mercoledì 8 agosto 2012

Luna a metà





Io la luna non la guardai neanche stavolta, presa com'ero a supplicare il tempo di fermare la sua corsa. Io i tuoi occhi non li guardai mai, prima che si offrissero ai miei. Non vidi vere e proprie carezze, sotto il cielo caldo di Agosto. Vidi scie di luce carezzare le guance del cielo, figlie di un senso più grande, lacrime preziose, più preziose dell'oro. E dello stesso colore. Vidi stelle cadenti, che chiamarle così rende metà della bellezza che sanno. Della bellezza che hanno. Della bellezza che danno. Le vidi sfiorarmi – lo giuro, sfiorarmi le guance- quando sottovoce dicesti “sei bella”. Vidi le tue mani salvarmi dal fuoco, nello stesso momento. Al confine del tempo. 
E poi, poche ore dopo, pensai che io e te siamo fatti per l'alba, mentre mi accompagnavi a casa e le mie mani chiedevano attrito, una scossa, qualcosa per cui fosse necessario staccarmi da te. Pensai che avrei potuto star lì anche il giorno seguente, senza stelle e senza tempo, senza nemmeno saperlo. Pensai che non so ancora distinguere i “se” dal Futuro, che sia semplice oppure anteriore. Pensai che la tua pelle ha l'odore che amo, che non troverò il coraggio di dirti che “siamo”, che lasceremo tutti i discorsi a metà, che anche stanotte finirà in un “guardiamo”.

E la luna sarà ancora là, crescente, a ricordarci solo metà della bellezza che siamo.

6 commenti:

Eteronima ha detto...

..ed è stato un pugno allo stomaco stasera, non stare con te ed accorgermi, tornando a casa, che la luna era perfettamente a metà.

transit ha detto...

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!




Composta nel 1819 (per alcuni nel 1820) a Recanati trovò una prima pubblicazione nel 1825 con il titolo “La Ricordanza”. Tema dominante, come ne L’Infinito, la gioia poi tradita dal dolore e un’unica via di fuga: i ricordi legati alla giovinezza.

Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837)

transit ha detto...

15.6.2011
finchè
gli innamorati continueranno
le loro bagattelle fughe tradimenti scoppiamenti lacrime e sospiri e giuramenti e nascostamenti
la luna
come Giuda, Ponzio Pilato,
Sacco e Vanzetti
è destinata attrice double face
a star lì come un lampione,
o rossa o d’o Ranavuottolo
Scartellato Giacumino Leopardi
palo di chiarore argenteo
sui sospiri gli idilli
gli addii.

transit ha detto...

h 22,18

Tu, luna,
a spostar tendine.
A litigare
con nuvole e ombre.
A seminare
scontrose maree.
A spronare
notti guardate.
Tra venti siderei
a sospirare galassie,
voci stelle di stelle.
A spulciare prati,
amori fioriti:
le ombre mortali.

transit ha detto...

Eri tu, o luna

Quel colore di cecità,
eri tu.
Quell’emozione a pelle,
eri tu.

Lo schianto dell’assenza,
eri tu.
Il perdurare della notte,
eri tu.

Quella canzone a cascata,
eri tu.
Il bacio a ciliegia,
eri tu.

Quel fiore sull’acqua,
eri tu.
Quell’arco di mare,
eri tu.

Quell’insieme unico,
eri tu.
Quell l’estate di sassi e spine,
eri tu.

Quei binari di nessuna partenza,
eri tu.
Scogli di rosario il tuo sorriso.
Eri tu.

Stringemi, dicesti.
Eri tu.

Guarnigione dei miei occhi,
palleggio di cuore scarnato.

Eri tu, o luna.
Luna piena

transit ha detto...

Mi ricordo. M’arricordo. Tengo ottanni. Enzina sette e miezzo. Stammo pazzianno a nasconnere.
Filumena, faccia a muro, inizia a cuntà. Il resto s’annasconne a ccà e a llà. Enzina me zennea e, fujmmo dint’o palazzo a 19. Dint’o vascio, sotto ‘o lietto, di sua zia Fortuna ‘a Ciaccessa(la chiacchierona). Me ienche di baci vavusielli ca sanno di fragolelle. Ciuciunea ‘ntrechessa. E, mette le mani miezzo le cosce. Miracolo!: ‘o pesce s’ ‘ntosta comme ‘na mazza. E, ce mettimmo a ridere.

M’arricordo il primo giorno di scuola (a)limentare. Dopo dieci minuti già stongo fujenno giù per le scale, miezz’a via. Aggia fa ambresso. Dint’e sacche arrepezzate si stà sciuglienno ‘o ghiaccio.

Mi ricordo criaturo. Giocavo con i pensieri, e i giocattoli, rari: scappavano da tutte le parti.

Ricordo l’asilo e a pranzo il piatto caldo e fumante. Ricordo lei, il suo nome no. Mamma sua la prendeva per mano e io con gli occhi l’accompagnavo fin dove svoltava il vicolo. Poi, di nascosto dalla mamma di lei e di mia sorella Tellina d’o mar’, che non so perché si faceva il pizzo a riso, con le labbra arricciate, le mandavo un bacio nell’aria. Poi, non la vidi più. Era di maggio, il mese in cui le famiglie cambiavano casa, e anche la sua famiglia cambiò quartiere. Ricordo…era la prima volta che piangevo per una femmina. Avevo pianto per il latte, il pane, le scarpe e ‘o cazone di colore cococzza.

Ho fatto cadere il piatto con i piselli e, lei è venuta faccia a faccia vicino,vicino a me: mi ha offerto il suo e, mi ha azzeccato le sue labbra sulle mie. Poi, si è messa a ridere. Ca ridi a ffà, l’aggio ditto. Il mucco appiso, il sugo e le lacrime sono salate, e lei pulendomi la bocca fa il pizzo a riso.

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