domenica 22 gennaio 2012

L'assenza di me (delle banalità)






La penna non riesce a farmi spiegare, e nemmeno la voce. Ma l’urgenza di dire, quella non si può fermare:

Il ticchettare dell’orologio mi sveglia.
Apro gli occhi in una giornata piovosa che niente di nuovo ha da dirmi. Il ticchettare dell’orologio ha scandito i secondi, e nell’aprire gli occhi mi son domandata per quanto tempo li avessi tenuti chiusi. Immobile. In un letto disfatto la sera prima. Che ha sfatto l’ultimo brandello di dignità. La chiamo così, da qualche tempo a questa parte. Chiamo così il senso di me, che è andato perdendosi da quando negli occhi degli altri non trovo più il riflesso mio. Come non vedessero realmente chi sono, e si ostinassero, ogni volta, a guardare in superficie. In fondo, all’incapacità di sentire non c’è rimedio, lo so. Ma ricordo che ero in grado di specchiarmi nei tuoi occhi. Ricordo che, nelle venature più scure delle tue pupille ritrovavo la strada. I tuoi occhi, cartine geografiche chiare del mio andare senza meta.

Occhi bassi sul libro di sempre. Sibilla racconta di una donna che decide di vivere d’istinto. E dell’istinto fare la propria condanna. Occhi bassi sulle stesse pagine che ti raccontavo. Che sentivo come lama nello stomaco. Che sento ora come avvertimento. Che avverto ora come sensazione fredda, e pericolosa. Della paura di me.

Il ticchettio dell’orologio mi sveglia anche oggi.
Guardo dalla finestra il tempo che è andato, quello ancora da vivere senza te – te che sognavi per noi cose grandi, te che fermavi il tempo soltanto con una mano, carezzandolo piano - . All’assenza, all’assenza io sono abituata da sempre, non m’ha mai fatto paura. Quello che temo, quello di cui ho paura veramente, è l’assenza di me. Di divenire istinto e solo istinto. Di non lasciarmi più guardare dentro, più in fondo. Di non poter più spiegare veramente i miei sorrisi, o i miei pianti troppo frequenti – ché sento la vita, ogni giorno, salire alla testa e poi colare dalle ciglia -.

Torno a casa. Ad aprire gli occhi. A fermare il tempo.A ritrovar me stessa.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Si può sostenere la solitudine, l'irrazionalità del mondo, tanti tipi e modalità di assenza, ma non la perdita di noi stessi, della nostra capacità di accettare la nostra presenza e di vivere in modo pieno e razionale. Lentamente cessiamo di esistere, tranne un residuo di banale apparenza, che il resto del mondo registra.

Eteronima ha detto...

La mia consolazione è che so di Esistere, di Essere, di Sentire. Quello che il resto del mondo (per fortuna non tutto) registrerà, se lo farà, non mi riguarda più. Mi salvaguardo, non perdo me stessa, no.

E' bello scoprire, attraverso le tue parole, di aver trasmesso esattamente il messaggio che volevo dare.
Sei, come sempre, il benvenuto. ^_^

Anonimo ha detto...

le dita che impugnano la penna non ha scritto quel che ha la mano ha cambiato.

dapprima foto sfocata, poi nitida, ora di nuovo sfocata.

Transit Medina
Sponde del Mediterraneo

Eteronima ha detto...

Refrattarietà. Parsimonia. Una foto sfocata. Le parole sono così forti e così assolutamente vere, che a volte fa paura anche solo pronunciarle. O scriverle.

Ciò che la mano ha cambiato torna alla sua natura originaria: la paura, il non-coraggio di cui si parlava.

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