lunedì 17 settembre 2012

Supplica al cielo -delle banalità-





“E tu quanti anni hai?”. Le rughe sulla sua fronte, espressione di un tormento intimo, malcelato ma già attenuato, scrivevano romanzi di vita solo a guardarle. Ed io? Io quanti anni ho? Ricordo –come in un sogno- mentre con lentezza toccava i lacci delle scarpe. Ricordo con quale cura riponeva i suoi vestiti nell’armadio, secondo criteri che nulla avevano a che vedere con le stagioni. Li ordinava, già abbinati, come fossero ingredienti per una pietanza speciale. Ricordo la seta, profumava di mandorla. Ricordo le sue mani, porcellana e vernice. Smalto bordeaux, anello in rame. Ricordo le sue mani come fossero di un’altra. Troppo ruvida è la fatica per la sua pelle ancora così giovane. Mi chiese “tu quanti anni hai?”, mi disse che non avrei dovuto contarli, mai. Ed io da allora persi il conto. Ricordo una luce rossa nella sua stanza. Profumava di incenso. La guardai intromettersi nelle faccende del sole, quando affacciandosi alla finestra alzò gli occhi al cielo come in una supplica strenua: non era “perdono”, somigliava a “ti prego” - ti prego di non oscurare questa luce, ti prego, non piangere su di me -.

Le sue rughe sulla fronte raccontavano di un amore perduto a vent’anni e di un padre che scomparve prima che lei diventasse donna. Ricordo un ventaglio di pizzo, con i bordi in argento, logoro di quel tempo vissuto tra pagine e luce filtrata. Ricordo una voce rauca, quando –imbarazzandosi- raccontava di quell’uomo e di quando gli disse addio. Ricordo i suoi occhi bagnarsi di malinconia, la stessa malinconia che sentivo –io- premere sul costato. Era bella di quella bellezza eterna, che è timidezza e passione, che è frutto di un tormento, che è madre di quella saggezza. Mi disse che nulla si lascia al caso, che non avrei dovuto lasciarlo andare, quel sole, quel cielo, quel sentimento che nasceva piano. Ricordo un sospiro, quando, mostrandomi la foto di quell’uomo, alzò gli occhi al cielo come in un’altra –anche a lui rivolta- supplica al cielo: non era “ti prego”, somigliava a “perdono” –perdonami se ti ho allontanato, perdonami pure se non ti ho mai dimenticato-.


(A ottanta anni, come a venticinque).

4 commenti:

Flyinlife ha detto...

E tu, estasiata, a voler cogliere ogni singola ruga su quel viso, a voler dare significato a ogni segno sulla pelle, a inventare storie su quella luce negli occhi...
E lei,determinata a voler trasmettere ogni singola sensazione, ogni briciolo di esperienza che l'ha segnata e cambiata e maturata...
scambio di intesa, che coinvolge e trascina..

Eteronima ha detto...

Consola l'idea che ci siano anime ancora in grado di raccontare. Consola il fatto che il tempo non necessariamente distrugge, che c'è qualcosa di profondamente eterno che supera ogni limite temporale. Consola sapere che la pelle -il corpo, la carne- è solo un veicolo, o una rappresentazione di ciò che abbiamo dentro. Come a dire che ogni ruga segna un'esperienza, e gli occhi, gli occhi sanno tutto il resto. Così come consola sapere che cogli perfettamente tutto questo. E' sentirsi simili, è sentirsi anime, prima di tutto. Ti bacio.

Anonimo ha detto...

Anche «come petali», come questo, e' un bel brano che mi ha colpito; e proverei ancor piu' piacere a sapere se li hai scritti te.

correreoltre@alice.it

Eteronima ha detto...

Certo, li ho scritti io. Benvenuto ^_^

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