesa.

Tra il libro di Faletti, l’efferatezza dell’assasino in quelle pagine e la frese che devo trascrive, la moglie morta del mio amico e tutto il resto, non passa nessun legame, neanche a volerli trovare.

Di tutte le cose, uomini compresi, non rimane nulla, se non la polvere. Forse siamo noi a voler essere testardi e la polvere si incarica di ricordarcelo.
O rimane solo un oggetto, forse un anello di nessun valore, o un biglietto, che adesso apro con lentamente, come a voler ingoiare il tempo di quel che è accaduto, e in cui lei scrisse:

Anche se ti sei
dimenticato,
fa niente...
Auguri
Amore mio.

Cecilia

Ecco, quel … Auguri, Amore mio, mi ha spaccato il cuore.


Un mese fa incontrai per strada Cecilia, appena mi vide pianse, le sorrisi e ci mettemmo a parlare di lei, dell’università a cui si era iscritta e poi della loro storia e degli strascichi. Quando arrivò il bus sorrise, ma piangeva. Per fortuna avevo gli occhiali scuri.

Riprendo il biglietto.
Mi vesto. Esco. Vado a comprare pane e giornale. Ci sono nuvole basse. Il sole si muove dietro le tende. Metterò lo stesso gli occhiali scuri.

Tra le cose non c'è un legame, questo compito lasciamo ai poeti che son cocciuti nell’ascoltare le parole dei fantasmi passati e futuri, forse è il peso delle cose a metterle insieme, anche se la polvere, il vento e l'oblio della dimenticanza forzata e della disperazione se le porta via, resiste la fragilità di una frase nella piegatura di biglietto chiuso come un libro come un cuore come il buio avvolge.

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