lunedì 28 marzo 2011

Ti chiederò di pettinare i miei capelli



Usavamo le casse come cuffie di una eco a raggio chilometrico. A rotolarsi negli occhi di una, le pupille dell’altra.

Io e te sappiamo quel che basta per conoscersi, e così ci siamo avvicinate, scoprendo di conoscerci già. Oltre le parole, le canzoni, o le telefonate che solitamente ci si fa, oltre i graffi sulla pelle, sorprendendoci a leccare le stesse ferite, rosse come il mio proposito, quello di tingerli prugna, i miei capelli. Li ho tagliati, sai? E non ho nessuna treccia da conservare, eccetto quella di dodici anni fa, quella che custodiscono gelosamente tutte le bambine. Non li ho tinti di rosso, ho preferito il biondo, ho preferito darmi nuova luce. Avrei scritto di lui, stasera. Invece scrivo di te, di quando te ne ho parlato la prima volta, senza nessun imbarazzo, senza nessuna lacrima inopportuna, col sorriso di chi ha preso coscienza di qualcosa e ci convive, in qualche modo lo combatte, in alcuni momenti ne fa addirittura la propria forza. Te ne ho parlato con la libertà di chi sa che le sue parole saranno custodite e accudite e, in qualche modo, fatte valere. Le ho viste entrarti negli occhi, le ho viste soffiare sulle tue ciglia, le ho viste poggiarsi sulla curva del mento, quasi volessero uscire dalla tua bocca. Le stesse.
In qualche modo, tu mi capisci. Così come comprendi perfettamente quanto sia dura per me ammetterlo. Io, fiera e gelosa, che quello che è mio è mio, pure i tormenti. Così come sai che conservo la mia treccia perché la rivorrei, per avere l’illusione di rivivere quei giorni, per avere un’unica, dannata, maledetta possibilità di godere di un sorriso che non ricordo neanche più. E che mi basterebbe il tempo di scioglierla, la treccia, magari di rifarla. Sarebbe abbastanza.

Usavamo le cuffie come casse di una eco a raggio chilometrico. A raccontarsi, in segreto, delle braccia tese e dei vestiti da cercare.

A stringersi le mani. Hai colorato un inverno in bianco e nero, ne hai disegnati ormai a decine nella mia vita. M’hai stretta a te in quel giorno che ti aspettava, che io, cosciente, aspettavo, che tu non t’aspettavi. M’hai stretta a te in un momento che avevo già vissuto, che tentavo di cancellare, che, rabbiosa, provavo ad annientare. Sei riuscita a ricordarmelo con la delicatezza di chi non ti procurerà mai altro dolore. L’hai come intrappolato. Tu ci sei riuscita. In un modo o nell’altro, quella mia forza di cui parli, io l’ho avuta da te.
Ho vinto qualche paura, in questo tempo. Ne ho collezionate di nuove.
Ho superato qualche ostacolo, qualcuno raggirato, altri ignorati.

Sono riuscita a parlarne di nuovo, ora. Mi stupisco. E sarai stupita tu, quando leggerai tutto questo.
E quando dormiremo di nuovo insieme, nella stessa cameretta di allora, piena di peluche e fumo e musica, pettinerò i tuoi capelli.
Ti chiederò di pettinare i miei,
ti dirò "fammi una treccia".
Sarà abbastanza.





E hai sentito quegli imbecilli? Ancora a parlar di come uccidersi meglio. Ad avere il coraggio di chiederci. Hai sentito? Che il quoziente intellettivo degli esseri umani non deve essere basso, no no. In tal caso esisterebbe. Mi auguro che si possa essere all’altezza di scelte buone, sempre che qualcuno ci consenta di scegliere. Imbecilli. Rendiamo gloria alla Littizzetto, io di certo non so dire di meglio:




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